di Francesca Belotti
È difficile raccontare la giornata di mercoledì in termini squisitamente politici o mediatici, senza cedere alla tentazione di restare nel personale. È difficile farlo perché il personale è politico e perché in questi giorni il politico è immancabilmente personale. Dopo aver scorso attentamente i primi articoli usciti sullo Sciopero di Donne nelle varie testate e agenzie giornalistiche argentine che uso sbirciare in questi momenti di mobilitazione, mi rendo conto che abbiamo tutte/i la stessa difficoltà.
Per raccontare l’esperienza di Buenos Aires, per esempio, c’è chi comincia il resoconto zoommando sui ricci zuppi di giornaliste note (come Marta Dillon) presenti in piazza, per poi spaziare sull’organizzazione spontanea del servizio d’ordine o sulla disposizione (forse) improvvisata degli spezzoni, per tornare, infine, a piccoli momenti di sensibilizzazione registrati negli angoli delle strade durante la giornata; come quando una segretaria in sciopero all’uscita della metro ferma un uomo con sua figlia segnalandogli che non può proseguire come se nulla fosse (di fronte a sua figlia) e, prontamente, il tipo si ferma e aiuta a fermare il traffico. C’è chi prova senza successo a ricostruire numeri, colori, organizzazione e cori della piazza, o a restituire l’efficacia dello sciopero delle ore 13 a partire dalla voce della autista di un convoglio metro che ha approfittato del consueto annuncio “Fate attenzione ai vostri beni di valore” aggiungendo “ma anche alle donne, che non sono vostri beni. Non una di meno, vive ci vogliamo”.
C’è poi chi, come Veronica Gago, sa mettere in parole le sensazioni di calore che attraversavano il corteo mentre pioggia e vento gelido invano provavano a demotivarci, con la complicità di un senso comune che riconduce l’aumento di visibilità dei casi di femminicidio a un incremento del fenomeno senza capire che, invece, la differenza è solo che, oggi, se toccano una, ci muoviamo in mille e finalmente si parla di quello che ci accade ogni giorno. E ancora, ci sono racconti appassionati, posizionati, dettagliati del “sabato del villaggio”, cioè di come ci preparavamo alla giornata di mercoledì nei gruppi di WhatsApp e offline, dell’intensità del sentire collettivo in vista della sfida storica dell’indomani e di come, poi, effettivamente mercoledì ci guardavamo intorno ricercando con complicità compagne vestite di nero mentre andavamo all’appuntamento delle ore 17 nell’Obelisco. Oppure c’è chi, come ANRed, preferisce far parlare le immagini eloquenti del corteo (scattate tra un ombrello e l’altro), corredandole con il testo del comunicato letto nella Plaza de Mayo con la consegna “NiUnaMenos”. E chi, invece, prova a ricostruire i molteplici reclami che lo sciopero teneva insieme attraverso le voci di una piazza quanto mai eterogenea nella sua composizione: da una referente della Campaña contra las Violencias hacia las Mujeres, che, tra le ragioni dello sciopero, menziona l’economia di cura sostenuta dalle donne quotidianamente e mai valorizzata dalle logiche di mercato, a una integrante di Fútbol militante, che spiega il valore simbolico di militare giocando su un terreno (il calcio, appunto) intriso di pregiudizi sessisti, passando per le attiviste trans, che ricordano come il travesticidio sia il precipitato criminale di una società discriminatoria. E potrei andare avanti per ore…
Una sorta di afasia mi impedisce di aggiungere molto a quello che i media (tanto mainstream come alternativi) di diverse città del paese stanno riportando. Molto meno posso aggiungere alle immagini e video che ci hanno condiviso dal Messico, dal Chile e da molti altri paesi del continente. “Allerta! Allerta che camminano donne femministe per l’America Latina!”: credo che questo coro meglio di me descriva ciò che è accaduto mercoledì. Eravamo incommensurabilmente tante, ovunque. Ancora una volta, unite nelle differenze come a Rosario, ma più arrabbiate e decise a mantenere calda questa rabbia (nonostante il clima) e a dare continuità a un processo politico rinnovato, il cui inizio è stato consacrato con questo Primo Sciopero di Donne dell’Argentina, accompagnato da una onda di mobilitazioni latinoamericane insperate.
La morte di Lucia non è stata oscurata nemmeno per un secondo durante il corteo. Ci tengo a precisarlo perché quando una chiamata come questa si fa così massiva e agglutina tante vertenze c’è il rischio che il “casus belli” si perda nei meandri dei discorsi e delle pratiche della piazza. E invece no. Lucia c’era: era nelle letture, nei cartelli, nei cori e, immancabilmente, nelle lacrime (che spesso si confondevano con la pioggia ma che poi scivolavano dentro a un sorriso o a un grido). La sua morte è una di tante, troppe, e ha sancito un punto di non ritorno: non siamo più disponibili né, credo, capaci di restare in silenzio di fronte alla violenza che, in tutte le sue forme, viviamo ogni giorno.
Fonte: dinamopress.it
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