La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

È già politica: le donne e la radicalità del desiderio

di Cristina Morini 
C’è una pagina nel libro È già politica, Scritti di Rivolta Femminile n.8, a cui ho pensato spesso in questi anni. È esattamente il 1977 e il gruppo che firma la raccolta di testi, Maria Grazia Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi, Anna Jaquinta, racconta di aver reso fantasma il progetto di una casa editrice per vari motivi: “Insofferenza per un programma di scadenze prefissato da rispettare nella pubblicazione; insofferenza a inserirsi nel meccanismo distributivo; insofferenza per gli inevitabili contatti diplomatici con esponenti della cultura e del giornalismo; insofferenza per il ruolo di donna editrice come figura di successo; insofferenza per le motivazioni ideali della nostra impresa ‘a favore delle donne’”.
PARTO DA QUI per segnalare un’inclinazione di cui il 1977 è stato, a mio avviso, espressione più compiuta e che è bene incarnata dalla politica delle donne. Tale attitudine, sinceramente antagonista rispetto all’esistente, matura progressivamente nel clima degli anni Settanta. Si pone come ricerca, a un tempo ideale e immanente, di legami tra vita e politica, tra vita e sapere, incastonando molteplici segnali, intuizioni e pratiche che sono innanzitutto specchio di un cambiamento in atto nella società dell’epoca: si forzano i limiti tra individuo e collettivo, “si superano d’un balzo gli scogli organizzativi e di costume suddetti”, l’orizzonte si schiude al possibile e al virtuale, al punto da influenzare il rapporto tra realtà e immaginazione. Il mondo sembra prossimo ad accogliere una rivoluzione del desiderio, indicata da Deleuze e Guattari, che non potrà più essere controllato e razionato dal veto edipico imposto dai padri (di cui il capitalismo è somma rappresentazione). Il desiderio non ci mancherà mai più.
IL 1977 ASSUME allora posture inconfondibili, che si chiameranno anche “orizzontali” o “assembleari”, nelle quali troveranno spazio tutte le forme di espressione creativa, il racconto personale, le pratiche autocoscenziali del femminismo. Ma sarà soprattutto, innanzitutto, insofferente alle gerarchie e a ciò che raffigurano, alle penurie, alle dipendenze che dispongono ordini e classificazioni. Cito ancora da È già politica alcuni icastici aforismi, Primati dell’intuizione, distillati dal Manifesto di Rivolta Femminile e da altri testi: “Rifiuto della cultura per scoprire se stesse; il genio non è una realtà, ma una categoria della cultura; rifiuto del potere (non come favola poetica); alto valore ai momenti improduttivi”.
LA GENERAZIONE DEL 1977 è stata la più in assoluto permeabile alla modalità della cooperazione e dell’immaginazione collettiva, dell’individuazione collettiva benché non abbia aspirato affatto a un’astratta unità e benché, grazie anche e proprio al movimento delle donne, abbia introdotto piuttosto diversità e dissonanza (Lea Melandri, L’Infamia originaria, 1977). Da lì in poi il potere ha provato a richiudere il mare, traducendo la potenza di un’individualità che rivendicava di “prendere il volo” (Maria Grazia Chinese, La strada più lunga, 1976), nella solitudine autorealizzativa del soggetto contemporaneo.
CIO’ CHE VIVIAMO OGGI, la trasformazione dell’umano bisogno di essere riconosciuti in profitto altrui, è esattamente una risposta a ciò che in quello spazio-tempo si è provato a realizzare: “la concentrazione, e la diffusione di massa, di pratiche e atteggiamenti alternativi al capitale” e “sulla falsariga della previsione marxiana, un processo di proletarizzazione della prassi intellettuale che, allora, appariva fecondo di chance rivoluzionarie”, come scrive Danilo Mariscalco (in Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, a cura di P. Maltese e D. Mariscalco, Ombre Corte 2016).
