di Ugo Carlone
William Beveridge è considerato “il padre del welfare state”. Nasce in Inghilterra nel 1879 e muore nel 1963. Pedigree da uomo importante: economista, sociologo, uomo politico, rettore della London School of Economics e dell’University College di Oxford, consulente e funzionario del governo britannico, si occupa a lungo di servizi sociali e assistenza. È eletto come deputato liberale nel 1944 e, nel 1946, accetta il titolo di baronetto entrando a far parte della Camera Alta del Regno Unito. Nel novembre del 1942, durante il secondo conflitto mondiale, presenta al governo Churchill i lavori della commissione di studio sul sistema di protezione sociale che aveva presieduto, il rapporto Social Insurance and Allied Services, meglio conosciuto come Piano Beveridge: è il primo tentativo organico di elaborare un sistema coerente di politiche e interventi sociali “dalla culla alla bara” ed avrà una grande influenza sullo sviluppo dello stato sociale del dopoguerra.
Sulla validità, ancora oggi, di quanto previsto dal Piano è stato detto molto. Il documento risente fortemente dell’epoca in cui è stato scritto (anche nella terminologia); contiene, però, un gran numero di indicazioni che possono essere ancora di stretta attualità. Insomma, è un classico, che non perde valore con il passare degli anni. Chi analizza lo stato sociale si troverà sempre di fronte ai principi che “il padre del welfare state” elaborò 70 anni fa. E allora, di fronte a ciò, è possibile, con un passaggio solo apparentemente ardito, rintracciare nel Piano e nel pensiero di Beveridge princìpi, obiettivi, metodi e materiale utile anche per alimentare il dibattito su una misura che, attualmente, si configura come vera novità per lo stato sociale di oggi (e del futuro), cioè il Reddito di Base Incondizionato (RBI)? Vediamo meglio.
Welfare state e Reddito di Base Incondizionato
Abbiamo già scritto sul reddito per tutti, qui, su Ribalta. Riprendiamo brevemente le caratteristiche di quella proposta, prima di proseguire la discussione. Le desumiamo dal lavoro di Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, che, nel 2005, hanno pubblicato un libro divulgativo su tema, punto di riferimento dei sostenitori della misura (che nel testo viene chiamata Reddito Minimo Universale). I due autori vedono il reddito per tutti principalmente come strumento efficace per la lotta alla povertà e alla disoccupazione e come misura di giustizia sociale. Per Reddito Minimo Universale essi intendono “un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite”. Qualcosa di molto diverso dalle tradizionali misure di Reddito Minimo Garantito (RMG) in vigore nella quasi totalità dei paesi europei (non in Italia – ne abbiamo parlato qui): riservate ai poveri e/o ai disoccupati, esse presuppongono un controllo delle risorse economiche dei potenziali beneficiari (la “prova dei mezzi”), tengono conto della loro situazione familiare e sono condizionate dall’impegno, più o meno stringente, a partecipare ad un progetto di inserimento sociale, quasi sempre di tipo lavorativo. Invece, il Reddito Minimo Universale (o RBI, che è la stessa cosa con un nome diverso) sarebbe attribuito a tutti, ricchi e poveri (quindi senza controllo delle risorse economiche), su base individuale (e non familiare), senza esigenza di contropartita alcuna, senza verifiche sull’utilizzo delle somme percepite e con la possibilità di cumulo con altri redditi. Insomma, tutti (ma proprio tutti) ricevono una somma fissa di denaro per soddisfare le esigenze primarie: senza fare nulla, per sempre e, volendo, in aggiunta ad altre entrate. Una specie di rivoluzione, secondo alcuni, sostenuta da una rete internazionale (il Basic Income Earth Network) che ha anche una sezione italiana (il Basic Income Network Italia).
