di Gianni Ferrara
Qualche premessa. La prima. La revisione della Costituzione è prevista e regolata dalle norme contenute nella sezione II del titolo VI del suo testo. Le parole che denominano il titolo sono: “Garanzie costituzionali”. Il significato di tale collocazione è di una evidenza solare. La Costituzione intende tutelare se stessa anche quando consente che la si modifichi. Non è un paradosso, è un permettere ed insieme un precludere, permettere innovazioni, impedire deformazioni. È il tributo che, dopo aver acquisito quel che poteva offrirle la storia dalla quale è nata, la Costituzione paga alla storia che verrà. A quella che vivranno le generazioni future, cui la Costituzione italiana non nega affatto il diritto a darsi una loro Costituzione, ma le esorta a meditare sul grado di civilizzazione politica e giuridica già raggiunto con la Costituzione che ereditano e sulle ragioni storiche di ciascuna di quelle conquiste, di ciascuna di quelle istituzioni che ne sono scaturite, di ciascuna delle norme che furono dettate.
Esorta a meditare anche, e forse soprattutto, sulle cause delle inadeguatezze, delle storture, delle carenze, delle contraddizioni degli ordinamenti statali precedenti o le regressioni che il costituzionalismo ha subito e subisce per il mai sradicato e implacabile suo opposto dialettico, l’accentramento del potere, qualunque ne sia forma, qualunque il nome che assume. Ovviamente, la normativa sulla revisione costituzionale, con le disposizioni che contiene l’articolo 138 della Costituzione, ha il suo destinatario ordinario, che si pone così come precostituito, legittimo,“naturale”. È più che noto che è il Parlamento questo destinatario, e lo è in quanto titolare del potere che quelle stesse norme hanno configurato ed attribuito. Quindi come potere di revisione, con gli ambiti ed i limiti che definiscono la revisione, attribuito al titolare istituzionale della funzione legislativa ordinaria, perciò al Parlamento nella sua composizione ordinaria. Non a un organismo, apparato, collegio, ente eccezionalmente ed appositamente istituito per l’esercizio di un potere dalle dimensioni indeterminate e per fini illimitati. Ma all’organo costituzionale competente per l’esercizio della funzione legislativa, un organo già ordinariamente istituito per un potere che, in tal modo, viene a configurarsi come potere costituito di un organo costituito. Costituito, quindi, non costituente. Ed in quanto tale, incluso, partecipe, anzi pilastro dell’ordinamento, quindi indefettibile, e perciò qualificante l’ordinamento e qualificato dall’ordinamento, vincolato dall’ordinamento in ogni suo elemento e tratto compositivo ed alle ragioni dell’ordinamento in ogni suo atto o astensione dal compiere atti.
Esorta a meditare anche, e forse soprattutto, sulle cause delle inadeguatezze, delle storture, delle carenze, delle contraddizioni degli ordinamenti statali precedenti o le regressioni che il costituzionalismo ha subito e subisce per il mai sradicato e implacabile suo opposto dialettico, l’accentramento del potere, qualunque ne sia forma, qualunque il nome che assume. Ovviamente, la normativa sulla revisione costituzionale, con le disposizioni che contiene l’articolo 138 della Costituzione, ha il suo destinatario ordinario, che si pone così come precostituito, legittimo,“naturale”. È più che noto che è il Parlamento questo destinatario, e lo è in quanto titolare del potere che quelle stesse norme hanno configurato ed attribuito. Quindi come potere di revisione, con gli ambiti ed i limiti che definiscono la revisione, attribuito al titolare istituzionale della funzione legislativa ordinaria, perciò al Parlamento nella sua composizione ordinaria. Non a un organismo, apparato, collegio, ente eccezionalmente ed appositamente istituito per l’esercizio di un potere dalle dimensioni indeterminate e per fini illimitati. Ma all’organo costituzionale competente per l’esercizio della funzione legislativa, un organo già ordinariamente istituito per un potere che, in tal modo, viene a configurarsi come potere costituito di un organo costituito. Costituito, quindi, non costituente. Ed in quanto tale, incluso, partecipe, anzi pilastro dell’ordinamento, quindi indefettibile, e perciò qualificante l’ordinamento e qualificato dall’ordinamento, vincolato dall’ordinamento in ogni suo elemento e tratto compositivo ed alle ragioni dell’ordinamento in ogni suo atto o astensione dal compiere atti.
È del tutto evidente che, dire “organo ordinariamente costituito per l’esercizio della funzione legislativa”, è lo stesso che dire, innanzitutto, organo legalmente costituito, composto cioè da titolari dell’organo legalmente preposti all’ufficio cui l’organo è riferito e, se organo collegiale, da componenti del collegio legalmente nominati o legalmente eletti. Le attribuzioni, le competenze dell’organo sarebbero altrimenti carenti per vizio originario o per cessazione sopravvenuta qualunque ne sia la causa. Con la conseguenza che tale vizio travolgerebbe automaticamente ogni atto eventualmente prodotto dall’organo riconosciuto privo di una legale attribuzione di potere.