IL POTERE HA CAMBIATO CON VIOLENZA il segno e il senso di quella generosa tensione e di quell’amabile possibile che sembrava a portata di mano, proprio perché se ne ha intuito la potenza sovversiva, restituendoci, per paradosso, una narrazione esclusivamente improntata sulla violenza che quella parentesi storica avrebbe rappresentato. Maurizio Lazzarato in un libro dedicato al rifiuto del lavoro in Marcel Duchamp invita a osservare come i movimenti femministi di quegli anni, dopo il rifiuto di esercitare la funzione e il “lavoro” di donna abbiano aperto la porta alla possibilità di scalzare le fondamenta dell’idea del lavoro, scuotendo non solo l’identità dei “produttori” ma anche le loro assegnazioni sessuali. “Ciò che è in gioco oggi è una nuova antropologia dell’esodo come forma di rifiuto”, scrive.
ECCO, QUESTO E’ IL PUNTO. Oggi che ci sentiamo perdute se non siamo lavoratrici e che si assiste a un’iperresponsabilizzazione dei soggetti attraverso l’erosione del confine tra interiorità e lavoro. Oggi che tutto appare duro e livido. Eppure, si mantiene invariato il bisogno ineludibile di un modello alternativo, di una vita meno alienante e distruttiva, date una serie di potenzialità aperte dalle connessioni tecnologiche nel capitalismo biocognitivo, fondato sulla condivisione cooperativa della conoscenza, all’interno di una società completamente intrisa di conoscenza. Riuscire a sottrarre il soggetto all’imperativo dell’azione individuale, che si pretende sganciata da dinamiche di individuazione collettiva, ci aiuterebbe ad allontanarci da quelle categorie psichiatriche (depressione, ansia, burnout, nichilismo…) che pretendono di riconfigurare la soggettività contemporanea, spingendola a un ripiegamento su se stessa.
L’ESSERE UMANO non è, ovviamente, mai un essere “libero”, mai indipendente dal sistema sociale nel quale è immerso, perciò non si può semplificare. L’assoggettamento che oggi osserviamo si è ottenuto anche attraverso la rimozione e il ribaltamento dell’esperienza del 1977, forzando proprio su quel meccanismo della dipendenza dal potere e dalla norma che tanto venne combattuto, e su più piani contemporaneamente: dipendenza economica attraverso precarietà e debito; dipendenza dall’approvazione sociale attraverso il riconoscimento di un “ruolo” codificato; simbolica attraverso l’immagine che diamo in pasto agli altri; culturale attraverso la divisione cognitiva del lavoro; politica attraverso le barriere di accesso alla cittadinanza. L’effetto che si è ottenuto è quello di un attaccamento, più sottile e intricato che in passato, a un’identità intrisa dei dettami neoliberali della competizione, del merito, della visibilità, in opposizione ai fondamenti della reciproca interdipendenza umana.
E’ URGENTE recuperare gli insegnamenti, i posizionamenti, il clima dell’anno 1977 e dintorni – che se li hai respirati anche solo un po’, all’ultimo minuto possibile, non te li puoi scordare più. Non arretrare, allora, verso forme di introversione individuale che possono finire addirittura per trovare le proprie manifestazioni esteriori in allucinazioni populiste, trappole di passività e di rinuncia. Rilanciare le domande che impregnavano l’aria in quel momento, le stesse, ancora giuste: come realizzare spazi di auto-valorizzazione che rappresentino contemporaneamente un’esperienza di vita immediatamente liberatrice e un esempio generalizzabile? Come andare oltre la parola consacrata, come smantellare i miti? Come ricostruire una pratica sociale e collettiva che sia nel contempo rispettosa di differenze?
Il confronto orizzontale e cooperativo ha trovato nel femminismo sorprendenti anticipazioni spesso disconosciute, occultate, relegate a margine. Poche settimane fa, l’8 marzo le donne hanno affermato:
“SCIOPERIAMO PERCHE’ IL FEMMINISMO non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente”, da un lato contro il verticismo di un potere che esprime solo l’ipertrofia del mercato, dall’altro contro tentativi di integrazione e di valorizzazione che passano, crudamente, anche dalla sfera degli affetti e dalla cooperazione, intesa come esteriorità radicale al mondo del lavoro produttivo. Il “divenire donna” rappresenta allora anche quell’idea di immanenza radicale che ci sorrise nel 1977. Un’idea di condivisione tra corpi che deve puntare oggi ad andare oltre i confini sempre più ipertrofici dell’Io, attraverso una rete di incontri-confronti con altre e altri, dove parti di sé contaminano e influenzano altre parti di sé.

Fonte: Il manifesto 

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