del Collettivo Euronomade
La rappresentazione migliore dell’esito referendario è forse il discorso alla nazione di Renzi, alla mezzanotte del 4 dicembre. Mentre le carrozze ridiventavano zucche, e i cavalli topi, Renzi inanellava parole su parole senza alcuna relazione con le cose reali e concrete, quelle che hanno dimostrato, ancora una volta, di avere la testa dura. Se mai sono esistiti significanti vuoti, erano quelli espressi dal Telemaco di Rignano, in quello che è parso un patetico capovolgimento del comizio finale de Il Grande dittatore, concluso anch’esso col commovente saluto alla consorte, cui spetterà il destino cinico e baro di non potersi più assentare da lezioni, collegi e scrutini in quanto moglie del sovrano.
“Non credevo mi odiassero tanto”, dicono abbia detto: per una volta almeno un dato reale gli è stato comunicato.
“Non credevo mi odiassero tanto”, dicono abbia detto: per una volta almeno un dato reale gli è stato comunicato.
Un voto di tali proporzioni per il numero di votanti, per lo scarto fra SI e NO e per la quasi unanimità nei singoli collegi tiene insieme molte cose e molte ragioni. Senza pretesa di avere già pronta un’analisi dettagliata, proviamo a spacchettare questo voto per evidenziare quelle componenti del NO che ci parlano, ci interessano, e nelle quali siamo intimamente coinvolti. Sono solo alcune prime note di lettura, che proponiamo nella consapevolezza che altre dovranno aggiungersi per comprendere il significato di un evento che, nel bene e nel male, segnerà gli sviluppi politici italiani nel prossimo futuro.
Un primo dato che emerge con prepotenza è quello generazionale: nelle fasce di età più giovani il NO ha stravinto. Non si tratta di fare l’elogio della gioventù contro la senilità, ma di tenere presente cosa significa essere giovane oggi, in Italia (e non solo). A votare NO è stata un’intera generazione che, nel corso della propria, finora breve, esistenza, non ha conosciuto altro che precarietà e precarizzazione. Una generazione sulla quale le favole, le capriole statistiche, le tabelle che dicono e non dicono, il rimpallo fra INPS, CENSIS e Divino Otelma non hanno presa: perché gli effetti del Jobs Act, della vita tradotta in voucher, della cartolarizzazione delle esistenze, del furto di futuro questa generazione li vive un giorno dopo l’altro, senza soluzione di continuità.
Un secondo dato che emerge è il massiccio NO del meridione, per una volta seguito da quasi tutto ciò che meridione non è (per la geografia), ma lo sta diventando. Persino autorevoli commentatori mainstream se ne sono accorti, precisi come quegli orologi rotti che per due volte al giorno segnano l’ora esatta. Qui, due immagini restano impresse: la frittura di pesce del presidente della regione Campania, indice di quanto basso sia inteso il valore di scambio di quel voto di scambio che si auspicava – se dovete comprarci, dateci almeno una spigola! La seconda, meno divertente e più infame: il ritiro, alla vigilia del voto, dei 50 milioni per i bambini di Taranto per fronteggiare lo stato di emergenza permanente causato dai veleni dell’ILVA. L’assunzione di medici, l’acquisto di attrezzature sanitarie, le riconversioni ospedaliere diventate merce di scambio: prima del voto te li leviamo, dopoil voto te li ridiamo. Achille Lauro, con la scarpa destra e la sinistra, aveva più classe e più umanità sia di de Luca sia di Renzi. Che nell’orizzonte meridiano di questo NO si sia palesato un Sud che non si lascia più comprare è qualcosa per il quale abbiamo complottato, e di cui non possiamo che essere felici.