Costantino Mortati [1] scrivendo sulla revisione della Costituzione, nel confermare che il potere di revisione è potere costituito e non costituente, sostenne che gli organi che agiscono contro la Costituzione non sono suoi organi, perdono cioè ogni legittimazione. Omise di scrivere che, qualora gli organi della revisione usassero il potere loro conferito sviandolo al punto da opporsi al fondamento legittimante della loro funzione, negandolo fino al punto da sostituirlo con altro principio, altro perché diverso quanto a contenuto, tali organi si porrebbero come organizzazioni eversive. I loro atti verrebbero a configurarsi come commissivi del crimine più alto, della massima illegittimità concepibile per l’ordinamento costituzionale vigente al tempo dell’azione commessa.
La vicenda istituzionale che sta attraversando il nostro Paese configura entrambe le situazioni di illegittimità ipotizzate nelle righe che precedono.[2] Ma prima di dimostrarne la ragione è opportuno esporre la seconda premessa che indicherà il principio di fondo che si vuol sostituire, la forma di governo che si mira a trasformare e si sta trasformando, quella parlamentare.
Non è una trasformazione dichiarata, chiara e netta, quella che si vuole instaurare al vertice della Repubblica. È anzi ignominiosamente camuffata. Non è in discussione la figura del Presidente della Repubblica, non lo si vuole investire dei poteri di capo dell’esecutivo prevedendone l’elezione da parte del corpo elettorale, elezione, che, d’altronde, non sarebbe, di per sé, fattore automatico di trasformazione del sistema da parlamentare in presidenziale. Non si vuole modificare la disposizione che conferisce al Presidente della Repubblica il compito di nominare il Presidente del Consiglio, di firmare i decreti di nomina dei ministri scelti dal Presidente del Consiglio e di presiedere la cerimonia del giuramento di ciascun ministro, dopo quello del Presidente del Consiglio. Da nessun atto o dichiarazione mai espressa risulta che si vogliono abrogare le norme costituzionali che impongono al Presidente del Consiglio di presentarsi entro dieci giorni dalla formazione del governo innanzi al Parlamento per riceverne la fiducia, tanto meno si vuole negare al corpo elettorale il diritto di eleggere i membri del Parlamento cui spetta il compito di approvare i progetti di legge presentati dal Presidente del Consiglio o dai suoi ministri. Non è la facciata dell’edificio costituzionale della Repubblica italiana che si vuole modificare. Si sospetta invece e fondatamente di una trasformazione, una promozione, un’elevazione, trasfigurazione di altro inquilino. Assicurando comunque al Presidente della Repubblica il ruolo di ospite d’onore di tale edificio per 7 anni ed anche più se dovesse occorrere …. al cerimoniale della Repubblica.
Si potrebbe quindi rovesciare la “gattopardesca” espressione che rivelò al principe di Salina il senso reale dell’annessione della Sicilia al Regno d’Italia, e domandare: se con le riforme Renzi-Boschi, resta “tutto tale e quale” quanto agli organi costituzionali e ai loro rapporti formali, perché mai “tutto cambia” quanto a forma di governo e con effetti preoccupanti sulla forma di stato ?
Rispondere a questa domanda impone alcune riflessioni sulle forme di governo. Si può partire dalla constatazione che esse non sono costruzioni dottrinali. I filosofi dell’età classica che scoprirono le forme di stato, le descrissero, le esaminarono e le giudicarono, ignorando serenamente l’esistenza delle forme di governo. Perché non erano nate e non c’era nessuna ragione perché nascessero. Non potevano inventarle. Ne mancava il presupposto, l’oggetto. Così come la democrazia diretta, la sudditanza diretta non ne aveva bisogno. E non ne avrebbe mai avuto bisogno, la sudditanza, se non fosse stata incrinata nella sua assolutezza e fosse stata messa in discussione prima e condizionata poi, e, di seguito, via via limitata e poi sdoppiata e infine dispersa. La democrazia invece sì da quando valicò i confini delle singole città e dovette espandersi a misura eguale allo spazio in cui si estendeva il potere sovrano delle monarchie. A produrre le forme di governo è stata quindi la storia degli spazi territoriali insieme, ovviamente, a quella dei rapporti tra sovrano e sudditi. Tra chi aveva il potere di espropriare e quanti temevano di essere espropriati, tra chi aveva monopolizzato la violenza e ne scambiava l’uso per garantire la sicurezza all’interno e dall’esterno e quelli che pagavano la protezione alla propria persona e ai propri beni. Pagavano ad un prezzo da concordare, secondo il rapporto di forza tra le due parti, una delle quali era composta da sudditi, sudditi dell’altra parte del negoziato. Quindi, rapporto sicuramente ineguale anche quanto alla configurazione delle parti della trattativa perché, con il detentore unico del potere, non poteva certo negoziare l’intera pluralità dei “protetti” disarticolandosi nei singoli suoi componenti. Che perciò cercarono e trovarono, nella storia del diritto, la soluzione della questione in una figura relazionale che ben si prestava a trasformarsi per corrispondere adeguatamente all’esigenza di assicurare la tutela degli interessi dei contribuenti nel negoziato col potere. Era la rappresentanza questa figura. Aveva come suo referente originario la res singula nei processi e la sostituì con la pluralità di persone, la pluralità di una classe economica e sociale che si affacciava alla politica.
