di Gianfranco Sabattini
La crisi in cui sono precipitati i Paesi europei negli ultimi anni, ha rilanciato, sinora però a parole, l’urgenza di risolvere il problema della loro unificazione politica e di una più appropriata organizzazione politico-istituzionale. Da quest’ultimo punto di vista, da sempre è condivisa l’dea che debba trattarsi di una federazione tra Stati-nazione; meno condivisa è invece la forma che dovrebbe assumere l’organizzazione di tale federazione.
Perciò, al fine dell’approfondimento del dibattito su quest’ultimo aspetto, è da considerarsi opportuna la recente comparsa in libreria della traduzione in lingua italiana dell’antico saggio di uno dei padri fondatori del neoliberismo, Friedrich Agust von Hayek, “Le condizioni economiche del federalismo tra Stati”, pubblicato nel 1939 in “Tne New Commonwealth Quarterly” e ripubblicato nel 1948 nel volume “Individualism and Economic Order”, dello stesso Hayek. Il breve testo dello scritto dell’economista austriaco è arricchito da un saggio introduttivo di Federico Ottavio Reho, Junior Research Officer presso la Wilfried Martens Centre for European studies, e da una postfazione di Flavio Felice, docente di Dottrine Economiche e Politiche presso la Pontificia Università Lateranense.
A parte l’interesse per lo scritto di Hayek, sia il saggio introduttivo che la postfazione sono un utile corredo per capire il diverso modo in cui può essere inteso il federalismo tra gli Stati: o come semplice struttura organizzativa giuridico-costituzionale; oppure, come organizzazione meglio rispondente alla soddisfazione appropriata di particolari idealità politiche, condivise dai contesti sociali degli Stati che decidono di federarsi. Il saggio introduttivo e la postfazione offrono spunti e suggerimenti per stabilire quale dei due modi d’intendere il federalismo meglio si addica all’auspicata realizzazione dell’unità politica dell’Europa.
L’interpretazione giuridico-costituzionale è quella formulata originariamente da Hayek alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. A parere di Reho, l’interpretazione oggi prevalente tenderebbe a celebrare il “processo di integrazione europea sviluppatosi nel secondo dopoguerra come un programma inedito e visionario in radicale rottura con tutta la precedente storia del continente”; nel senso che i padri fondatori delle Comunità Europee avrebbero concepito “la loro rivoluzionaria visione in solitario isolamento”. Questa visione si sarebbe, però, male adattata alla “mitologia posticcia” alla quale hanno fatto riferimento, in quanto alla chiusura delle ostilità in Europa, “il progetto politico di una federazione paneuropea era già vecchio di più di due decenni”.
I padri fondatori del progetto europeo, perciò, non avrebbero “partorito”, alcuna nuova idea, in quanto il movimento paneuropeo non avrebbe mai smesso, “neppure nelle otre più buie delle della Seconda guerra mondiale”, di invocare una federazione tra tutti i popoli europei che “permettesse alla vecchia Europa di sopravvivere in un mondo sempre più dominato dalle grandi potenze continentali”. In questo contesto – afferma Reho – deve essere collocato il contributo di Hayek sul tema del federalismo tra Stati; l’oggetto principale della sua analisi non sono state le giustificazioni politiche ed economiche di una federazione tra Stati precedentemente sovrani, ma le condizioni economiche necessarie a supportarla e a conservarla, nonché le implicazioni riguardo alle politiche economiche che lo Stato federale e gli Stati federati sarebbero stati chiamati ad attuare.
Secondo Hayek, in una federazione democratica, molte forme di intervento pubblico, abituali negli Stati europei degli anni Trenta, sarebbero state impraticabili, sia da parte degli Stati federati, che da parte dello Stato federale; per cui sarebbe diventato plausibile aspettarsi che un’organizzazione istituzionale federale favorisse l’adozione di politiche economiche molto più liberali di quelle che potevano essere adottate dai singoli Stati nazionali non federati. Secondo la visone del federalismo di Hayek, negli Stati federati l’intervento pubblico verrebbe limitato per due ragioni: in primo luogo, perché i singoli Stati non potrebbero più perseguire una politica monetaria indipendente; in secondo luogo, perché la libera circolazione di capitali, merci e persone attiverebbe una dinamica riformatrice in senso liberista, il cui esito finale sarebbe l’abolizione delle forme di regolamentazione e di solidarietà possibili a livello di singoli Stati indipendenti.
