La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

Cinque tesi sulla sensazione di populismo

di Ilaria Bussoni
Vale per l’unificazione simbolica del gruppo di Ernesto Laclau o per le povere lucciole di Pasolini, per l’esperienza storica dei narodniki russi a metà Ottocento intenti al riscatto dei contadini o per il peronismo argentino, per il tintinnar di manette di Tangentopoli o la distribuzione di quarti di vacca, per il socialismo del XXI secolo di Chávez o le Marianne del Front National. Ad attenersi alla sua teoria politica e alle sue manifestazioni storiche pare difficile intendere cosa sia di preciso il populismo, tanto più oggi che dopo il crollo delle Narrazioni l’epoca scarseggia di -ismi e la più rilevante traccia del popolo è il nome di una piazza a Roma.
La parola si porta appresso due cari estinti e magari è per questo che si aggira per l’Europa come uno strano cadavere, perché la parte del fantasma avrebbe dovuta farla un altro. Allora, il populismo forse più facile sarebbe provare a sentirlo: perché, prima di sapere cos’è, lo senti.
Accade quando l’effetto di un enunciato, di un’immagine, di una scena, di un suono, di un gesto smuove un umore o qualcosa di liquido dentro di te. Affonda nel molle, ma più dalle parti delle interiora che del cervello, producendo un calore non tanto diverso da quello dello Xanax o di un orgasmo di pessima qualità. Prende da qualche parte nel corpo, agganciando una fisiologia che fa a pugni con l’anatomia, ma che nella meccanica della reazione sembra passare per naturale. E ha quello strano effetto per cui il dentro che pensi solo tuo te lo ritrovi di fuori come se venisse dagli altri, a chiamarti con le parti peggiori di te. Quelle di cui ti vergogni. Prima tesi: il populismo è il riscatto della vergogna.
Lo sapeva Platone che l’uomo è animale fatto anche di affetto e viltà, all’epoca bestione rozzo e robusto, le cui passioni interne fanno problema alla città politica. Se a governare fossero solo i filosofi (o certa psicanalisi della temperanza) fare un po’ di disciplina non sarebbe un gran problema. Ma lì nella polis c’è già un sapere di tecnici che si specializza nella domesticazione di questo «grosso animale dal pelo folto e dai denti lunghi», modulando la voce con le lusinghe, assecondandone gli appetiti, imparando ad avvicinarlo ma senza toccarlo. È la sofistica per come la vede Platone, quella scienza della vita dunque del governo, capace di fare leva sul dentroumano per organizzare il fuori politico: «il ‘sé stesso’ che altro non è che l’esteriorità totale di questa interiorità multiforme»1.
Nasce qui quel sapere che sa capire cosa vuole la gente, tradurne le interiora in un universale discorso del fuori ma proveniente da una parte del sé. Per questo il populismo lo senti con un misto di familiarità, riconoscibilità, identificazione. Perché viene da te. Ha i tratti della reazione pavloviana che porta a specchiarsi e a dire c’est moi. Seconda tesi: nel populismo di fronte hai te stesso.
Il problema è che nonostante gli sforzi per convincerci che l’individuo è uno, iniziato e finito dentro una frontiera epidermica o pelosa, persino Platone che di certo deleuziano non era già diceva che lì dentro siamo almeno in tre: filosofi, militanti e bestie. Nell’arco di un po’ di secoli siamo poi passati a essere in mille. La qual cosa ha reso chiaramente un artificio la corrispondenza biunivoca tra la forma del dentro e la forma del fuori, con l’emergere di un sapere tecnico che si è altamente specializzato nel dirci esattamente che cosa siamo, onde governarci: degli spendaccioni dunque economia, dei bamboccioni dunque lavori di merda, degli onesti imprenditori vessati dal fisco dunque padani. Ovviamente una cosa alla volta.
Ma il sapere tecnico di questo nostro capitalismo dell’intelletto è soprattutto sapere sociale e mentre nei dintorni della polis greca il sofista faceva il sofista e il carpentiere faceva il carpentiere, checché continuino a pensarne i tecnici che l’arte è solo la loro, forse oggi non c’è più un lavoro che non richieda a ciascuno un po’ di sofistica: l’esercizio di quell’arte dell’aggancio a partire dagli affetti e dalle parti molli.
Che l’esercizio della facoltà di parola con la quale lavoriamo sarebbe forse estranea a lusinga, seduzione, restituzione e richiesta di riconoscimento, conferma dell’altro, movente di identificazione? E la domanda «Questo da che parte lo prendo?» non sarebbe forse la più frequente nella creazione di relazioni che mettiamo al lavoro (sapendo che la parte molle è pur sempre più ricettiva), collocando ciascuno di noi a seconda dei casi tanto sul fronte del domesticatore quanto della bestia da domesticare? Pensiamo dunque che la profusione di terapie psichiche e comportamentali sia un fenomeno di costume delle nuove gentry e non il tentativo di rispondere al quesito: da dove si passa per governar(ti)mi meglio? Se dunque il populismo è anche quell’arte di tirar fuori il sé altrui (non senza un interesse del proprio: uno stipendio, un po’ di potere, una posizione sociale) per agganciarlo a qualcosa di fuori, allora: Terza tesi: il populismo è l’arte del governo che meglio corrisponde all’intelletto generale al lavoro.