Come tale, la rappresentanza incontrò e si scontrò proprio col potere di una persona sola, quella che deteneva il monopolio della violenza motivandola con la sicurezza che garantiva all’interno ed all’esterno dello stato, prima assoluto, poi nazionale, poi … . Cosa fosse lo stato e come si configurasse, quale fosse la sua forma, unica o duplice, lo rivelò Machiavelli precisandone la differenza quando scrisse: “Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini sono stati e sono o repubbliche o principati”.[3] E repubblica significava potere di un soggetto plurimo, principato significava potere di un soggetto solo. La repubblica come “imperio sopra li uomini”, di più uomini e, tendenzialmente, fino a tutti li uomini “sopra tutti li uomini”, il principato invece come imperio di un solo uomo “sopra tutti li uomini”. È da questa definizione che bisogna ripartire per giungere ad una persuasiva teoria delle forme di governo, che tenga conto delle ibridazioni intervenute e delle deviazioni che hanno subito e possono subire. Tenendo anche conto del condizionamento che dette forme non possono mai escludere o ridurre o incrementare o comprimere la forma di stato al punto da deciderne l’identità. Tenendo conto ovviamente che la stessa storia ne ha addirittura trasformato il contenuto. Tenendo conto soprattutto che la storia delle forme di governo è la stessa storia della rappresentanza, della sua estensione, della sua forza e della sua credibilità.
È quindi all’origine della forma di governo che è bene tornare. È lì che si trova il rapporto primigenio che determinerà la storia delle istituzioni statali e insieme la storia degli stati, iniziando a caratterizzare con qualche germe l’identità dello stato che si andava formando col carattere che lo avrebbe definito.
Una certa continuità di rapporti non certo armoniosi tra corona e feudatari in tutto il XIII secolo in Inghilterra, il carattere di adunanza che fu scelto per consentire che i feudatari e i rappresentanti delle contee, dei borghi e dei porti trattassero con la corona la gestione della finanza segnò l’inizio del parlamentarismo e quindi della rappresentanza. Segnò la storia degli stati che divennero moderni e, con essa, la storia della sudditanza, delle obbligazioni dei sudditi in quanto tali ed in quanto a quella che oggi chiamiamo capacità tributaria, fino al suffragio universale ed al rovesciamento, anche se lento, affannoso, incerto del rapporto di sudditanza dal sovrano del regno al popolo sovrano.
Questo rovesciamento, dunque, che si va compiendo pur se con stasi, interruzioni foriere di regressioni e di accelerazioni da otto secoli, è uno di quei processi che si dispiegano “nel lungo periodo” e nel lungo periodo incontrano ed acquisiscono ulteriori contenuti e nuove forze o anche deviazioni ed ostacoli. Non si è esaurito. Perché non si è esaurita la potenzialità dello stato nell’inventare nuove funzioni legittimanti o nuove forme di esercizio del potere chiunque possa esserne il titolare legittimo o il soggetto capace ad esercitarlo.
Una costante però può ritenersi sicura: è quella della tensione all’erosione del potere monocratico cui corrisponde dialetticamente una ritorsione, quella del potere a ricomporsi in forme rinnovate e dimensioni diversamente dislocate. Di questa dialettica la democrazia è insieme soggetto ed oggetto perché rivelatrice della opposizione trademos e kratos, i due termini che, nel rapportarsi, rispondono a due diverse leggi di movimento, quella del demos che è tesa alla diffusione, espansione, inclusione e quella del kratos, volta, invece, alla concentrazione, condensazione, esclusione.