Rimandiamo al precedente articolo la descrizione delle giustificazioni che propongono i sostenitori di una misura siffatta, degli effetti positivi e negativi, delle ricadute sulla propensione a lavorare e della relativa sostenibilità economica. Qui, come detto, ci interessa capire se dal Piano Beveridge, modello di riferimento di chi ha messo in piedi i sistemi di welfare del secondo dopoguerra, è possibile trarre indicazioni utili anche per sostenere l’introduzione di una qualche forma di RBI e se quest’ultima può legittimamente inserirsi nel solco propriamente universalista tracciato con nettezza, come vedremo, da Beveridge. Non si tratta di un’operazione inutile o meramente teorica: arrivare ad affermare che nel documento che ha costituito la base dei moderni sistemi di protezione sociale si trovano princìpi, obiettivi e metodi riconducibili alla battaglia per il RBI significa poter sostenere che, con l’introduzione di un reddito per tutti, ci troveremmo in scia con un qualcosa che è già esistito, ha già funzionato, ha già permesso di risollevare milioni di situazioni di povertà, ha già garantito l’emancipazione sociale di un numero elevatissimo di individui: il welfare state. Certo, lo stato sociale era ed è pieno di pecche (per alcuni è stato addirittura funzionale allo sviluppo dell’economia capitalista e alla crescita delle disuguaglianze) e non ha abolito del tutto la miseria; anzi, nella crisi attuale che stiamo vivendo, la povertà è visibilmente aumentata (anche e soprattutto nel nostro paese). E allora, occorre certamente un rinnovamento dei sistemi di protezione sociale, che oggi versano in grave difficoltà: di legittimità (sociale e politica) e di bilancio.
Non possiamo addentrarci, qui, nel merito della crisi del welfare, perché ci porterebbe troppo lontano. Diamola per scontata. E ragioniamo su un’idea promettente per il futuro dello stato sociale, quella del RBI, così come prima definito: un reddito per tutti. Bella e impossibile, secondo alcuni; ingiusta e troppo costosa, a parere dei suoi detrattori; semplice, nuova, dirompente e utile per i suoi sostenitori. Sta di fatto che il dibattito su questa proposta è ricco e vivace, ed anche in veloce progressione. Vediamo allora, dapprima, cosa prevedeva il Piano Beveridge (ripubblicato nel 2010 dalla FrancoAngeli) e, poi, quanto materiale proveniente da questo fondamentale documento è utilizzabile per sostenere l’introduzione di un RBI, per un radicale rinnovamento dei sistemi di protezione sociale.
Il Piano Beveridge: princìpi e scopi della protezione sociale
L’obiettivo principale che Beveridge, nel 1942, si propone è quello di abolire il bisogno (want, nell’originale inglese), attraverso la garanzia di un reddito minimo individuale per far fronte alle esigenze di base della vita. Il suo Piano è di tipo universalistico, sotto due punti di vista: è diretto a tutti i cittadini e abbraccia ogni categoria di bisogno. Quest’ultimo, secondo Beveridge, è dovuto a due cause principali: non avere un lavoro che dia reddito; percepire un reddito inadeguato in rapporto alla numerosità della famiglia. Il welfare state deve, perciò, a fronte di un’interruzione o un’inadeguatezza del guadagno, estendere la protezione verso chi ne è escluso, difendere dai rischi non ancora protetti, aumentare i benefici ottenibili e permettere di provvedere alle esigenze di bambini e famiglie. La protezione sociale costituisce proprio il “metodo primordiale”, nelle parole di Beveridge, di redistribuzione della ricchezza: un semplice aumento della produzione (quello che oggi chiameremo crescita economica) non può bastare ad abolire il bisogno.
La copertina originale del Piano Beveridge.
I tre assi della protezione proposti sono le assicurazioni sociali per i bisogni primordiali della vita, l’assistenza nazionale in casi speciali e l’assicurazione volontaria per aumentare le provvidenze di base.