Come il meridione e i giovani destinatari del bonus pre-referendario, anche il mondo della scuola non s’è fatto sedurre dai quattro spiccioli dell’ennesimo bonus, né dalle sirene di un contratto che suona insultante solo a leggerne i termini. Che la Buona Scuola avesse sancito il definitivo strappo del mondo della scuola dal blocco politico renziano lo avevano confermato anche le audizioni che il PD aveva svolto al proprio interno, tutte concluse con una sola raccomandazione: ritirate la 107. Hanno creduto di poter ammaliare il “popolo” con il mix di propaganda, paura e leaderismo: andare a sbattere a 100 all’ora contro un albero è ciò che si meritavano, ed è ciò che hanno avuto.
Infine: con buona pace del “voto di pancia”, questo voto si sta rivelando un voto di testa, se è vero che la percentuale di NO sale col crescere del titolo di studio in possesso dei votanti. Dopo tanta cattiva retorica sui cervelli in fuga, si scopre adesso che sono i cervelli che restano ad aver detto NO.
Poi, certo, dentro questo NO ci sono anche molte cose – molte donne, molti uomini, molte idee – che non ci piacciono, che abbiamo combattuto, combattiamo e continueremo a combattere: e siamo consapevoli che, sotto il profilo della politica istituzionale, a vincere – anche “moralmente” – sono stati soprattutto soggetti a noi radicalmente ostili, e non ci riferiamo tanto al movimento 5 stelle in questo momento, quanto alle forze politiche rappresentate da personaggi come Salvini e Meloni. A noi, tuttavia, interessa individuare non solo le tendenze, ma anche e soprattutto gli elementi di conflitto, i processi di soggettivazione, le forme di lotta – politiche e sociali – in atto. E certo non ci pare casuale che questo NO di massa si astato preceduto, quasi lanciato, dalla marea femminile e femminista del 26 novembre: Non una di meno, lo straordinario evento – radicato in processi di lungo periodo e collocato in una prospettiva globale – che rappresenta la vera novità di questa fase politica in Italia, è parsa una felice profezia di quanto doveva succedere la settimana dopo, quando non un solo NO è andato perduto. Complessivamente, il NO ha avuto anche il segno sociale di un rifiuto di massa dell’esistente, di una generale rivolta contro le politiche attraverso cui è stata gestita in questi anni (non solo da Renzi) la crisi, generando ulteriore miseria e precarietà – espropriando ampi settori sociali della possibilità stessa di immaginare un futuro.
Che fare, dunque? Non c’è dubbio, lo abbiamo accennato, che grandi elementi di preoccupazione sono all’orizzonte: il che, beninteso, non deve negarci la soddisfazione per questo risultato. Facendo non uno, ma due passi indietro, vale ricordare quanto dicevamo mesi prima dell’approvazione parlamentare della riforma Renzi-Boschi [qui]:
"Di fronte alla radicalità delle trasformazioni costituzionali, ma soprattutto di fronte alle metamorfosi sociali che hanno prodotto quelle trasformazioni, non c’è semplice difesa che tenga, non c’è restaurazione possibile di un buon equilibrio dei poteri, di una corretta misura dell’azione di governo, di una nuova “buona” e non corrotta rappresentanza: si tratta di opporre alle riforme che si susseguono nel segno della governabilità “dall’alto”, la sperimentazione di nuovi spazi di riappropriazione di decisione politica e di potere dal basso, l’apertura al protagonismo di una nuova produzione di soggettività. Niente di astratto o che non abbia del resto già gambe solide su cui camminare."
Lo ripetiamo: Non una di meno è stata la formidabile esemplificazione della potenza di questo protagonismo. Ha un carattere esemplare, che occorre sviluppare mantenendo un rigoroso rispetto dell’autonomia di quel percorso, che già guarda alla grande mobilitazione su scala globale del prossimo 8 marzo, proposta dal movimento argentino.