Quanto previsto dalla visione hayekiana della federazione tra Stati costituisce – a parere di Reho – l’esatto opposto di quanto ha caratterizzato, e continua a caratterizzare, il processo di integrazione degli Stati facenti parte dell’attuale Unione Europea. Il processo verso l’integrazione politica degli Stati aderenti è sinora avvenuto attraverso un “approccio neofunzionalista”, che ha assegnato una “potente forza centralizzatrice” alle istituzioni sopranazionali europee; queste – secondo Reho – hanno reso il processo di integrazione “lontano anni luce da una vera federalizzazione” e, per certi aspetti, sarebbe divenuto “persino incompatibile con essa”. Ciò perché, anziché limitare il trasferimento di certe specifiche funzioni a livello sopranazionale, come la difesa e la politica estera, e lasciare all’esclusiva responsabilità dei singoli Stati membri tutte le altre funzioni, il processo di integrazione ha proceduto “attraverso la condivisione di sovranità tra gli Stati membri in un numero via via maggiore di politiche pubbliche”. In tal modo, il “processo” si è ridotto ad essere “uno sviluppo dinamico che, alimentato tra l’altro dalla logica neofunzionalista e dagli sforzi centralizzatori delle istituzioni sopranazionali, sposta continuamente in avanti le frontiere delle competenze comunitarie, così che nessun ambito è definitivamente al riparo dall’europeizzazione”.
Reho si augura che i cittadini europei prendano presto coscienza del fatto che l’integrazione dell’Europa, “in barba alle pretese dei suoi sostenitori come dei suoi detrattori più acritici ha poco a che vedere con una vera federalizzazione”; ciò in quanto il vero federalismo ha “poco a che spartire con quello di molti sedicenti federalisti europei”. Pertanto – sostiene Reho – è difficile non prendere atto del fatto che lo stato presente dell’integrazione dell’Unione Europea pone “i sostenitori di un ordine politico ed economico liberale” di fronte ad un bivio: da un lato vi è la via dello scetticismo e dell’opposizione, destinati a “dare man forte a movimenti nazionalisti e statalisti determinati a smantellare il processo di integrazione”; dall’altro lato, vi è la via del vero federalismo hayekiano, dal quale l’UE si è pericolosamente allontanata, per optare in favore di un processo d’ispirazione socialista e centralizzatrice, condiviso sia dalla destra che dalla sinistra, sia pure contrastato da “forze sovraniste”, che vorrebbero sbarazzarsi dell’Europa, considerata come “una prigione debilitante e totalitaria”.
Reho conclude sconsolato la sua analisi, perché convinto che mentre “socialisti e centralizzatori di ogni colore si stanno abilmente servendo dell’euro per avanzare i loro disegni pseudoferalistici a livello europeo, conservatori e libertari sono stati finora incapaci di articolare un loro progetto autenticamente federalistico per il vecchio continente e hanno finito per allinearsi ora ai nazionalisti ora ai socialisti”; conservatori e libertari si macchierebbero così della grave colpa di trascurare che, come è accaduto nel passato, un’alleanza col nazionalismo e con il socialismo sarebbe “quasi certamente fatale al liberalismo” e, nella prospettiva di Hayek e di Reho, anche al liberismo.
Una critica a tutta la costruzione del federalismo hayekiano, ironia della sorte, viene proprio, come evidenzia Flavio Felice nella postfazione, da un “liberale doc”, come Luigi Einaudi, il quale, sull’onda emotiva dell’orrore suscitato dal secondo conflitto mondiale, ha condiviso l’idea che, per sottrarre i popoli europei al dramma di future guerre, fosse necessario costituire un “popolo federale europeo”; ovvero, un popolo governato da uno Stato federale fondato sui principi dello Stato di diritto, proprio del liberalismo, e dotato di un Parlamento nel quale, in una camera elettiva, fossero rappresentati direttamente i popoli europei, “attraverso il metodo dell’elezione dei rappresentanti di ciascun Stato”, e, in un’altra camera, fossero rappresentati da un uguale numero di eletti i singoli Stati federati; era questo, secondo Einaudi, lo Stato federale ideale, considerato l’unico in grado di consentire di “realizzare un’unità rispettosa dell’autentica indipendenza dei singoli Stati”.