Questi tre termini richiamano direttamente i caratteri della fase storica che stiamo attraversando, la fase della reazione alla costruzione del welfare state e che, mediante la liberalizzazione dei capitali dalla democrazia negli stati, ha imposto ed impone l’incremento della loro retribuzione, la conseguente restrizione della spesa pubblica e con essa lo svuotamento dei diritti sociali. È per assicurare tali obiettivi che la Trilaterale teorizzò l’eccesso delle domande della democrazia, la necessità di ridurle stante la loro insostenibilità da parte del sistema capitalistico, dispiegatosi secondo il parametro liberista dettato dalla Scuola di Chicago e accolto poi come fondamento dell’Unione europea con i Trattati di Maastricht e quelli che gli sono succeduti. Trattati che hanno poi acquisito amplissime quote di sovranità erose agli stati membri e volte tutte ad assicurare il dominio incontrastato del capitalismo liberista.
Il segno, il carattere di questa fase storica è evidente. Non soltanto cresce la concentrazione del potere ma è poderosa la sua estensione. Non risparmia le forme di governo. Quanto a quella presidenziale vale l’esempio degli USA. Con l’affermarsi della tendenza imperialista fu abbandonato il Congressional Government (Wilson) e la primazia del Presidente ha poi sviluppato tutte le sue potenzialità. Senza però stravolgere il modello disegnato nel 1787 dalla sua Costituzione.
A stravolgere quello disegnato dalla sua Costituzione è, invece, la spinta monocratica che si manifesta prepotentemente su quella parlamentare in Italia. Non è che in via generale, la premiership si sia consolidata a danno della rappresentanza in tutti gli stati a regime parlamentare. Tutt’altro. Anche le premiership forti poggiano sulla rappresentanza la loro stessa primazia. Lo confermano l’esperienza inglese e quella tedesca. Esperienze che, nel rivelare elementi di personalizzazione e di plebiscitarismo, li contengono all’interno della rappresentanza partitica che resta comunque incombente e avvolgente nell’attività parlamentare oltre che sede del potere di ultima istanza. La tendenza che si profila in Italia è, invece, di altra natura. Si basa sulla decadenza dei partiti come istituzioni, la accentua, trasformandoli in comitati elettorali di un leader, cui offre un potere politico eminente in tutte le fasi del processo istituzionale. Iniziando dalla predisposizione delle candidature (stante che quella delle primarie si rivela essere una legittimazione truffaldina). Fa leva poi su di un sistema elettorale ad effetti maggioritari falsati dal c.d. premio di maggioranza. Ne consegue la distorsione dall’elezione a funzione di diretta determinazione di una maggioranza servente il leader. Lo investe come premier. Trasferisce così al leader–premier il potere politico connesso alla rappresentanza.
La conseguenza è che mentre la storia del forma di governo parlamentare è storia, pur non lineare, dell’attrazione del potere esecutivo nell’area della rappresentanza, dalla opposta sequenza partito – comitato elettorale di un leader, leadershipconseguentemente potenziata, sistema elettorale ad effetti maggioritari falsati,premiership legittimata dall’elezione, consegue l’attrazione della rappresentanza nell’area monocratica dell’esecutivo. È quanto dire che il parlamentarismo che si vuole e si sta instaurando in Italia è quello che lo snatura. Ne determina la mutazione genetica della quale va ora scandito il processo. Non prima però di precisare i termini che lo definiscono. Quello iniziale e quello terminale.
Il termine iniziale del processo è, non per caso, quello che all’articolo 1 della Costituzione, contiene la scelta di genere, quella di Repubblica, e la qualificazione di specie, quella democratica. Che questa qualificazione si distingua da ogni altra per la serie indefinita dei suoi significati, per la molteplicità dei denotati cui allude, per l’emotività che suscita anche inconsciamente, è certo, ha tuttavia un riferimento inoppugnabile al demos, quindi alla base sociale della Repubblica. In questo contesto va interpretata come fonte indefettibile del flusso di legittimazione che può, esso solo, fondare e sostenere una qualsiasi entità organica della Repubblica. Al secondo comma, questo articolo, riconosce nella sovranità popolare il titolare unico del potere supremo e ne definisce le qualità esclusive ed escludenti del suo esercizio. Assume quindi il monopolio della legalità costituzionale e lo racchiude “nelle forme e nei limiti” che sancisce. La prima deduzione che si può trarre da queste norme è, in ordine alla revisione della Costituzione, l’esclusione di procedure revisioniste diverse da quelle prescritte. Ne sono state tentate varie nei decenni scorsi. Il loro fallimento dimostra la forza non ridotta della preclusione contenuta nell’art. 1 Cost. Non è però l’unica delle prescrizioni costituzionali deducibile dal primo articolo della Costituzione.
