di Giacomo Cucignatto
Il caso mediatico Foodora rappresenta un ottimo spunto per un’analisi complessiva dei fenomeni che stanno trasformando il mercato del lavoro negli ultimi anni. Prima di provarci, tuttavia, è forse il caso di fare un po’ di chiarezza terminologica. L’azienda Foodora GmbH – nata in Germania nel 2014 – fornisce un servizio on-demand di consegna cibo a domicilio in vari paesi europei, connettendo gli utenti ai ristoranti della zona attraverso una piattaforma digitale e impiegando lavoratori che stabiliscono la propria disponibilità oraria attraverso un’app.
Nel caso specifico è quindi scorretto parlare di economia della condivisione (sharing economy): non c’è niente di condiviso, non il pasto né il mezzo di trasporto utilizzato per le consegne; non si tratta di monetizzare risorse sottoutilizzate o non utilizzate – come nel caso di Airbnb o Blablacar – e l’unico punto di contatto con queste aziende è l’utilizzo di piattaforme digitali per lo svolgimento delle proprie attività.
Nel caso specifico è quindi scorretto parlare di economia della condivisione (sharing economy): non c’è niente di condiviso, non il pasto né il mezzo di trasporto utilizzato per le consegne; non si tratta di monetizzare risorse sottoutilizzate o non utilizzate – come nel caso di Airbnb o Blablacar – e l’unico punto di contatto con queste aziende è l’utilizzo di piattaforme digitali per lo svolgimento delle proprie attività.
Quando ci si riferisce a imprese come Foodora – Deliveroo e JustEat, per rimanere nel settore della logistica della ristorazione, oppure grandi realtà come Uber, Mechanical Turk o Task Rabbit – è dunque più corretta l’espressione gig economy: nella vulgata economica si tratta di un ambiente economico che genera “lavoretti”, dal momento che le aziende usufruiscono di “collaboratori” per lo svolgimento di mansioni a breve termine e ad alto tasso di intermittenza; si tratta di un settore in cui il “collaboratore” offre una prestazione di sé e un vero e proprio spettacolo, nel senso che esibisce il logo dell’azienda durante lo svolgimento dell’attività lavorativa in un flusso pubblicitario costante verso l’esterno1.
La protesta dei fattorini Foodora di Milano e Torino rivela alcune delle contraddizioni che caratterizzano queste realtà economiche emergenti: la diffusione del pagamento a cottimo (2,70 euro a consegna nella fattispecie), i costi degli strumenti di lavoro scaricati sulle spalle dei “collaboratori”, la segmentazione degli stessi a livello contrattuale, l’assenza di tutele in caso di malattia o incidenti sul lavoro. Si intravede in generale un tentativo di disintermediazione del rapporto di lavoro: il ricorso alla piattaforma digitale è cruciale poiché spinge l’azienda a negare l’esistenza stessa del lavoro; i “collaboratori” svolgerebbero compiti che non configurano un vero e proprio lavoro, ma piuttosto un “lavoretto” o un hobby. L’azienda attraverso il ricorso al managment algoritmico cerca dunque di sfuggire al tradizionale ruolo di datrice di lavoro, cercando di abbattere i costi contributivi e previdenziali che questo comporta2.
La protesta dei fattorini di Foodora si inserisce in un contesto internazionale in cui i lavoratori stanno gradualmente prendendo coscienza delle ripercussioni e delleproblematiche poste dalla gig economy; alcune vicende ci consentono di iniziare a inquadrare gli interrogativi cui la politica dovrà rispondere nei prossimi anni.
La class action degli autisti di Uber negli Stati Uniti verte ad esempio sulla riqualificazione come lavoratori subordinati e non contrattisti indipendenti. La controversia nata nell’ambito del ride sharing rivela la difficoltà del giuslavorismo di inquadrare correttamente i rapporti di lavoro nella gig economy: diversi esperti sostengono che il lavoro su piattaforma e il lavoro digitale contribuiranno alla rapida diffusione del lavoro indipendente3, un terzo genere differenziato rispetto al lavoro autonomo o dipendente, una sorta di via di mezzo tra i due; peraltro il superamento dei fondamenti giuridici alla base di ogni relazione di lavoro tradizionale ha spinto diversi studiosi a introdurre l’espressione “capitalismo di piattaforma”4. Altri negano la necessità giuridica del lavoro indipendente. Si pone in ogni caso il problema dell’identificazione di volta in volta della componente prevalente nell’attività lavorativa, ma la difficoltà di tale operazione rischia di tradursi nello smantellamento delle tutele dei lavoratori. Le sentenze dei giudici federali del distretto di San Francisco hanno tuttavia chiarito che gli autisti di Uber sono dipendenti di fatto e potrebbero dunque segnare una via per la riappropriazione dei diritti e la lotta contro lo sfruttamento.
