La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 dicembre 2016

Da un dicembre all’altro. Ascesa e caduta di Matteo Renzi

di Angelo d’Orsi 
Da un dicembre all’altro, nell’arco di un triennio (2013-2016) si consuma la vicenda politica di Matteo Renzi. Dalla trionfale nomination (che egli surrettiziamente ha preteso di considerare una legittimazione politica) alle “primarie” del Partito Democratico, dell’8 dicembre 2013, fino alla disfatta, imprevista, temuta, auspicata, attesa del 4 dicembre 2016, nel referendum sulla “riforma” costituzionale. Aveva sostituito, dopo poche settimane Enrico Letta, suo sodale di Partito, al quale aveva assicurato solidarietà, con un “Enrico, stai sereno!”, che ha fatto storia, tra le turpitudini politiche del tempo presente.
Dopo quel messaggio, come si sa, il povero Letta fu colpito alla schiena secondo le migliori tradizioni delle congiure di palazzo fiorentine, narrate da Machiavelli. Consumato il crimine, quando stava per presentarsi alla conferenza stampa il 22 febbraio 2014, per sottolineare la discontinuità di stile dai predecessori, lanciò un tweet che si concludeva con “Arrivo, arrivo”, seguito, pare, da una faccina sorridente, un beffardo emoticon, in stile di scanzonato giovanilismo, per far capire subito quanto era giovane, smart, anticonvenzionale: futurista, insomma. 
Autoreferenziale e auto-citazionista, nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 2016, atteso alla conferenza stampa per annunciare la linea scelta dopo la sconfitta, ha ripetuto quell’annuncio (“arrivo arrivo”), ornato di faccina sorridente. Preceduto da un “Grazie a tutti, comunque”. E concluso da uno stentoreo “Viva l’Italia!”. Erano le ore 0,04. Il destino politico del (fino allora) fortunato, intraprendente ragazzotto fiorentino era segnato. 
Ebbene, dopo il simpatico tweet, effettivamente il prode Matteo si è presentato davanti alla stampa per fare le dichiarazioni di rito. Dietro la roboante affermazione "tutte le responsabilità sono mie", e accanto alle mielose dichiarazioni d'amore "agli amici del Sì", alla citazione di prammatica, ormai, di "Agnese" (?!), e dei "miei figli" (l’american style del presidente con i congiunti nelle occasioni importanti), Renzi, come un Cadorna qualsiasi, che spiegò la rotta di Caporetto accusando i soldati di essersi "vilmente arresisi", ha avuto l’impudenza di dichiarare che la “riforma” era chiara, ma che non è stata capita. Insomma, è colpa nostra, colpa di quel 60 per cento di cittadini e cittadine che sono troppo tonti per capire la “riforma” imposta manu militari, forzando le regole parlamentari, stravolgendo l’agenda politica di un Paese bisognoso di vera politica. 
Renzi, in sostanza, era convinto di vincere. Nel discorso d’addio davanti a telecamere e fotografi, ha sostenuto che per suo merito il popolo italiano si è avvicinato alla Costituzione: quella che il suo amico Roberto Benigni ci aveva spiegato essere la più bella del mondo, ma che poi tanto bella non gli pareva se aveva convenuto con il capo che era meglio cambiarla. Quella Costituzione che proprio lui, il presidente del Consiglio, ha cercato di violentare, usando armi tipiche della propaganda pubblicitaria, ricorrendo a formule vuote, ripetute sino allo sfinimento di ascoltatori e telespettatori. 
Sarà bene che ora, prendendo atto che il suo tentativo di manomissione della Carta è fallito, miseramente, si arrenda all’idea che il popolo italiano, tutto sommato, è più maturo della classe politica che pretende di rappresentarlo, e che come ha respinto dieci anni or sono il tentativo berlusconiano di cambiare le regole del gioco, con un referendum che mandò in soffitta la “riforma” della Costituzione, ha rifiutato il 4 dicembre di farsi intrappolare in un regime autoritario, in nome di ridicole parole d’ordine: velocità, efficienza, modernità, e la famigerata “governabilità”. Sarà opportuno che qualcuno spieghi a Matteo Renzi che quel testo, discusso e approvato tra il 1946 e il 1947, entrato in vigore il 1° gennaio 1948, richiama la passione e il sacrificio dei partigiani, l'intelligenza e il rigore dei costituenti, e un impegno nazionale per il lavoro, la giustizia e la pace. Sarà necessario, anzi, che Matteo Renzi comprenda in modo irrevocabile che la parte migliore di questo Paese si è levata in piedi contro il tentativo di una vera e propria restaurazione oligarchica. 