Il processo di rivoluzione dall’alto, nella variante renziana, ha subito un brusco arresto; sappiamo tuttavia che quel tentativo ha già conseguito i propri successi sul piano della costituzione materiale (e per molti aspetti anche su quello della costituzione formale, basti pensare al pareggio di bilancio). Sotto altre forme, il tentativo di approfondire quella rivoluzione dall’alto si riproporrà: ad esso, di nuovo, bisognerà opporre lotte dal basso. Non è un gioco a somma zero – non lo è mai, nel conflitto politico: in questi pochi mesi, qualcosa è successo – ad esempio le sperimentazioni municipaliste di Napoli –, e non per caso, tantomeno soltanto per l’autonomia di questo o quel sindaco o sindaca, ma per la produttiva spinta di lotte, talvolta di lunga durata. Non ci sembra casuale l’intreccio fra l’uscita del comune di Torino dall’osservatorio sull’alta velocità e l’esito plebiscitario del NO in Val di Susa: una concomitanza che ha aggravato la gastrite a un ceto politico sabaudo – senatori, ex sindaci, ex (?) magistrati –, cosa della quale ci rallegriamo.
Così come non ci sembra accidentale quanto è successo in Austria, poche ore prima che si conoscesse l’esito referendario in Italia: a vincere, qui, non è stato soltanto non un compassato politico ecologista dai modi un po’ aristocratici, ma anche un movimento di massa che nei giorni della crisi dei muri ungheresi si metteva in moto con le proprie macchine per andare a prendere i profughi e portarli in Austria. Lungi dal fantasticare di fantomatici entrismi e velleità egemoniche a fronte della reazione xenofoba e populistica, in Austria si è manifestata una sinistra che, sull’orlo della crisi dei partiti storici e della socialdemocrazia, ha saputo trovare un punto di saldatura fra le istanze ambientaliste e i migranti di seconda generazione che ormai costituiscono una parte non irrilevante della popolazione: e costruire vera egemonia, e vincere. Forse, al di là del Brennero, c’è qualcosa da studiare, qualche appunto da prendere: di sicuro si riaprono molti giochi sulla questione migrante. Di sicuro, con questo voto riprende fiato e tempo l’Europa – non quella delle unioni o delle troike, ma quella, da costruire, del comune e delle moltitudini:
"Dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti la rottura dell’asse atlantico diventa una prospettiva strategica in cui inserire la mobilitazione sociale e politica tanto all’interno dell’Europa quanto nella costruzione di un nuovo internazionalismo [qui]."
Ritorniamo alle ragioni che avevano motivato sin dalla Scuola estiva del 6 ottobre (avevamo improvvidamente prolungato la stagione oltre l’autunno, e ci ha detto bene!).
NO costituente per il diritto alla citta e il “commoning”: lotta per il diritto alle città che vogliamo, a partire dai movimenti e dalle esperienze di municipalismo già in corso.
"Soltanto assumendo l’autonomia territoriale come “spazio politico” e come «contropotere» e, in esso, articolando i nessi tra i contenuti del referendum e le lotte sociali contro lo sfruttamento del lavoro vivo e contro l’azione predatoria sui commons, è possibile sperimentare una politica urbana in grado di incidere sulla qualità delle relazioni sociali, migliorandole e liberandole dall’ubiquità statuale [qui]."
NO costituente per decidere delle e sulle nostre vite individuali e collettive.
"Andare oltre il prossimo referendum, per continuare a prospettare e praticare forme alternative di vita e di costruzione del comune (di appropriazione sociale di esso); per re-immaginare e riarticolare il nesso tra libertà/uguaglianza (negli stessi spazi quotidiani delle città); per sperimentare possibilità altre di convivenza e cooperazione sociale; per un agire politico alternativo, generativo e insidioso [qui]."
NO costituente dalla scuola e per la scuola, non solo per dire NO alle politiche scolastiche di questo e degli altri governi e alle loro illusioni di governabilità, efficienza, e performatività, ma anche per riaprire la lotta nelle scuole [qui].
NO costituente per tenere aperti i giochi: non solo per impedire una sconfitta del comune, ma anche per guadagnare tempo da investire in nuove lotte [qui].
