di Stefano Galieni
…e la montagna partorì il topolino. Come tutti i grandi proclami del governo Renzi che affermavano l’intenzione di estendere i diritti in Italia, il risultato ancora una volta è ben poca cosa rispetto alle aspettative. Il tema è quello della riforma del diritto di cittadinanza, per garantire a coloro che ormai hanno scelto questo Paese per il loro progetto di vita o, ancor di più ai loro figli, che qui ci sono nati, di non ritrovarsi “stranieri” e quindi a rischio di espulsione, se non si ha un lavoro fisso e regolare o se al compimento del diciottesimo anno di età non si ha ragione di dover restare in Italia anche ci si è nati. Fino a quando il nuovo testo non verrà licenziato da Camera e Senato, queste sono le condizioni. Si può divenire cittadini italiani attraverso la “naturalizzazione”, ovvero chiedere la cittadinanza dopo 10 anni di residenza regolare, un reddito sicuro, un certificato penale lindo. Ma anche se si possiedono tali requisiti la cittadinanza è una “concessione” individuale, concessa dal Presidente della Repubblica, oggi fra il giorno in cui si inizia tale percorso e quello in cui si giura fedeltà alla Repubblica Italiana, se tutto va bene passano almeno 4 anni. Anche la provenienza da una Paese in cui esistono tensioni politiche forti (Sri Lanka con i Tamil, Iraq e Turchia per i Kurdi, Palestina ed altri) può determinare il rigetto della domanda. Se approvate le norme licenziate dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera, cambieranno tutto? Affatto.
Intanto per i maggiorenni restano in vigore le norme attuali quindi, nessuna facilitazione senza tener conto che in molti paesi la cittadinanza si ottiene dopo cinque anni effettivi di residenza e con poche discrezionalità. Per il milione di minori stranieri nati in Italia – che attualmente stranieri restano – le cose possono cambiare solo a determinate condizioni. Chi è nato in Italia dovrà avere almeno uno dei genitori o chi esercita la funzione genitoriale, in possesso della carta per lungosoggiornanti. Si tratta di un documento che viene rilasciato solo dopo aver risieduto in Italia più di cinque anni e soggetto anche alla presenza di un reddito sufficiente a mantenere la famiglia. In pratica dal 1865 si ristabilisce per la prima volta il diritto alla cittadinanza per censo. Chi è così povero da non poter ottenere tale documento non potrà vedere i propri figli cittadini italiani, chi ha i soldi si. E se è vero che una parte consistente dei cittadini stranieri presenti in Italia ha già tale documento (circa 2.500 mila) un’altra parte ne resterà clamorosamente esclusa. Fra loro molti cittadini e cittadine rom e sinti, magari in Italia da terza generazione ma con problemi di documenti legati al dissolvimento degli Stati di provenienza. Padri, madri e figli che non hanno nessuna cittadinanza e questo non fa altro che accrescere le possibilità di marginalizzazione. In prospettiva uno spiraglio si apre per coloro che, giunti in Italia prima del dodicesimo o comunque prima del diciottesimo anno di età, completino un ciclo scolastico intero di almeno 5 anni, in caso di scuola primaria con l’ottenimento della licenza. Una platea che potrebbe allargarsi ma molto lentamente e che invece di basarsi su un reale Ius soli (si è cittadini del paese in cui si è nati), definisce un doppio sistema: ius soli “temperato” ovvero ancorato alle condizioni della famiglia e uno jus culturae, di stampo decisamente assimilazionista (diventa cittadino chi condivide in pieno la fantomatica “identità italiana”. Si supera lo Ius sanguinis attualmente vigente (diventa italiano solo chi nasce da almeno un genitore italiano) ma con molti ostacoli. Si perde una formidabile occasione per diminuire il numero di coloro che sono in Italia stabilmente ma vivono in condizioni di subalternità legislativa, non solo si ignora l’assurdità delle norme riguardanti gli adulti ma si rendono faticose anche quelle per quei bambini e bambine nati e cresciuti solo nel nostro contesto.