E il PD? Che dire del PD? Io credo che questa sconfitta sia una disfatta per tutto il partito, che in questi anni, ha nuociuto gravemente al Paese, da tutti i punti di vista. Ma ha nuociuto anche a se stesso, riducendosi a diventare il partito personale del “capo”, allontanandosi irrimediabilmente dalle sue stesse origini moderate, con la sciagurata decisione di fondersi con il nemico storico democristiano. Oggi, davanti all’inazione penosa della sua “minoranza” interna, potrebbe essere lo stesso Renzi ad andarsene e fondare un proprio partito: che schiaffo sarebbe per i Bersani e compagnia triste, gli aficionados della “ditta”! Mi limito a ricordare che il PD, con qualche brontolio, ha accettato, sopportato e supportato, mestamente, ogni scelta di Renzi, ogni scellerataggine del suo governo, sprecando due anni e mezzo, con impiego di enormi risorse finanziarie, per fare due leggi a carattere istituzionale (l'Italicum e la riforma della Costituzione), di cui non si avvertiva la necessità. Sottraendo tempo e risorse ai veri imponenti bisogni del Paese. E la “sinistra” interna ha ingoiato provvedimenti disgraziatissimi e contestatissimi, come il famigerato Jobs Act, il salvataggio delle banche (vedi Banca Etruria, con un mostruoso conflitto di interessi della algida signora delle riforme, la Boschi) o la pessima “Buona Scuola”, tanto per citarne un paio, rispetto ai quali il Paese ha dato segnali inequivoci di rigetto. Il PD ha accettato supinamente di diventare, come da tempo scrive Ilvo Diamanti, PDR, Partito di Renzi; una delle tante manifestazioni di quella trasformazione dei partiti politici in “partiti del capo”. Funzionano più rapidamente, forse, ma quando il capo subisce una sconfitta, rischiano di crollare con lui. Ed è quello che probabilmente accadrà nel Partito Democratico. 
L’errore più grande di Renzi, generato dalla sua stessa protervia, è stato di trasformare un referendum confermativo su una modifica costituzionale in un plebiscito: neppure sul governo, ma sulla propria persona: con me o contro di me. E il popolo italiano in una maggioranza ampia, ha urlato il suo NO. Aggiungo che molti dei Sì, in realtà sono stati dati non per adesione al governo o a Renzi e neppure per esprimere un giudizio favorevole alla riforma, ma piuttosto mossi dalla paura suscitata dalla campagna terroristica: se vince il NO, arriva Salvini; cadono le banche; sale lo spread, crolla l’economia. Insomma, il Sì per molti era il male minore. Il NO, per tutti, è stato il rigetto della “deforma” costituzionale, ma è stato anche e per molti, prima di tutto, il rifiuto anche epidermico, prima che politico, verso Renzi e il renzismo, la politica delle parole, la politica della presenza, la politica della “simpatia”: la politica dell’inconcludenza, se non ai danni dei ceti de privilegiati, e oggi i giovani, letteralmente senza futuro, sono i più deprivilegiati. Deve bruciare molto nel “più giovane presidente del Consiglio”, che del giovanilismo ha fatto la sua arma comunicativa e politica fondamentale, essere stato bocciato soprattutto dai giovani, come dicono gli analisti del voto del 4 dicembre. E bocciato soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, abbandonato, a dispetto dell’annunciato completamento della Salerno-Reggio (ma quando!?), o della ripresa del progetto del Ponte sullo Stretto (ma davvero!?). I giovani, in Sicilia come in Liguria, in Piemonte come in Calabria, hanno punito il giovane Renzi, e le sue girls. Il loro messaggio, credo, prima ancora che richiesta specifica di interventi e di politiche, è una richiesta di serietà, quella che è mancata, subissata da gags, tweet, selfies. Il tutto in una ostentata sicurezza di essere interprete autentico degli under 40. 