Ce ne sono altre. Ce ne una ed è fondamentale. Attiene alla forma di esercizio della sovranità. Non è scritta all’articolo 1, ovviamente, e non poteva esserlo. È scritta negli articoli che riconoscono e sanciscono i diritti politici dei cittadini ed in quelli che disegnano le istituzioni che ne assicurano l’efficacia. Istituzioni che nel collocarsi al vertice degli Stati, nei regimi rappresentativi – quali sono o appaiono o comunque dichiarano di essere tutti i membri dell’Onu – possono realizzare due specie di relazioni funzionali. Sono queste relazioni quelle che individuano le forme di governo. Che è bene, in questa occasione, non limitarsi a nominare dandone per scontati i caratteri ed il valore ma, di tali relazione e di tali forme, accertare, analizzare e dispiegare i contenuti reali, le differenze funzionali e la effettiva dipendenza e distanza dai loro fondamenti.
Prima tra queste istituzioni è in ogni caso il Parlamento che si pone così come il termine dell’alveo principale del flusso di sovranità e di legittimazione prodotto con l’esercizio della sovranità da parte del suo titolare, il flusso della rappresentanza. Che, derivando da un’entità plurale, per restar tale, deve affluire in un organo, ente, soggetto a struttura corrispondente, perciò plurale. Flusso che, in via generale, in ogni ordinamento statuale rappresentativo, può avere, com’è noto, due tipi di sbocco, quello ad estuario o quello a delta. Quello a delta, duplicandosi – come si sa – costituisce sia rappresentanza che investitura, l’una per attribuire il potere legislativo, l’altra per conferire il potere esecutivo. Lo sbocco ad estuario, invece, provvede a realizzare una rappresentanza idonea ad esercitare sia la funzione legislativa che quella di investitura della funzione esecutiva, attraendo tale funzione, come già si notava nelle righe precedenti, nell’area della rappresentanza popolare, sottoponendola quindi al controllo costante del titolare del potere di investitura, quindi della rappresentanza popolare. Dire investitura insieme a controllo costante dell’organo investito da parte dell’organo investitore è lo stesso che dire fiducia. Fiducia del Parlamento al Governo, costante coerenza dell’azione del Governo all’indirizzo politico per il quale il Parlamento ha investito del potere esecutivo una determinata composizione del Governo, un determinato programma di azione governativa, quel programma che il Parlamento ha approvato come motivazione della fiducia concessa. Ecco spiegata la formula che definisce come fondata sulla fiducia del parlamento la forma di governo parlamentare. Per definire tale forma di governo si è ritenuto quanto mai opportuno insistere, oltre che sulla indefettibilità, sulle ragioni del rapporto, sul suo significato politico, sulle implicazioni che determina, quindi sulla fonte da cui solo può derivare la formazione, la composizione, l’indirizzo politico, il potere del governo, un potere derivato, derivato dalla volontà del Parlamento, almeno dalla sua maggioranza.
Si è ora nella condizione di confrontare le due leggi promosse dal Governo Renzi, quella costituzionale sul bicameralismo e quella elettorale, con la forma di governo disegnata in Costituzione. Ed è bene ripartire dalle considerazioni iniziali, quelle sul potere, e sarebbe forse meglio dire sulla competenza, quindi sulla misura (Giannini) del potere. Ma prima ancora della misura emerge la questione dell’attribuzione del potere. Nel valutare quello cui ha fatto ricorso il Governo con la presentazione e poi con il perseguimento dell’obiettivo “riformatore”, si è insistito, da chi scrive, nel definirlo come potere di revisione e si è insistito per riaffermarne i limiti, gli ambiti, lo spessore e la necessità che, ai fini della sua pretesa di legittimazione, nell’esercizio di tale potere, Governo e Parlamento si fossero rigorosamente attestati entro i confini precostituiti per tale funzione. Solo un accenno è stato dedicato ad una questione che è da considerare a questo punto e che è decisiva. È la questione del presupposto di questo potere, della sua legale spettanza.