NO costituente per inserire un cuneo nella crisi del costituzionalismo, per rispondere con un costituzionalismo precario che sappia portare l’attacco all’altezza dei processi di decostituzionalizzazione, delle governamentalità e delle loro crisi, e della crisi dello Stato-nazione di cui si nutrono, a partire dall’emergere
"di molteplici soggettività che avanzano richieste «eccedenti», incarnando nuove forme di agency politica. Si tratta di istanze che eccedono l’inclusione all’interno degli argini prestabiliti della democrazia, che travalicano le logiche dell’appartenenza tradizionale, messe così in profonda crisi «dal basso», e che, invece, sostanziandosi di «comportamenti di secessione ed exit» esprimono la volontà propria di queste diverse soggettività di essere direttamente artefici delle proprie vite e dei propri destini [qui]."
Tutto questo è, lo diciamo con modesta consapevolezza, estremamente difficile da realizzare: quasi un sogno. E dopo il referendum non si apre nessun percorso lineare. Probabilmente, si chiude il tentativo renziano di imprimere una decisa accelerazione alla gestione della crisi, affrontando l’esaurirsi di governi tecnici e grandi coalizioni con la creazione di un Partito della Nazione, e con un mix molto dinamico di decisionismo e neoliberalismo. Ma questo non apre certo lo spazio di una opposizione dicotomica establishment/antiestablishment, come pensano, troppo facilmente, i terribili semplificatori, populisti, sovranisti, rabdomanti della rottura, o quant’altro produca di volta in volta la maledizione dell’autonomia del Politico. Né s’apre il mare della tanto invocata e un po’ mistica ingovernabilità: che non sia la molto relativa ingovernabilità delle fibrillazioni istituzionali. Quello che è certo è che è ancora tutto tempo guadagnato nell’interregno tra una gestione neoliberale della crisi sempre meno capace di stabilizzazione, e un dopo che può contenere in pancia, non dimentichiamolo, anche il peggio del peggio. Tempo guadagnato per quella composizione sociale che si esprime, certo non univocamente e non da sola, in questo voto giovane, meridionale, istruito, ma anche potentemente desalarizzato, impoverito. Ma non sono gli “esclusi” o gli impauriti. Come Non una di meno ha sottolineato, con la enorme consapevolezza accumulata dal femminismo delle precarie sempre “acrobate” sul filo della vita interamente messa al lavoro, sono vite produttive mai considerate tali da uno sfruttamento neoliberale che cancella tutto quanto si muove sul crinale riproduzione/produzione; che oscura il lavoro sociale, scarsamente retribuito o gratuito, che percorre le città e ne cambia anche la geografia politica, come cominciamo a vedere nelle esperienze neomunicipaliste; che inventa continuamente dispositivi di valutazione, gerarchizzazione e disciplina dell’intelligenza collettiva, come sanno nei comparti dell’istruzione, così determinanti nel NO. Tutta queste complesse, ricche, ed eterogenee possono fare marea: ma richiedono di tenere insieme invenzione di forme organizzative adeguate, sviluppo di nuova istituzionalità autonoma, e, soprattutto, una capacità di elaborazione programmatica altamente innovativa. Il tempo guadagnato è tempo guadagnato per noi se sarà riusciremo a muoverci su tutti questi piani, senza retrocedere verso la “ricomposizione” delle vecchie identità politiche, ma anche senza ritenere che la sconfitta durissima di un governo sia il viatico per una progressiva e lineare “radicalizzazione” del “popolo”, o di quale altra già servita “figura”. Si apre invece lo spazio dell’invenzione programmatica e istituzionale, per moltiplicare la forza di queste soggettività che hanno fatto deragliare la presuntuosa marcia di governo.
Lo dicevamo un mese fa:
"Quanto appare realisticamente necessario è al contempo estremamente difficile, può sembrare perfino impossibile. Un sogno? Forse. Ma a pochi giorni dal novantanovesimo anniversario dell’Ottobre vale ancora la pena di citare Lenin: “un marxista ha il diritto di sognare”."
Non abbiamo alcuna regione per pensare il contrario: ma forse il 4 dicembre ne abbiamo trovata qualcuna per continuare a dirlo, a costruirlo, a sognarlo.
Fonte: Euronomade
Originale: http://www.euronomade.info/?p=8470
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