Intanto per i maggiorenni restano in vigore le norme attuali quindi, nessuna facilitazione senza tener conto che in molti paesi la cittadinanza si ottiene dopo cinque anni effettivi di residenza e con poche discrezionalità. Per il milione di minori stranieri nati in Italia – che attualmente stranieri restano – le cose possono cambiare solo a determinate condizioni. Chi è nato in Italia dovrà avere almeno uno dei genitori o chi esercita la funzione genitoriale, in possesso della carta per lungosoggiornanti. Si tratta di un documento che viene rilasciato solo dopo aver risieduto in Italia più di cinque anni e soggetto anche alla presenza di un reddito sufficiente a mantenere la famiglia. In pratica dal 1865 si ristabilisce per la prima volta il diritto alla cittadinanza per censo. Chi è così povero da non poter ottenere tale documento non potrà vedere i propri figli cittadini italiani, chi ha i soldi si. E se è vero che una parte consistente dei cittadini stranieri presenti in Italia ha già tale documento (circa 2.500 mila) un’altra parte ne resterà clamorosamente esclusa. Fra loro molti cittadini e cittadine rom e sinti, magari in Italia da terza generazione ma con problemi di documenti legati al dissolvimento degli Stati di provenienza. Padri, madri e figli che non hanno nessuna cittadinanza e questo non fa altro che accrescere le possibilità di marginalizzazione. In prospettiva uno spiraglio si apre per coloro che, giunti in Italia prima del dodicesimo o comunque prima del diciottesimo anno di età, completino un ciclo scolastico intero di almeno 5 anni, in caso di scuola primaria con l’ottenimento della licenza. Una platea che potrebbe allargarsi ma molto lentamente e che invece di basarsi su un reale Ius soli (si è cittadini del paese in cui si è nati), definisce un doppio sistema: ius soli “temperato” ovvero ancorato alle condizioni della famiglia e uno jus culturae, di stampo decisamente assimilazionista (diventa cittadino chi condivide in pieno la fantomatica “identità italiana”. Si supera lo Ius sanguinis attualmente vigente (diventa italiano solo chi nasce da almeno un genitore italiano) ma con molti ostacoli. Si perde una formidabile occasione per diminuire il numero di coloro che sono in Italia stabilmente ma vivono in condizioni di subalternità legislativa, non solo si ignora l’assurdità delle norme riguardanti gli adulti ma si rendono faticose anche quelle per quei bambini e bambine nati e cresciuti solo nel nostro contesto.
Ma è interessante capire il percorso politico che ha avuto questo disegno di legge che potrebbe essere votato in aula entro metà ottobre. La riforma ad una legge che nasce nel 1992 si attendeva da molto, tanto che molte associazioni, sindacati, mondo democratico e col sostegno anche di alcune forze politiche come il Prc, avevano condotto anni fa la campagna L’Italia sono anch’io. Una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare per superare il gap storico che si era determinato in Italia. Oltre 200 mila le firme raccolte, per una legge che riguardava anche gli adulti, molto più snella e legata alla realtà e che doveva consentire anche il diritto di voto amministrativo a chi è residente regolarmente da almeno 5 anni. Stralciato immediatamente il diritto di voto (paura di confrontarsi con nuovi elettori e non con oggetti su cui speculare) si è letteralmente sterilizzata la parte riguardante la riforma dei diritti di cittadinanza rivolgendosi solo ai minori, su cui anche il razzismo popolare indotto e costruito in questi anni fa meno presa. La Lega Nord ha bloccato per mesi i lavori con gli atteggiamenti più ignobili, esponenti di Forza Italia hanno gridato, di fronte alla bozza su cui in Commissione si era trovato un accordo, alla “minaccia di distruzione dell’identità nazionale (ex ministro Istruzione Maria Stella Gelmini). La destra di governo ha potuto così condizionare in maniera pesante il dibattito, grazie anche alla timidezza complice del Pd, ormai preso solo dalla riforma costituzionale, e al comportamento pilatesco del M5S che non ha praticamente partecipato ai lavori in commissione dichiarando che questo tema non era prioritario rispetto ai “bisogni degli italiani”. La sola Sel ha tenuto un comportamento forte e gli emendamenti tesi a migliorare e ad ampliare gli effetti di questa riforma verranno ripresentati in aula con scarsa possibilità di essere accolti. I promotori della Campagna L’Italia sono anch’io, cercheranno di far sentire presto la propria voce e di provare a far uscire dalla palude stantia del dibattito parlamentare, un tema che potrebbe invece essere la risposta concreta a chi predica inutilmente l’esclusione. Ma servirebbe di più. Servirebbe che l’indignazione e la vergogna che si provano ora che si scopre la profondità del dramma dei profughi, porti a riflettere su chi continua ad essere cittadino a metà. Costretto a pagare tasse e contributi per pensioni e servizi che non si vedrà mai erogati, contributi che garantiscono agli enti previdenziali di poter pagare le pensioni agli anziani autoctoni, ma impossibilitato anche a progettarsi un futuro di lungo periodo sia per se che, in molti casi anche per i propri figli. Ma la classe politica presente nelle istituzioni è questa. Bisogna addirittura sperare che nel passaggio nelle due aule, la fobia xenofoba, i calcoli utilitaristici, l’assenza di ragionamento di fronte a problemi reali delle persone, non portino addirittura a peggiorare il testo licenziato. E allora bisognerà ricominciare daccapo, Rifondazione, su questo, ha da tempo manifestato di non voler accettare compromessi. E pensare che i diritti civili (cittadinanza e unioni di fatto) dovevano rappresentare il volto buono e moderno del sedicente centro sinistra. Conosciamo sufficientemente il volto cattivo e la differenza è minima.
Fonte: Rifondazione comunista
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