Si può ritenere che tale spettanza sussista per un organo composto contravvenendo alle norme sulla sua composizione ? Sulla illegittimità costituzionale della legge elettorale denominata “porcellum” non possono esserci dubbi. La sentenza n. 1 del 2014 pronunziata dalla Corte costituzionale è univoca. Nessuno infatti poteva dubitarne, e nessuno ha dubitato del suo significato.[4] Si è voluto invece interpretarne gli effetti in modo mai tanto stravolgenti dottrine, usi norme. Come è ampiamente noto, si è sostenuto che, avendo tale sentenza consentito, in base al principio di continuità dello stato, la prosecuzione dell’attività parlamentare delle Camere illegittimamente elette, tale prosecuzione avrebbe potuto protrarsi fino alla fine della Legislatura. Espressione, questa “della fine della Legislatura”, che la Corte si è ben guardata dall’usare preferendo invece quella di “una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole della normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione ovvero secondo la nuova normativa eventualmente adottata dalle Camere.”[5] Ripete al plurale questa formula, se non a prescrivere la nuova consultazione, per non interferire col potere del Presidente della Repubblica, certamente a invocarla o, almeno, a considerarla come conseguente all’esaurirsi dei tempi della prorogatio, dei quali ricordava con gli esempi univoci (ex art. 61 Cost. 90 giorni, ex art. 77 Cost. 60 giorni) i limiti di durata nei casi costituzionalmente previsti e quindi vincolanti nel massimo per altri casi di interventi per fattispecie analoghe a quella oggetto della sentenza.[6] La conseguenza dell’omissione dello scioglimento è del tutto evidente. La storia del Parlamento italiano e quindi della Repubblica italiana si caratterizzerà per aver attraversato una fase non comparabile con alcuna altra fase della storia dei parlamenti, la fase di una legislatura parlamentare illegittima per omesso atto di scioglimento di un Parlamento illegittimo per composizione, dichiarata illegittima da un organo supremo dell’ordinamento. Omissione che poteva essere giustificata temporaneamente dalla crisi economico-finanziaria che avvolgeva il Paese, poteva quindi anche autorizzare un esercizio delle funzioni parlamentari se volte al fine esclusivo del superamento di tale crisi, ma che non poteva né protrarsi oltre il superamento (Hispania docet) della fase acuta della crisi, tanto meno consentire l’avvio di una revisione costituzionale.
Una domanda si pone spontanea: l’incompetenza assoluta di un organo accertata in via giurisdizionale non travolge gli atti posti in essere da tale organo oltre i limiti temporali della prorogatio e oltre quelli ordinari delle sue funzioni ? A questa domanda non si può rispondere negativamente neanche ponendosi sulle orme di una augusta dottrina, quella che definiva “di fatto” l’instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, asserendo che “il fatto si tramuta in diritto non appena esso è compiuto”.[7] Non si può rispondere negativamente perché, a ben riflettere, non siamo di fronte al quella stessa fattispecie, perché il fatto (legge costituzionale Renzi-Boschi), pur compiuto, produrrebbe i suoi effetti solo a seguito del voto favorevole nel referendum costituzionale. Per ora, “il fatto” che si potrebbe tramutarsi in diritto è configurabile intanto come usurpazione di potere politico ed esercizio arbitrario di funzione pubblica. Che sia imputabile ad un’Assemblea elettiva e addirittura ad ambedue i rami del Parlamento, che diventi perciò non punibile un crimine del genere qualunque sia il risultato del referendum, è conseguenza diretta dello stravolgimento funzionale del sistema compiuto dall’omissione dell’atto di scioglimento del Parlamento illegittimo da parte del Presidente della Repubblica. Ne deriva una conseguenza. La reiezione della legge costituzionale oggetto del referendum sul bicameralismo avrebbe anche il merito di ripristinare il principio della “superiore legalità della Costituzione” riconducendo l’Italia al livello di civiltà dal quale è caduta, quello degli stati di diritto.
Produrrebbe ovviamente effetti virtuosi per la stabilità della forma di governo in Italia e, per la seconda volta nella storia della Repubblica, dieci anni dopo l’annullamento della legge di modifica della Costituzione tentata dal Governo Berlusconi, riaffermerebbe la scelta della forma parlamentare di governo da parte del corpo elettorale italiano. La riaffermerebbe indirettamente neutralizzando la legge elettorale (della quale si è già fatto qualche cenno) denominata italicum. Che è legge avente ad oggetto il sistema elettorale per l’elezione della sola Camera, visto che, nel disegnorenziano , il Senato deformato sarebbe eletto dai consigli regionali. Ma è ormai tempo di provare come queste due leggi, facendo sistema, mistificando regole, procedure ed atti, travolgono la forma parlamentare di governo.
Partiamo da una constatazione auto evidente. La democrazia moderna, quindi la forma democratica di stato, o è rappresentativa o non è. Va di certo integrata, arricchita con istituti di democrazia diretta. Ma il suo fondamento intangibile è la rappresentanza, ne è l’essenza. Deviarla, distorcerla, amputarla è comprimere quel che resta della sovranità popolare dopo l’erosione subita dai trattati Ue. E ora la domanda: come, in quali termini si pone rispetto a tali principi ed a tali fondamentali esigenze il Senato “renziano”. Quale è la rappresentanza sulla quale dovrebbe basarsi ? L’articolo 1 della legge costituzionale gli riconoscerebbe quella “delle istituzioni territoriali”, quindi una rappresentanza di enti, delle regioni-enti dei comuni-enti. Una rappresentanza conseguente alla elezione da parte dei Consigli regionali di consiglieri regionali e di sindaci, uno per Regione, questi sindaci, eletti al Senato non dai consigli comunali, ma da quelli regionali. Questi senatori – 21 su 95 – rappresenterebbero i comuni ove furono eletti sindaci (e anche gli altri ? ) o i Consigli regionali che li eleggono al Senato ? Domanda analoga suscita il disposto del quinto comma dall’art. 2 secondo cui i Consigli regionali dovrebbero eleggere i senatori di loro spettanza “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo degli organi di provenienza”. Scelte di maggioranza, scelte articolate ? Mai formulazione di enunciato normativo di testi costituzionali può essere stata tanto ambigua. Non saranno poche le questioni interpretative affidate alla legge di attuazione di tale testo né saranno di incontestata soluzione.