(1) Il primo, l’assicurazione sociale, asse portante del Piano, prevede il pagamento in contanti di un sussidio a copertura dei bisogni primari, nei casi di interruzione o perdita della capacità di guadagno e a fronte di contributi obbligatori precedentemente versati. Sussidi e contributi sono uguali per tutti, indipendentemente dalle risorse personali.
(2) Accanto a questo asse, non può mancare un tipo di assistenza più tradizionale (anche per i tempi in cui scriveva Beveridge): la previsione di pagamenti in contanti per chi non ha potuto contribuire all’assicurazione sociale (i “casi speciali”), garantiti dall’erario nazionale. È importante sottolineare che Beveridge considera l’assistenza nazionale un completamento indispensabile delle assicurazioni sociali. Un tipo di protezione, sì, residuale, ma comunque garantita. È con questa previsione che il Piano può dirsi propriamente universalistico.
(3) Terzo asse, quello delle assicurazioni volontarie, già sviluppate nel primo dopoguerra. Non si tratta di un semplice tassello decorativo, ma di una vera esigenza da garantire alla cittadinanza. Il ragionamento di Beveridge (che è un liberale) è semplice: le classi sociali sono differenti per disponibilità e capacità di spesa e ogni individuo è libero di raggiungere un tenore di vita più elevato della semplice sussistenza; perciò, lo Stato deve lasciare il dovuto spazio alle assicurazioni volontarie, in grado di aumentare il tenore di vita base, non soffocando la (fondamentale) iniziativa individuale.
Il progetto può definirsi propriamente assicurativo, perché prevede il principio dei contributi, e sociale, in una triplice accezione:
(1) perché non si tratta di assicurazioni volontarie (che sono previste, però opzionali), ma obbligatorie, per tutti;
(2) perché implica una forte solidarietà tra gli individui;
(3) perché gli stessi rischi sono “conglobati” ed ogni cittadino paga in egual misura (con alcune eccezioni), indipendentemente da quanto sia effettivamente rischiosa l’attività che svolge.
Per Beveridge, dunque, la protezione sociale equivale a garantire un reddito sostitutivo dei guadagni interrotti per diverse cause (disoccupazione, invalidità, limiti di età, morte di terze persone) e capace di provvedere anche a spese speciali (nascita, matrimonio, morte). Tuttavia, ed è questo un punto molto importante del Piano, la garanzia del reddito deve durare il meno possibile, attraverso un meccanismo in grado di non legare per troppo tempo il beneficiario ai sussidi. Stato e cittadini stringono una sorta di patto cooperativo: il primo offre, con forza di diritti, protezione contro i bisogni e possibilità di vivere; i secondi contribuiscono economicamente al finanziamento. Nel fare ciò, però, lo Stato non deve soffocare “ambizioni”, “occasioni” e “responsabilità” del cittadino; non deve permettere cioè che lo stesso si paralizzi e perda lo spirito di iniziativa necessario ad andare oltre il minimo garantito dal sistema di welfare.
D’altro canto, la garanzia del reddito è studiata proprio per permettere al cittadino di “sviluppare le proprie attitudini costruttive”. Il principio della responsabilità individuale è molto importante per Beveridge. L’obiettivo del Piano non è infatti quello di concedere a tutti, gratuitamente e in maniera indiscriminata, i benefici della protezione sociale. La finalità è piuttosto quella di “mantenere le persone in piena efficienza e capacità di lavoro”, incoraggiandole (visto che le prestazioni coprono soltanto la mera sussistenza) a procacciarsi un reddito superiore al sussidio percepito e ad andare oltre i semplici bisogni materiali. Del resto, Beveridge riconosce che la presenza, nella società britannica, del bisogno materiale (cioè della povertà) sia uno “scandalo” che richiede una ferma volontà per essere estirpato. Protezione sociale e responsabilità individuale, quindi, non si escludono a vicenda: anzi, la prima permette all’uomo di avere le capacità e di poter svolgere la seconda.