Le dimensioni del problema sono davvero numerose. Un altro aspetto importante sollevato dalle proteste dei gig worker europei degli ultimi mesi hanno per esempio evidenziato la disparità di trattamento salariale dei collaboratori di Deliveroo (ed altre aziende) nei diversi paesi europei all’interno del quale opera: anche su questo tema, in altre parole, l’Unione Europea dovrebbe velocizzare il processo di elaborazione di una normativa comune efficace se vuole riuscire a contrastare il dumping sociale tra lavoratori europei della stessa piattaforma.
Un elemento che non si dovrebbe trascurare è poi ovviamente la quasi totale assenza di una rappresentanza sindacale dei gig worker, in particolare in Italia: l’algoritmo che gestisce le prestazioni dei “collaboratori” contribuisce a consolidare un ambiente lavorativo atomizzato, in cui gli operatori a malapena si incontrano ed hanno dunque difficoltà a confrontarsi sui rispettivi problemi e ad elaborare rivendicazioni condivise; l’algoritmo può addirittura sancire il licenziamento del “collaboratore” con una semplice esclusione dalla piattaforma digitale. Se da un lato è oggettivamente difficile sviluppare vertenze dall’interno, sembra ancora più improbabile che i sindacati tradizionali riescano ad intercettare le esigenze di questi lavoratori. Un po’ di speranza da questo punto di vista viene dalle esperienze della Freelancers Union negli Stati Uniti (220 mila soci) e della FreelanceUK (200 mila): alcune pratiche di auto-organizzazione e lo sviluppo di strumenti come la class action perseguono l’obiettivo di rivendicare diritti individuali e sociali e si pongono nell’ottica di quel Platform Cooperativism che Trebor Scholz individua come unica alternativa di sistema al modello della sharing economy5perseguito dalle multinazionali.
Il pagamento a cottimo permette alle imprese di esternalizzare i costi derivanti dai tempi morti: da questo punto di vista, il modello Foodora/Deliveroo somiglia moltissimo alle strette sui salari del mondo della logistica; in entrambi i casi l’unica via per incrementare i profitti d’impresa passa attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi. Peraltro, il tentativo di scaricare il rischio d’impresa sulle spalle dei lavoratori è lo stesso alla base della logica dei voucher, il cui utilizzo è letteralmente esploso negli ultimi anni in Italia. Questi singoli spunti ci aiutano a comprendere che le contraddizioni e il conflitto sociale sottostanti la gig economy rientrino perfettamente all’interno del paradigma affermatosi negli ultimi anni: una regolamentazione ad hoc del fenomeno non sarà sufficiente se non sarà inquadrata all’interno di una visione e di una lotta politica più ampia, che rifiuti fermamente di accettare un modello di sviluppo fondato su un’ulteriore precarizzazione e che metta nuovamente al centro la questione della dignità del lavoro.
1 Gig in inglese può assumere il significato di “lavoretto”, ma anche “prestazione” o “spettacolo”, a seconda del contesto.
2 Per un approfondimento della vicenda Foodora si veda qui: A. Tassinari, V. Maccarone,L’algoritmo della precarietà, il caso Foodora, Sbilanciamoci, 17/10/2016,http://sbilanciamoci.info/lalgoritmo-della-precarieta-caso-foodora/.
3 Secondo il rapporto “Independent work: Choice, necessity, and the gig economy” elaborato dal del McKinsey Global Institute, siamo di fronte ad un fenomeno che coinvolge ormai 162milioni di persone tra USA e UE, intorno al 20-30% della popolazione in età da lavoro,http://www.mckinsey.com/global-themes/employment-and-growth/independent-work-choice-necessity-and-the-gig-economy.
4 M. Kenney, J. zysman, The Rise of the Platform Economy, Issues in Science and Technology, BRIE working paper, 2016, http://www.brie.berkeley.edu/wp-content/uploads/2015/02/Kenney-Zysman-The-Rise-of-the-Platform-Economy-Spring-2016-ISTx.pdf; S. Lobo, Auf dem Weg in die Dumpinghölle, Spiegel online, 03.09.2014,http://www.spiegel.de/netzwelt/netzpolitik/sascha-lobo-sharing-economy-wie-bei-uber-ist-plattform-kapitalismus-a-989584.html.
5 T. Scholz, Platform Cooperativism. Challenging the Corporate Sharing Economy, Rosa Luxemburg Stiftung, New York Office, 2016, http://www.rosalux-nyc.org/wp-content/files_mf/scholz_platformcoop_5.9.2016.pdf.
Fonte: Pandora Rivista
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