E infatti tra i populismi così additati dei nostri giorni quello di Grillo spicca per inedita affermazione: sei una bestia e puoi governare. Per farlo non ti serviranno sapere, professione, formazione politica, esperienza. Basta quel che già sei: una bestia che ha imparato a parlare. Basta quel che già sai: un po’ di pannelli solari e come costruire biopiscine consolidano il paravento curriculare di un sapere tecnico che può insediarsi a titolo lì dove sta il governo. E qui a scatenarsi le ilarità sugli assessori impreparati da parte dei competenti veri, degli esperti veri, quelli che sanno sul serio come si fa la politica. Qualche anno fa un pezzo di post-femminismo non aveva reagito tanto diversamente di fronte allo sbarco politico delle olgettine, donne prive di meriti coltivati se non quello di una fisiologia con la quale natura le avrebbe aiutate. Concorrenza sleale, la carriera nel neoliberismo ha le sue regole.
La continuità della ragione neoliberale tra politica ed economia non fa che ripetere che chi occupa un posto ha il titolo per occuparlo: gli esperti a dire, i tecnici a fare, i sapienti a organizzare, i responsabili a governare. Mentre chiunque lavori si accorge che non c’è praticamente alcun sapere (o comunque molto pochi) del quale non sia possibile impadronirsi in una dozzina di mesi, a fronte di una formazione che organizza un’architettura della conoscenza particellare e proprietaria rivendendo al formando una competenza che per lo più questi già ha: il quale, una volta che l’avrà pagata, vorrà anche difenderne la proprietà.
La questione è vecchia quanto Platone che si è sperticato non poco a dire chi può far cosa e con quale sapere, e finanche che non tutto si impara: in fondo, in un posto, ci si nasce per natura. Ora, il paradosso è che l’affermazione che la politica sia accessibile a qualunque bestia purché un po’ parli, in un’epoca in cui le bestie tra di loro già si governano parlando quando lavorano, venga da Grillo, da uno che in realtà crede che la sofistica sia un’arte solo sua. E non da quella tradizione che fin qui ha sostenuto che non esistono posti, né titoli, men che meno nature e che i qualunque, quelli privi di posto, di titoli e di natura, possono andare e stare dove gli pare, soprattutto ad autogovernarsi. Il successo di Grillo forse deriva dal fatto che ha lanciato un sasso rendendo evidente quel che è indiviso, lo si chiama anche comune, ma poi ha nascosto la mano pronto a dire che lui mica è uno qualunque. Poveretto, deve pure campare.
Allora, il populismo grillino sta proprio nel gesto di nascondere la mano, di ripiegare su chi sa fare i tetti o ha vinto due processi, negando il comune e ribadendo che i suoi «il sapere ce l’hanno migliore degli altri». Il suo populismo sta nel dire che è proprio te che vuole al comando, quando invece sta tirando al sorteggio. Quarta tesi: il populismo lo senti quando i sassi lanciati sembrano privi di mani.
E poi succede che vivendo si finisca anche non volendo a essere parte di qualcosa: di un’infanzia nutrita di tegolino o di calcetto all’oratorio, di un’adolescenza televisiva o in vespa, di una famiglia che guarda Sanremo o che al cimitero possiede una cappella dove c’è un posto anche per te… Piccole divisioni invarianti e identiche nella loro differenza che dicono da dove ci è capitato di venire e di stare. Malgré nous. Sono i posti che non abbiamo scelto, ma dai quali abbiamo imparato ad amare, dunque anche ad amarli, poi a partire e ad amare altro. Sono intrisi di affetti domestici che affondano le radici in un corpo che era molle per intero, non solo un pezzo. Da lì ce ne siamo andati per essere parte di altro, per costruirlo questo altro. Anche con le lotte che fino a non molto tempo fa ribadivano quel che si voleva essere, dove e come: da una parte, da inventare e non data. Quella parte che si voleva sì piena, ma non il tutto. Opera incompleta, opera infinita.
Oggi invece quest’altra parte ci viene indicata nella forma del consolante surrogato di quel che abbiamo tanto amato: la vespa di Renzi alla Leopolda, il calcetto all’ex Dogana di Roma, la spuma brillante nel bar vintage al Pigneto, il manga giapponese dentro un film sui supereroi delle periferie romane, la musica anni ’80 alle torrette nei centri sociali. Al posto della ricerca di libertà, di un gesto creativo, di un piacere spiazzante, di una relazione vitale, delle parole di un racconto tutto da inventare. È il ritorno del familiare: gli altri ci metteranno i corni di montagna o l’acqua sorgiva, a ciascuno le sue madeleine. È la spinta sicura a farti amare quel che già hai amato. Il ritorno dell’identico di fronte al quale chissà perché non tutti scappano come davanti a quella cosa immonda che è il gatto Church, rivitalizzato passando per il cimitero degli animali di Stephen King. Quinta tesi: il populismo lo senti quando ti viene proposto di amare le cose morte.
Il tempo verbale del neoliberismo è il condizionale passato: quell’avrei potuto, avrei dovuto, sarei stato che dal presente colonizza il passato proiettando su ogni svolta possibile il senso del cattivo investimento, economico, biografico, temporale, affettivo. Nemmeno il passato può riposare tranquillo nel suo cimitero delle cose finite: i possibili che non sono stati tornano a tirarti per i piedi di notte per assegnarti non il loro riscatto in una futura vita di gioia, ma la colpa per la scelta sbagliata che ti avvelena il presente e paralizza di fronte al futuro.
La parte infinita che abbiamo iniziato a cercare dovrà sottrarre gli affetti se non proprio ai sofisti almeno agli imbalsamatori e trovare, per dirsi, non solo parole ma un vero e proprio tempo verbale, che ci consenta di gettare oltre l’ostacolo, non più il cuore ma le interiora.

NOTE

1. ↩ A. Badiou, La Repubblica di Platone, trad. it. Ponte alle Grazie, Milano 2012, p. 221

Fonte: operaviva.info 

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