Le assicurazioni sociali: funzionamento e finanziamento
Vediamo brevemente come funziona l’asse portante del Piano di protezione sociale proposto da Beveridge. Ogni cittadino, sulla base del meccanismo delle assicurazioni sociali, è coperto per tutti i bisogni (primari), attraverso un sistema molto semplice: un contributo settimanale da pagare, la cui certificazione va apposta su un singolo documento di assicurazione. Questo permette a tutti di percepire i relativi pagamenti in contanti nel caso in cui si manifesti il bisogno (cioè l’interruzione del reddito), per l’intera durata dello stesso e senza accertamento di risorse. I pagamenti vengono effettuati da un Fondo al cui finanziamento contribuiscono i cittadini assicurati, i datori di lavoro e lo Stato. L’ammontare del sussidio è fisso ed uguale per tutti. È fisso ed uguale per tutti anche il contributo obbligatorio richiesto, indipendentemente dal reddito. Beveridge può coerentemente scrivere che “tutti gli assicurati, ricchi o poveri, pagheranno un uguale contributo per un uguale protezione” (specificando però che i cittadini più agiati finanzieranno di più il sistema di protezione sociale attraverso le maggiori tasse versate all’erario). Non si può pretendere di pagare di meno perché si è esposti a meno rischi: “in un’assicurazione organizzata dalla comunità a mezzo di poteri coercitivi, ogni individuo [deve] sottostare alle stesse condizioni; nessuno può pretendere di pagare meno perché ha migliore salute od un impiego più regolare. […] I cittadini non potranno quindi pretendere di condividere i benefici di un’assicurazione nazionale, senza contribuirvi, e nello stesso tempo di mantenere i vantaggi dei minori rischi individuali di disoccupazione, malattia od infortuni”.
Il sistema assicurativo, poi, garantisce che i cittadini non abbiano l’impressione di ricevere un sussidio “senza fatica”, proveniente da una “borsa senza fondo”. Lo Stato, secondo Beveridge, non può accettare che il pagamento di un sussidio annulli le sue responsabilità nel contenere il più possibile la disoccupazione e nel prevedere un sistema sanitario adeguato. Il pagamento di benefici non basta da solo a garantire l’abolizione del bisogno. In questo senso, vale ancora il rapporto tra responsabilità individuale e protezione sociale, che dà luogo ad un diritto, come diremmo oggi, esigibile, in forza di un impegno rispettato dal cittadino, e non come elargizione dello Stato. Detto ciò, nella sezione del Piano in cui si definiscono i criteri e il funzionamento delle assicurazioni sociali, si ricorda anche che lo Stato non può lasciare da sole le persone che si trovano nel disagio più estremo e non possono coprire i contributi per l’assicurazione sociale.
I cinque giganti e la collaborazione tra politiche
“L’organizzazione delle assicurazioni sociali deve essere trattata come parte di una comprensiva politica di progresso sociale. L’assicurazione sociale, quando sia pienamente sviluppata, può procurare sicurezza di reddito; è un attacco alla Miseria. Ma la Miseria è soltanto uno dei cinque giganti sul cammino della ricostruzione, e forse il più facile da attaccare. Gli altri sono la Malattia, l’Ignoranza, lo Squallore e l’Ozio”. Questo celebre passaggio del Piano riassume in poche righe molti dei suoi tratti salienti: le assicurazioni sociali sono solo una parte del sistema di soluzioni che va messo in piedi per il progresso sociale e per poter attaccare i cinque giganti, cioè gli avversari che si incontrano nel cammino verso il benessere: la miseria, appunto, che si combatte attraverso la garanzia del reddito e le assicurazioni sociali, e poi la malattia, l’ignoranza, lo squallore e l’ozio. Beveridge accoglie le critiche di chi afferma che la protezione sociale, intesa come un piano sviluppato di assicurazioni sociali, sia inadeguata, perché affronta solo uno dei cinque giganti, la miseria. Infatti, di per sé, il reddito non è sufficiente ad abolire il bisogno (obiettivo del Piano), che, a sua volta, è solo una delle libertà essenziali dell’uomo.