Dalle righe che precedono si può constatare la doppiezza di una rappresentatività di tal genere. Ambigua tra gli interessi della regione come ente (elezione da parte dei consigli) e regione come comunità (scelte degli elettori) ingannevole per ciascuna delle due entità. La derivazione duplice della rappresentanza porterebbe ad assemblare gli interessi dei comuni con quelli delle regioni. Interessi che sono istituzionalmente distinti dalla rispettiva autonomia istituzionale e talvolta contrapposti. Dalla loro mescolanza non possono che conseguire effetti perversi per la loro rappresentanza all’interno del Senato. Perché si spezza nei contenuti, disperdendosi e neutralizzandosi. Non può quindi che risultare compressa. Si consideri poi che, per i sindaci eletti al Senato, la derivazione è addirittura triplice. Si deve quindi constatare che è stata negata una evidenza concettuale ed empirica, quella della rispettiva autonomia degli enti territoriali che preclude una rappresentanza congiunta ed imporla normativamente è lo stesso che mistificarla.
Incomprensibile poi è la modifica dell’articolo 59 Cost. che riduce la durata in carica dei senatori nominati per gli altissimi meriti conseguiti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario a 7 anni, quanti quelli della durata in carica del Presidente della Repubblica. In quale delle sue attribuzioni può o deve essere rappresentato al Senato il Presidente della Repubblica: in quella di capo dello stato pur se il titolare di tale funzione è nella pienezza delle su funzioni ? Nella rappresentanza dell’unità nazionale …. da dividere in 5 parti ? Solo la mancanza del senso del ridicolo può poi immaginare che gli altissimi meriti si affievoliscono anno per anno per scomparire in perfetta coincidenza col mandato presidenziale ….
Un rapporto come quello descritto tra corpo elettorale e Senato non può comportare e non comporta una rappresentanza politica credibile. Non, di certo, quella imposta dal significato e dalle implicazioni dell’articolo 1 Cost. sulla sovranità popolare e sulle forme del suo esercizio. Non quella quindi che consentirebbe la partecipazione alla funzione legislativa, tanto meno se di revisione costituzionale. Neanche quella di eleggere due giudici costituzionali, per citare le funzioni che direttamente esprimono il senso della sovranità. Non è di rappresentanza politica il ruolo che Renzi vuole intestare ai membri del Senato. È quello di tramite politico-clientelare tra Governo da una parte e Regioni e Comuni dall’altra per l’erogazione contrattata delle risorse finanziarie disponibili per la discrezionalità che comunque resta al Governo ex art. 119 Cost., commi 3 e 5, come modificato. È del tutto ovvio che questo stesso rapporto non potrà mai diventare uno strumento di esercizio di un contropotere nei confronti dello strapotere di una Camera dei deputati, trasformata in organo di esecuzione delle decisioni del Governo e del suo Presidente del Consiglio mediante legiferazione. Uno dei principi fondativi del garantismo costituzionale è schiacciato. Se fosse stato adottato per ispirare la riforma del Senato, avrebbe potuto risolvere la questione di fondo del bicameralismo italiano, quella della sua ragion d’essere.[8]
Invece, no. La deformazione del Senato si accoppia all’italicum che travolge la forma parlamentare di governo. Sia chiaro. L’incostituzionalità del porcellum dichiarata dalla Corte costituzionale derivava dalla violazione della sovranità popolare cui si aggiungevano due altre violazioni, quella del principio di uguaglianza e quella della libera scelta dei suoi rappresentanti da parte del corpo elettorale. Messe insieme, insomma, le tre violazioni facevano di quella legge elettorale un esemplare strumento di mistificazione della rappresentanza e di svuotamento della democrazia.