Per Einaudi, la pace tra i popoli era la “dimensione di valore” posta alla base dello Stato federale, ritenuto l’unica forma di organizzazione statuale sopranazionale capace di realizzare, oltre che la pace, anche il rispetto dell’indipendenza dei singoli Stati, fondati non sull’uso arbitrario delle armi, né delle barriere doganali, bensì su tutto ciò che poteva contribuire all’edificazione di uno spirito pacifico, di tolleranza e di reciproco riconoscimento tra i popoli. Per Hayek, invece, la federazione doveva essere costruita sulla base di una stretta connessione tra “unione politica” e “unione economica”, in cui quest’ultima rappresentasse il presupposto indispensabile per l’attuazione di una politica estera e di una difesa comuni; ciò perché, se fosse stata la federazione tra gli Stati l’istituzione responsabile del mantenimento della pace, doveva competere allo Stato federale, e non ai singoli Stati federati, il compito di garantire il perseguimento della pace.
Nella prospettiva di Hayek, quindi, da un lato, gli Stati federati verrebbero progressivamente ad indebolirsi sino a cessare di conservarsi come enti sovrani e, dall’altro lato, la federazione non dovrebbe esercitare tutti i poteri che gli Stati nazionali le trasferiscono, in quanto dovrebbe orientare la propria azione verso la creazione di sempre più estesi spazi liberi dal controllo legislativo. Infine, Hayek, pur riconoscendo il fatto che anche in uno Stato federale è inevitabile che s’imponga la necessità di una politica economica a salvaguardia del corretto funzionamento del mercato, nega sia l’utilità di un intervento pubblico esteso per la correzione delle forme estreme di “laissezfairismo”, sia l’urgenza di ogni forma di pianificazione economica, ritenendo incompatibile con il funzionamento della federazione l’interferenza quotidiana e la regolazione delle forze di mercato delle quali la pianificazione sarebbe portatrice.
Il fatto lamentato da Reho che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, i padri fondatori del disegno europeo non abbiano considerato le idee federaliste hayekiane non è casuale; essi sono stati influenzati da fatti storici ben diversi da quelli che avevano influenzato Hayek. Al riguardo, Flavio Felice ricorda che Luigi Einaudi, con riferimento al federalismo di Hayek, aveva evidenziato come lo Stato federale di quest’ultimo preconizzato altro non fosse che la configurazione di una società politica sopranazionale che, grazie ad un’organizzazione dell’economia in termini liberistici, avrebbe dovuto rendere possibile l’esistenza di una società civile sopranazionale pluralista, con cui salvaguardare, attraverso la libertà economica e la pace resa da essa possibile, l’indipendenza del suo Paese, l’Austria, dalle mire annessionistiche della Germania hitleriana.
L’adesione acritica a questo obiettivo ha reso Hayek vittima di un “autismo intellettuale”, rendendolo impenetrabile alle idee e alle elaborazioni della teoria economica e delle altre scienze sociali che già avevano preso corpo prima del secondo conflitto mondiale; un isolamento intellettuale che lo ha accompagnato sino all’ultimo dei suoi giorni. Hayek, infatti, non ha percepito che la pace tra i gruppi sociali all’interno dei singoli Stati, e a livello di relazioni tra Stati, poteva essere salvaguardata solo attraverso la rimozione degli squilibri distributivi causati da un “liberismo laissezfairista” regolato da un intervento pubblico minimalista.
E’questo il motivo per cui, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, i padri fondatori del progetto europeo hanno inteso realizzare una federalizzazione degli Stati dotata di strutture istituzionali non più ispirate ai canoni dello Stato di diritto del liberalismo originario, ma a quelli propri dello Stato sociale di diritto; questo, nella forma di federazione degli Stati aderenti al progetto europeo, avrebbe dovuto concorrere, su basi solidaristiche e attraverso la realizzazione di direttive armonizzatrici dei singoli sistemi economici, a creare all’interno della vasta area federata una “comunità di destino” dei popoli europei, sorretta da un’economia sociale di mercato.
Certo, l’“approccio neofunzionalista” ha senz’altro reso il processo di integrazione europea “lontano anni luce” dalle finalità ispiratrici dei padri fondatori di un’Europa federata, a causa dei residui egoismi nazionali, che hanno reso impossibile la realizzazione del presupposto fondamentale per la sua piena attuazione. Ciò non toglie, tuttavia, che le idee hayekiane sul federalismo tra Stati siano un “viatico” poco utile per rilanciare concretamente e in tempi rapidi, se mai sarà possibile, il processo di unificazione politica dei Paesi attualmente aderenti all’UE.
Fonte: Il manifesto sardo
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