Ciò che serve è un programma generale di politica sociale, che preveda la collaborazione con altri ambiti di intervento. Beveridge, a questo proposito, individua tre aree di intervento da garantire perché il Piano possa avere successo e perché si possa propriamente parlare di politiche sociali: le responsabilità familiari, con sussidi per i figli fino a 15 anni; un “esteso” servizio sanitario universale; un deciso contrasto alla disoccupazione.
Beveridge e il Reddito di Base Incondizionato
Il Piano Beveridge è, come detto, un classico da cui attingere idee e princìpi che possono essere applicati anche oggi. E chi sostiene il RBI può trovare molto materiale nelle proposte messe in campo già nel 1942.
(1) Innanzitutto, Beveridge pensa che, in una società sviluppata come quella britannica, la presenza del bisogno materiale, cioè della povertà, sia uno scandalo. Secondo lo studioso inglese occorre una ferma volontà per affrontare questo problema e già il solo affermare in modo così perentorio, da parte di uno studioso liberale, il fatto non tollerabile che milioni di individui vivano in condizioni di deprivazione, è di certo significativo. Si tratta della stessa finalità dalla quale muovono moltissimi sostenitori del RBI che, per prima cosa, vogliono fare in modo che nessuno, ma proprio nessuno, viva una condizione di deprivazione materiale. L’obiettivo di fondo, quindi, è sostanzialmente lo stesso. Ed uguale è la fiducia in un sistema di tipo universalista. Il Piano di Beveridge si basa su assicurazioni obbligatorie, quindi su un sistema strettamente contributivo. Ma accanto a questo asse, ne troviamo un altro, che rende il progetto realmente universalistico: l’assistenza nazionale nei “casi speciali”, cioè quella che riguarda coloro i quali non possono permettersi di versare contributi. Nessuno, pertanto, è tenuto fuori dalla protezione sociale. Inoltre, il sistema è universalistico anche nei confronti dei bisogni che affronta perché copre tutti i rischi generali o uniformi: ogni problema collettivo è degno di una risposta pubblica.
(2) Altro punto di somiglianza è che il Piano Beveridge non prevede la cosiddetta, e famigerata, “prova dei mezzi”, né tantomeno una contropartita in termini di “attivazione”, proprio come sostengono i fautori del RBI. Per ricevere il sussidio non è necessario produrre montagne di carta che attestino lo stato di bisogno, effettuare una serie infinita di colloqui con il personale dei servizi sociali, compilare complicati moduli per la richiesta del sostegno o perdere intere mattinate in coda ad uno sportello. Una volta che si è perso il lavoro, il sussidio è automatico e non c’è necessità di ulteriore burocrazia. Inoltre, il fatto che non sia prevista una contropartita comporta che il sussidio sia incondizionato nel vero senso del termine: non dipende da alcuna controprestazione del beneficiario e non bisogna partecipare a programmi di inserimento o essere coinvolti in lavori socialmente utili, né tantomeno accettare proposte lavorative.
(3) Certo, secondo Beveridge bisognerebbe che il sussidio durasse “il meno possibile” e il cittadino si facesse trovare “pronto” (soprattutto come condizioni di salute – ma siamo nel 1942) per un nuovo impiego. Beveridge non specifica meglio cosa intenda per “il meno possibile”, ma possiamo certamente pensare che egli non ritenga opportuno un reddito minimo incondizionato per sempre, al contrario di quanto sostiene chi desidera un RBI. Infatti, il Lord inglese inserisce l’ozio tra i cinque giganti da sconfiggere per affermare il progresso sociale. Su questo, ma è inevitabile, è molto poco moderno: non può che essere assente, nel suo pensiero, qualsiasi riferimento al riconoscimento economico di attività non prettamente lavorative (come il lavoro di cura di bambini e anziani, per esempio) e men che meno l’oggetto del dibattito sulla necessità di lavorare in maniera “produttiva” per la società oppure permettere a tutti di poter scegliere in maniera autonoma come impiegare il proprio tempo. Il liberalesimo di Beveridge si mostra nell’esigenza di non legare per troppo tempo e “senza fatica” i cittadini bisognosi allo stato sociale e di non soffocare l’iniziativa personale. Il sussidio è concepito in modo attivo, cioè per “sviluppare le proprie attitudini costruttive”: stesso obiettivo, del resto, che si pongono i sostenitori del RBI.