La protervia, ripeto, una cieca protervia, ha tradito Renzi, che pure di segnali nei suoi mille giorni di governo, ne ha avuto: solo la protervia gli ha impedito di rendersi conto che ovunque andasse – a inaugurare una esposizione, a tagliare un nastro a una fiera, a complimentarsi con banchieri et similia – trovava nugoli di manifestanti che protestavano, che lo irridevano, che lo fischiavano. E venivano regolarmente aggrediti, ancor prima che provassero a forzare i cordoni di sicurezza, dalle forze dell’ordine. E lui ostentava sicurezza, spiritoseggiava, o peggio, con l’arroganza di colui che se ne va sicuro. E intanto occupava in modo ossessivo reti e canali televisivi e radiofonici, imperversava su Twitter: esempio da manuale del “moderno cesarismo” di cui parla Gramsci, poliziesco più che militare, alludendo alla polizia che interviene sui corpi, e all’imbonimento che si occupa delle menti. Eppure questo nuovo “piccolo Cesare” ha fallito, a dispetto anche della maggioranza quasi granitica in Parlamento, grazie a una legge incostituzionale. Grazie ai veti e ai diktat, alle divisioni e agli errori delle Opposizioni. 
Ritengo che il PD oggi, dopo questa disfatta, non abbia più nemmeno ragione di esistere. Se vi sono forze sane in esso, ammesso e non concesso, ne prendano atto, e contribuiscano a dare il colpo finale a un organismo putrescente. E liberando se stessi, contribuiscano alla rinascita dell'Italia tutta. Ma avverrà? Non lo credo. Dunque agiamo, ciascuno come può, con la stessa energia che abbiamo messo in questi mesi di lotta per il trionfo del NO, ma ora per fare della Costituzione repubblicana davvero la strada maestra su cui quella che potremmo chiamare da oggi la Terza Repubblica si dovrà mettere in cammino. E se il Presidente della Repubblica vuole mostrarsi all'altezza del compito storico ora non ha che una possibilità: mandarci alle elezioni, o subito dopo l'approvazione di una legge elettorale decente e democratica (ossia secondo il sistema proporzionale, senza trucchi e premi; ma so che la proposta non piace a una parte dello schieramento del NO), oppure, senza aspettare una nuova legge elettorale, ricorrendo al vecchio Mattarellum. Il Porcellum è stato dichiarato incostituzionale, l’Italicum è sotto giudizio della Corte ed è probabile che segua la sorte della legge precedente. Perciò o una legge nuova, oppure il ricupero di quella ancora precedente, il Mattarellum, appunto (che prende il nome dell’attuale presidente). Le libere elezioni, con una legge elettorale non truffaldina, sotto l'augusta ombra della nostra Costituzione, la sola che riconosciamo e amiamo, sono ad ogni modo il passaggio necessario, e inevitabile. Mattarella deve comportarsi in modo semplicemente opposto a Giorgio Napolitano. E la patria gliene sarà grata. Ma se non dovesse farlo, la nostra damnatio politica oggi, e la condanna della storia domani, si abbatterebbero su di lui proprio come su chi lo ha preceduto al Quirinale. Visto che stiamo parlando di Costituzione, imparino i presidenti, che dovrebbero esserne i garanti supremi, a rispettarla. Altrimenti, di che cosa stiamo discutendo? Di che cosa abbiamo discusso finora? 
È stata dura, la nostra battaglia, durissima. MicroMega è stato in prima linea. Una battaglia epocale, durata mesi, che ci ha sfiancato. Ma abbiamo vinto. E, ora, laboremus! Tutti ora, dobbiamo impegnarci, respinto il nemico, per costruire una alternativa seria credibile e possibilmente unitaria. Non dico l’intero “fronte del NO”, ma quella parte che si riconosce nei valori della Costituzione, che il 4 dicembre abbiamo difeso. E più specificamente quella parte che ritiene irrinunciabile oltre alla difesa dei diritti politici e civili, la tutela dei diritti sociali, anzi la loro implementazione con una piena applicazione della lettera e dello spirito di quella Carta costituzionale che il 4 dicembre avrebbe dovuto gettare alle ortiche. 
Va detto, in chiusura, che il governo Renzi, e il suo PD, hanno ottenuto già un risultato encomiabile. Hanno spaccato un Paese in modo drammatico, accentuando la sua già evidente disgregazione sociale. E questo a prescindere dall’esito del referendum. Di questo, Matteo Renzi e la intera dirigenza centrale e periferica del suo partito devono rendere conto agli italiani, e con loro la coorte di intellettuali e guitti saltati sul carro, pronti a cantar vittoria. Mi spiace per loro. Un momento di silenzio espiatorio non farà loro male. 

Fonte: MicroMega online 

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