di Hamilton Santià
Forse quando parliamo di crisi economica dovremmo smettere di criticare il capitalismo finanziario discettando di come l’unica soluzione per abbattere le disuguaglianze sia rappresentata dal ritorno a una specie di socialismo democratico. La politica si è dimostrata inadeguata: da un lato, non ha più nessun tipo di controllo sui meccanismi profondi dell’economia e non è in grado di invertire il meccanismo perché è molto difficile rimettere il dentifricio nel tubetto; dall’altro, ha rinunciato a qualsiasi analisi della società – limitandosi alla policy lasciando stare la poltics – per offrire un’alternativa visionaria, con parole nuove, metodi nuovi e diversi. Le risposte non soffiano nel vento, ma hanno la faccia concreta di Donald Trump e del ritorno agli stati nazione.
Un protezionismo economico che sembra più uno slogan che altro. La gestione dei debiti pubblici non si riduce a qualche annuncio di comodo (chi va a spiegare agli americani che i cinesi ormai detengono gran parte del loro debito sovrano?) e la recente discussione sul capitalismo non sembra interessata a una riforma – anche radicale – del sistema quanto a un lamento continuo sulla perdita del potere d’acquisto. Quella che nel dibattito semplifichiamo come destra populista attacca la finanza non per metterne in discussione i meccanismi, ma perché ha ridotto la percezione della ricchezza dopo anni e anni di sovradimensionamento della retorica dell’abbondanza e quelle vite a credito che, per dirla con il solito Bauman, non possiamo più permetterci.
Quello che manca, probabilmente, è un’avanguardia intellettuale che sia in grado di rispondere alla domanda che, tra l’altro, ha dato il nome a questo sito: Che Fare? Quale soluzione? Quale agire? Come tradurre un pensiero che non sia superficiale e non sia sintesi parziale di ricette che non riescono (più) a entusiasmare in azione politica dal punto di vista culturale e amministrativo? Uscire dai gangli di un conservatorismo di fondo che porta anche noi trentenni a pensare secondo categorie tradizionali, magari non totalmente sconfitte dalla storia, ma inadatte ad affrontare una situazione che sta evolvendo giorno dopo giorno.
Non possiamo continuare a credere che le alternative siano o un cambiamento per il cambiamento in sé, o un ritorno a ricette di protezione economica e sociale che – da destra come da sinistra – non tengano conto della infinita complessità del nuovo (nuovo?) scenario. Forse dobbiamo anche smettere di pensare alla “crisi” come un momento di passaggio, che si pone tra un prima e un dopo, come una fase anti-ciclica classica. Forse dobbiamo pensare alla “crisi” come una ridefinizione totale, un’occasione per riconfigurare le nostre categorie, i nostri strumenti analitici e i nostri obiettivi sociali e politici.
Non è che non esistano più la destra e la sinistra: forse, però, dobbiamo ricollocare il senso storico dello scontro sociale e proiettarlo nel futuro. Inoltre, dobbiamo ridare alla parola “futuro” la sua dignità dopo che per anni è stata usata in modo strumentale, svuotandola di qualsiasi significato.
Sulla copertina de La vita al tempo della crisi (Einaudi, 2016) Amalia Signorelli spiega come la precarietà esistenziale e del lavoro sia l’occasione di sperimentare, soprattutto per i più giovani, nuovi stili di vita e nuove gerarchie di valori. Una riflessione antropologica, la sua, che se non offre risposte – abbiamo ormai capito che la formula magica non la troveremo sui libri, nonostante aumentino le domande da porci – almeno propone di utilizzare delle chiavi di interpretazione diverse. Prima di tutto, nel definire la nuova condizione come un mondo in cui la profezia di Margaret Thatcher sulla disgregazione della società in favore dell’individuo sia ormai pienamente realizzata, anche se non come previsto: è un individuo ripiegato su se stesso, introiettato, rinunciatario: «Questo soggettivo sentimento di totale impotenza è certamente la manifestazione più grave della crisi di presenza; il malessere, il senso di inutilità, di impotenza, di insignificanza si manifestano in forme non tanto drammatiche, quanto depressive: se il mondo si ritira dal soggetto, il soggetto si ritira dal mondo, che, dal punto di vista esistenziale, per lui si riduce, si fa sempre più piccolo, vuoto, insignificante». (p. 18)
Forse dobbiamo ripartire da qui. Da cosa è successo. Senza perdere ulteriore tempo a chiederci come “non” poteva succedere. Muoversi consapevoli di uno scenario “post”. La crisi che abbiamo/stiamo attraversando è una sintesi di più crisi. Come se si fossero accumulate una sull’altra per poi esplodere sul fuoco dell’economia: crisi della famiglia come istituzione; crisi dell’individuo; crisi del concetto di lavoro; crisi dell’edonismo e del senso di colpa; crisi del consumismo; crisi dell’identità; crisi delle istituzioni; crisi della politica e crisi del politico (sono due faccende differenti). Tutti elementi interconnessi e consequenziali.