(4) Beveridge, poi, si rende conto benissimo che l’assenza di prova dei mezzi e di contropartite sburocratizza notevolmente il welfare state: e meno burocrazia si traduce in minori costi. Quindi, la bassa spesa di amministrazione è uno degli effetti positivi del suo Piano. Ed è anche uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori del RBI, o meglio: a chi sostiene il RBI viene sempre rimproverato (a ragione) che le risorse finanziarie da impiegare per garantire a tutti un reddito minimo sono eccessive e che la misura è economicamente insostenibile. E chi sostiene il RBI risponde sempre (a ragione anche in questo caso) che buona parte dei fondi necessari (il “quanto” sarebbe da stabilire in base a diversi parametri, primo fra tutti l’ammontare effettivo del reddito minimo) verrebbe dal risparmio dovuto al riassorbimento nel RBI di altre misure di sostegno al reddito (in Italia, per esempio, la cassa integrazione, le pensioni minime, gli assegni per i nuclei familiari e per i figli minori, etc.) e all’assenza di burocrazia e costi di amministrazione. Una misura che non comporta prova dei mezzi e contropartite, quindi prevede spese di gestione davvero basse.
(5) Altro punto in comune: Beveridge pensa che un semplice “aumento della produzione” non possa bastare ad abolire il bisogno. Non è necessario scomodare i teorici della decrescita: il suo opposto, cioè il paradigma della crescita, oggi è un vero e proprio mantra recitato da una quantità indefinibile di soggetti più diversi. Ed è richiamato così spesso proprio per sostenere che un miglioramento generale dell’economia e un rialzo del PIL bastino per porre un freno alle smaccate disuguaglianze sociali esistenti. Non è così, e la cosa non andrebbe neanche smentita, tanto è palese come gli aumenti di punti di PIL, di produttività, di guadagni per le imprese non comportino, in sé, una diminuzione delle ingiustizie né tantomeno un livellamento delle condizioni di vita. E di questo è ben cosciente Beveridge, per il quale occorre un “metodo”, che egli definisce “primordiale”, di redistribuzione della ricchezza, coincidente con la protezione sociale. Questa, a sua volta, deve basarsi sulla garanzia di un reddito capace di permettere a tutti un livello almeno minimo di sostentamento. Siamo nel 1942; oggi, nel 2016, chi sostiene il RBI si richiama allo stesso ragionamento: la crescita, da sola, non basta, occorre un meccanismo in grado di sganciare le condizioni di vita basilari delle persone dagli andamenti ciclici dell’economia e dagli effetti perversi della cattiva distribuzione della ricchezza.
(6) E questo meccanismo, nelle proposte di RBI, deve essere un diritto, non un’elargizione, così come sostiene Beveridge. Deriva dal patto sociale che tiene (dovrebbe tenere) insieme i cittadini di una comunità politica, dalla solidarietà e dalla cooperazione dalla quale prende vita la coesione sociale. Non sono slogan o termini abusati e senza più senso: non lo sono perché, oggi, quel meccanismo che permette di non cadere nella povertà o fa sì che ci si possa risollevare dalla miseria è tutt’altro che garantito e, soprattutto in Italia, lungi dall’essere affermato come diritto individuale. Il Piano Beveridge presuppone un vero e proprio patto tra Stato e cittadini, con diritti e doveri. Diritti, da parte dello Stato, di proteggere tutti “dalla culla alla bara”; doveri, da parte dei cittadini, di partecipare finanziariamente con i contributi per le assicurazioni e con la fiscalità generale per l’assistenza nazionale. E poi, perché il sistema funzioni occorre una forte solidarietà tra i cittadini. È necessario socializzare le esigenze e i bisogni, prevedendo che ogni cittadino paghi i contributi in egual misura, indipendentemente da quanto sia effettivamente rischiosa l’attività che svolge, e riceva un uguale sussidio.
