di Michele Malaguti, per lo speciale di facciamosinistra!
Il referendum sarà uno spartiacque, nel campo di quello che un tempo furono la sinistra e il centrosinistra, con o senza il trattino. Anzi, possiamo ragionevolmente affermare che le discussioni che lo accompagnano segnano già da tempo una frattura incomponibile, tra due visioni distinte e distanti. Differenze sia sul terreno metodologico – che è esso stesso “sostanza” – sia sul terreno dei contenuti. Non ripercorro le ragioni dell’una come dell’altra parte, esercizio che altri commentatori ben più autorevoli possono svolgere molto meglio di me. Vorrei invece concentrare la riflessione sul cascame politico che l’operazione orchestrata dal governo Renzi produrrà.
Dovessero vincere i SI, è ragionevole supporre che sarà comunque una affermazione di misura. Con un paese quindi sostanzialmente spaccato in due, quando invece sulle “regole fondamentali” dovrebbe riconoscersi almeno a grandissima maggioranza.
Dovessero vincere i SI, è ragionevole supporre che sarà comunque una affermazione di misura. Con un paese quindi sostanzialmente spaccato in due, quando invece sulle “regole fondamentali” dovrebbe riconoscersi almeno a grandissima maggioranza.
La cifra dell’arrogante irresponsabilità dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi e della sua azione per procura si misura innanzitutto su questo terreno, in aperta contraddizione anche con i solenni propositi contenuti nella “Carta dei Valori” del PD. Un Paese a pezzi, che accumulerebbe peraltro un pericoloso precedente, dal momento che domani chiunque si sentirà legittimato a riscriversi le regole a piacimento, magari contando – come ha del resto approfittato Renzi – su maggioranze artificiali frutto di alchimie elettorali.
Dovessero vincere i SI il processo di mutazione oramai irreversibile subito dalla comunità politica che oggi si riconosce nel PD vedrà una ulteriore accelerazione, nella direzione dell’ormai celebrato “Partito della Nazione”. Con buona pace dell’esangue minoranza interna, vittima designata della propria stessa forma mentale. Minoranza alla quale non rimarrà che piegare definitivamente la testa accomodandosi nel sottotavola, o viceversa uscire di scena senza poter contare su un minimo capitale di credibilità. Non è poi peregrino supporre che la vittoria del SI favorirebbe un ulteriore giro di vite entro il perimetro delle relazioni sindacali, con la definitiva emarginazione della CGIL. Uno scenario fosco, preludio dello smottamento democratico e della stretta oligarchica che produrrebbe l’affermazione di un modello istituzionale del tutto funzionale alle esigenze dei centri di comando economici - non a caso tutti schierati a favore del SI.
La vittoria del NO, per la quale lavoriamo come si dice “pancia a terra”, non determinerebbe d’altra parte la rimozione automatica delle scorie radioattive disseminate dal renzismo – e prima ancora dal berlusconismo, vero padrefamiglia – in tutti questi anni. Certamente stopperebbe un disegno regressivo, indubbiamente potremmo tirare un sospiro di sollievo per aver impedito oggi la manomissione dalla Carta, sicuramente eviteremmo di precipitare il paese entro una cornice che per lungo tempo ingesserebbe ogni dinamica sociale, ma è bene essere consapevoli che si tratterebbe solo del punto di partenza di un lunghissimo scontro politico. In vista del quale è utile già da ora prefigurare il quadro operativo nel quale la frammentata sinistra politica dovrà muoversi, e delineare gli attori con i quali tessere le relazioni più significative.
Un blocco sociale e politico potenzialmente già c’è, ma solo sulla carta. Penso alle forze che si sono schierate per il NO, la CGIL, l’ARCI, l’ANPI, le associazioni attive sui territori, i giuristi democratici, i tanti intellettuali e i pezzi più avanzati della cosiddetta “società civile”. Ma tutti questi soggetti, pur schierati sullo stesso versante in questa battaglia referendaria, mancano di una visione comune, anche nel rispetto ovvio delle reciproche autonomie. In particolare, permane un nodo di fondo ancora lontano dall’essersi sciolto, che ha finora condizionato le relazioni e la stessa natura del mosaico caotico che abbiamo di fronte.
Parlo naturalmente della visione strategica, della collocazione che si ritiene di dover assumere nel campo della politica, in poche parole del rapporto con il cosiddetto centrosinistra e con il soggetto che sulla carta ne dovrebbe rappresentare il maggiore azionista. Fin quando su questo terreno permarranno ambiguità, aspettiamoci una sostanziale paralisi. D’altra parte, se la questione venisse risolta ancora una volta secondo schemi ormai del tutto tramontati, giocando sull’emozione suscitata dall’evocazione di un immaginario duro a morire, rimarremmo sempre con il cerino in mano, a scottarci da una parte e a baloccarci dall’altra con le creature mitologiche.
C’è bisogno di scelte risolute, chiare, in netta controtendenza rispetto alle dinamiche prevalenti negli ultimi tempi. Una sinistra autonoma, plurale e allo stesso tempo unitaria, dotata di un proprio programma e capace di lanciare la propria sfida per il governo a 360 gradi, pienamente cosciente che l’avversario sta anche negli “album di famiglia” e che anzi proprio da quelle postazioni è stato lanciato il più poderoso attacco alle condizioni di vita dei lavoratori – e ora anche all’architrave democratico - di tutto l’ultimo trentennio. Se raggiungeremo questa consapevolezza, la battaglia referendaria non sarà stata un evento episodico, importante, ma sostanzialmente sterile.
Michele Malaguti, 48 anni. Educatore. Militante della sinistra.
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