Amalia Signorelli passa in rassegna queste varie crisi cercando di leggerle, attraverso la sua particolare lente prospettica, dentro il contesto italiano. E cerca di unire i puntini delle varie disgregazioni. Dall’idea di lavoro come elemento fondamentale per l’identità di una comunità, al concetto di famiglia passato attraverso una crisi comportamentale che ha portato al “genitore amico” fino alla costruzione di nuovi e inediti nuclei familiari come nucleo per il riscatto personale della persona («…è sorprendente l’unanimità con la quale tutti indicano nella famiglia l’istituzione più importante a cui sentono di appartenere, quella alla quale non vogliono e non possono rinunciare. In verità, quando parlano di famiglia, intendono la coppia che hanno costruito», p.72); dal distacco dalle istituzioni (che va a legarsi a una più generale sfiducia – per usare una definizione di Ilvo Diamanti – nei confronti della politica) alla incapacità di far fronte all’età dell’incertezza perché non abituati alle crisi e non abituati alla mancanza di orizzonte e “non essere” della persona.
Una radiografia piuttosto complessa e puntuale. Un’analisi su cui è molto difficile non essere d’accordo e che, anzi, ha anche il merito di unire diversi elementi per delineare un quadro più complessivo. Soprattutto, un quadro che analizza l’Italia di oggi. Un paese stracciato e sfilacciato, che non ha più una direzione politica; diviso tra le retoriche minacciose – diverse ma uguali – di Matteo Renzi e di Beppe Grillo.
Un paese che negli ultimi anni ha visto aumentare la percezione della sfiducia (un recente sondaggio Ixe per Agorà segnala come solo le forze dell’ordine e la chiesa godano della fiducia della popolazione), con gli stipendi più bassi d’Europa, le forme di lavoro più umilianti – in cui non si cresce, non ci si forma e spesso non si viene nemmeno pagati – e dove la libera iniziativa viene guardata con sospetto e non esistono forme di welfare che facciano sentire gli under 35 al sicuro nella loro volontà di sperimentare e cercare di costruire.
Se nel paese di Adriano Olivetti, i giovani del 2016 hanno paura di vivere la propria vita perché non vogliono finire sotto un ponte, allora c’è qualcosa che non va.
Molto difficile non condividere l’analisi di Signorelli, dicevamo, così come molto difficile non condividere qualsiasi analisi intelligente sulla vita ai tempi della crisi. Quello che resta da capire è il passaggio successivo. Quali forme di organizzazione possiamo darci per agire sulle macerie di quella che abbiamo chiamato, fino all’altro ieri, società? Come possiamo pensare di costruire comunità metabolizzando il lutto della morte delle vecchie cattedrali dell’aggregazione (la fabbrica, l’ufficio, il partito, l’oratorio, addirittura il campo da calcio)? Come possiamo ripartire da questa individualità che non è più esplosivamente edonista, ma rassegnatamente introiettata all’immobilismo? Come superare la “stasi” di una generazione rassegnata tra Oblomov e Bartleby, che ha la consapevolezza di invecchiare da neet (Not in education, employment or training), che guarda agli hikikomori giapponesi e però non vede male la reazione rabbiosa rappresentata dai populismi post-ideologici semplicemente perché offre, comunque, anche se non ci piace, anche se ci sembra illogico, una risposta? Come possiamo costruire un progetto di azione a partire da queste analisi condivise e uno scenario in cui abbiamo paura di perdere qualcosa nonostante, di fatto, non ci sia più un granché da perdere? Come possiamo essere padroni del nostro tempo in questo tempo “senza scelte”?
La “crisi” ha fatto saltare abitudini e status, ha fatto arretrare posizioni e provocato un’ulteriore contrazione dell’apertura sociale. Chi è nato e cresciuto in questo contesto di incertezza ha ormai introiettato la cultura della “vita rinviata” – quel processo per cui non sembra mai arrivare il momento in cui una cosa sembra definita e definitiva (negli affetti; nel lavoro) – e sta cercando a suo modo di costruire sacche di resistenza privata e personale partendo da alcuni piccoli nuclei che, a più riprese e in vari modi, si possono definire “famiglia”. In realtà, potremmo prendere questo concetto e allargarlo all’idea di “comunità”: magari diversa da quella che abbiamo sempre immaginato, ma capace di crescere e darsi un piccolo orizzonte.
La necessità, invece, è quella di darsi un orizzonte più ampio, uscire dall’utilitarismo dello scopo quotidiano, della sopravvivenza. Ripartire dal concetto di comunità, costruire spazi di aggregazione e definire linee di azione concreta e fattuale.
Da qualche tempo, il consulente e analista politico Dino Amenduni sostiene come per ridefinire gli orizzonti delle nostre azioni sia necessario ritornare alla diade “destra” vs “sinistra”. Secondo me, l’opportunità che arriva dal crollo del mondo come lo conosciamo, potrà essere rappresentata dalla costruzione di comunità solidali in cui l’individuo torna al centro, ma come motore di un progresso collettivo.
Fare rete, come metafora, non potrebbe mai essere così efficace. Una rete che si costruisce attorno a parole nuove, o parole tradizionali con significati rinnovati, che rappresentino davvero i nuovi orizzonti di “destra” e di “sinistra” (personalmente preferirei quest’ultima).
Tornare a considerare ogni nostro gesto un gesto politico. E considerarlo nell’ottica di una comunità che deve rinascere, ricostruirsi e ridefinirsi. Se noi under 35 continueremo ad interpretare il mondo con le categorie di chi è arrivato prima di noi, avremo fallito la loro missione. Nessuno ce lo ha chiesto, vero, ma deve esserci un antidoto naturale alla rassegnazione e forse possiamo trovarlo nel mondo a venire.
Fonte: che-fare.com
Originale: https://www.che-fare.com/crisi-modo-mondo/
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