(7) Ancora: simile nel pensiero di Beveridge e in quello dei sostenitori del RBI è l’approccio non livellatore e non di stampo prettamente ugualitarista. Senza addentrarci nell’immenso dibattito sul significato di uguaglianza, di libertà, etc., possiamo dire che entrambe le prospettive considerano il reddito minimo come una base, uno zoccolo, una garanzia contro la povertà, non un meccanismo grazie al quale rendere uguali le ricchezze di ciascuno. La radice libertaria di Van Parijs e l’origine liberale di Beveridge qui si incontrano: in nome della lotta alla povertà (comune ad entrambri gli approcci), il reddito minimo si configura come un diritto al soddisfacimento delle necessità primarie. Poi, “a pancia piena”, ognuno può aumentare le proprie risorse economiche: cumulando ulteriore reddito per i sostenitori del RBI; aderendo ad assicurazioni volontarie (e private) per Beveridge, per il quale, da liberale, una disuguaglianza “giusta” è accettabile, sostenibile e, in fin dei conti, auspicabile. Non siamo tutti uguali, pensa lo studioso inglese, e le disuguaglianze possono esistere e sono inevitabili. Insomma, universalismo non equivale a uguaglianza. Proteggere tutti dai rischi non vuol dire creare una società in cui ciascun cittadino è uguale all’altro come tenore di vita. Beveridge ricorda che le classi sociali sono differenti per disponibilità e capacità di spesa e che ogni individuo è libero di raggiungere un tenore di vita più elevato della semplice sussistenza. Perciò, da liberale che ha a cuore l’iniziativa individuale, egli non pensa certo di soffocarla e dà la possibilità a chiunque di versare contributi volontari per poter disporre di un maggior reddito in caso di bisogno.
(8) Da ultimo: garantire un sostegno economico di base non vuol dire smantellare il welfare state. E questo, di nuovo, sia per Beveridge, sia per (la maggioranza de) i sostenitori del RBI. Il primo afferma che per combattere i cinque giganti serva un programma generale di politica sociale, perché le assicurazioni sono finalizzate a contrastare solo la miseria. Il welfare deve essere composto anche da sussidi infantili, un servizio sanitario nazionale e interventi di prevenzione della disoccupazione. Questo punto è quello che più esprime l’esigenza di organicità del sistema, che va pensato e realizzato seguendo un disegno generale e con obiettivi ben precisi: il contrario di uno smantellamenteo del welfare. Ed anche i sostenitori del RBI, a loro volta, pensano (tranne quelli che si inseriscono nel filone liberista, come, ad esempio, Friedman) che il sostegno economico sia un tassello di un più ampio sistema di politiche sociali. Un tassello fondamentale, ma non unico e soprattutto non sostitutivo degli interventi che riguardano l’istruzione, la salute, il lavoro, etc.
Sono molti, allora, i punti in comune: abolire la povertà, erogare un sussidio come diritto e senza condizioni, sburocratizzare lo stato sociale, abbassare i costi di amministrazione, socializzare le difficoltà individuali, non considerare risolutiva la crescita economica, garantire libertà nell’uguaglianza, non smantellare il welfare state. Nel 1942, come nel terzo millennio. Chi l’avrebbe mai detto?
Fonte: ribalta.info
Originale: http://www.ribalta.info/2761-2/
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