L’italicum avrebbe dovuto sostituirla, sanando il triplice vulnus. Ma lo riproduce. Reitera la violazione dei principi inviolabili della Costituzione e della democrazia. Anch’esso contrae e contorce l’espressione della sovranità popolare. Infrange il principio della libertà di voto dell’elettore di scegliersi chi eleggere, gliene precostituisce una serie. È quella dei capilista dei cento collegi che risulteranno eletti sempre che la lista che capeggiano avrà seggi. L’altra dirompente violazione di principi fondamentali è quella occultata dalla idolatria della governabilità, della stabilità ad ogni costo, della personalizzazione del potere attribuendolo tutto ad un uomo solo. Lo si denomina “premio di maggioranza”. Ne va smascherata la verità. È falso nel nome, nel contenuto e negli effetti. Non premia affatto una maggioranza, vanifica quella vera. Si sa che in qualunque entità di votanti la maggioranza si identifica nella metà più uno dei voti espressi. Il “premio di maggioranza” non lo si conferisce a chi questi voti li ha acquisiti, ma a chi non li ha acquisiti. Lo si conferisce ad una minoranza, quella che ha ottenuto un solo voto in più di ciascuna altra minoranza. Il premio si traduce quindi in un privilegio per una delle minoranze rispetto a tutte le altre. Privilegio che comporta discriminazione di voti e sottrazione di seggi a quella che risulterà essere in ogni caso, chiunque la calcoli, qualunque sia il tipo di scrutinio, la maggioranza reale, perché composta dalla somma delle liste votate, esclusa la minoranza privilegiata. Ad essa il corpo elettorale ha negato di diventare maggioranza e lo diventa, quindi, contro la volontà popolare.
Con l’italicum vengono assegnati 340 seggi (24 in più della metà più uno dei 630 della Camera) alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti. Lo stesso numero di seggi verrebbe assegnato anche ad una lista che ne ottenga meno, anche il 30, il 20 …. Infatti, per il caso che nessuna lista ottenga il 40 per cento dei voti, è previsto un secondo turno, col quale si assegna il “premio” alla lista che, nel ballottaggio tra le due che abbiano ottenuto il maggior numero di voti al primo turno, sia prevalsa con qualsiasiquorum. [9]
Collegata alla deformazione del Senato, l’italicum non nasconde il suo obiettivo reale. Lo rivela nel prevedere che le formazioni elettorali che “si candidano a governare”, devono depositare, col contrassegno che le identifica, il nome del “capo della forza politica”, cioè del candidato alla presidenza del consiglio che, in quanto leader di uno dei partiti geneticamente mutati, avrà composto la lista dei candidati al Parlamento collocandovi i suoi fiduciari. L’italicum converte quindi l’elezione dei membri del Parlamento in elezione diretta del capo del governo che carpirà in tal modo il flusso di sovranità e di legittimazione prodotto dal voto del corpo elettorale dissolvendo la rappresentanza politica, fondamento della democrazia moderna. Stravolta la forma parlamentare di governo, è incrinata la forma di stato.
Bibliografia
La bibliografia sul tema è vastissima. Per quella generale rinvio al mio “Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione in Scritti in onore di Giuseppe Guarino”, II, Cedam,1998, 211-297. Per quella recente all’ottimo saggio di M. Villone, La riforma Renzi-Boschi cit.
[1] Cfr. Mortati, Concetto limiti, procedimento della revisione costituzionale, ora i Id. Scritti, II, Giuffrè, 1972, 15
[2] Su tale vicenda in via generale rinvio al mio Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, II, Cedam, 1998, 211-297, e sulla specificità italiana del tema, cfr. M. Villone, Un decennio incostituzionale, manifestolibri, 2015 e G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, 2016, spec. 243-255.
[3] Machiavelli, Il Principe e Discorsi, Milano, Feltrinelli, 1960, 15
[4] Le critiche mosse sull’ammissibilità del quesito per difetto di rilevanza furono superate da F. Bilancia, Ri–porcellum e giudicato costituzionale, in Costituzionalismo.it gennaio 2014 ma 3/2013.
[5] Cfr. punto 7 del “considerato in diritto” della sentenza della Corte n. 1 del 2014
[6] Alle stesse conclusioni giunge autorevolmente A. Pace, Le ragioni del No in La Costituzione bene comune, Roma, Ediesse, 2016, 30. M. Villone in La riforma Renzi-Bossi:Governo forte, Costituzione debole in www. Costituzionalismo.it concede la legittimazione formale al Parlamento eletto col porcellum, ma gli nega quella materiale e politica.
[7] Cfr. Santi Romano, L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale ora in Scritti minori, vol. I° , Diritto costituzionale, Giuffrè 1950, 107 e ss., spec. 150.
[8] Chi scrive è l’autore del commento all’ Art. 55 del Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, commento che rilevava come le “tormentate deliberazioni normative del Costituente sulla strutturazione del Parlamento … non offrono una base razionalmente molto solida al bicameralismo italiano …. 25.
[9] Per una puntuale disamina dell’italicum a confronto con la sentenza 1/2014, cfr., tra i molti, De Fiores, La riforma della legge elettorale in www.costituzionalismo. it 1.2015
Fonte: coordinamento democrazia costituzionale
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