di Leonardo Clausi
L’atteso discorso di Jeremy Corbyn alla platea del congresso nell’anno zero del partito è stato finalmente pronunciato. Atteso, e quanto: non solo per via della presenza ancora un po’ irreale su quel podio di una figura fino a ieri ignota ai più e ora al comando di una delle macchine-partito più vaste e complesse d’Europa; ma soprattutto perché doveva legittimare il ruolo del leader e mostrare la compattezza dietro di lui.
Com’è noto, questa compattezza è una delle più gravi mancanze in qualunque progetto che si proponga di trasformare Corbyn nei prossimi cinque anni da sciagurato piromane che spingerà inesorabilmente il partito verso la propria autocombustione a papabile di leadership del paese. Ed è stato proprio per cercare di esibirla che, dopo il già mansueto discorso del ministro ombra dell’economia, John McDonnell, Corbyn ha preso la parola davanti a una platea vasta e con pochi lustrini che somigliava più a un congresso di partito che a una convention ludico-aziendale.
Doveva essere il discorso della consacrazione, e lo è stato. Durato un’ora precisa, letto per la prima volta con l’aiuto del gobbo, interrotto da più di una standing ovation, ha portato una ventata di sensazioni cui la platea è ormai abituata; dalla perdurante estasi dei molti militanti ancora increduli di vederselo parlare da lì, alle dolorose torsioni gastro-intestinali dei neolaburisti e annessi spin doctor, da ormai tre settimane chiusi in un lutto sdegnato e balbettante. Ma era soprattutto un discorso che doveva proiettarlo nell’immaginario esteso del paese, fuori dell’elettorato laburista.
Forse anche per questo la prima parte, dopo uno scherzo iniziale per alleggerire l’atmosfera, ha seguito quasi fedelmente il suo primo discorso dopo la vittoria; dopo un prolungato attacco all’invadenza dei media destrorsi nella vita sua e della sua famiglia, si è nuovamente inoltrato in una lunga teoria di ringraziamenti urbi et orbi a compagni (parola mai usata riferita all’uditorio, sostituita dal neutro «amici»), rivali ed ex rivali fino ai suoi predecessori, per sostanziare il suo messaggio di un’antiretorica politica nuova e dimostrarsi davvero pluralista. E anche perché sa che la sua immagine eticamente scintillante sta catturando l’immaginazione di un paese dove le figure troppo virtuose sono state sempre viste con benevolo sospetto.
Ma soprattutto, Corbyn sa che l’esigenza di rimarginare la ferita con il centro-destra del partito è prioritaria rispetto all’elaborazione di una coerente strategia politica e alla redazione di un manifesto programmatico. E qui, davanti a un discorso tutt’altro che pirotecnico (che tra l’altro ilTelegraph sostiene provenga da un ghost writer di Ed Miliband) si aprono le doglianze dei moderati; per l’autoreferenzialità di un intervento troppo connotato a sinistra, che predica ai convertiti anziché convincere i miscredenti, che non ha fatto alcun riferimento al deficit e ha addirittura osato annunciare l’impegno del partito per la nazionalizzazione delle ferrovie. Ha perfino, fatto ironico per i compagni della Leopolda, citato l’Italia due volte come esempio di paese che protegge la propria industria, a differenza dei Tories con la siderurgia nazionale (è proprio di lunedì la notizia della sospensione della produzione all’acciaieria di Teeside, provocherà la perdita di 1700 posti di lavoro).
Non ha menzionato le scuse per l’invasione illegale dell’Iraq, che aveva detto avrebbe porto qualora fosse diventato in futuro primo ministro come aveva gridato inorridito un tabloid; ma si è premurato di ribadire ai deputati dissidenti, forte del suo schiacciante mandato popolare, la sua totale contrarietà al rinnovo del sistema missilistico nucleare Trident e il suo convincimento che la Gran Bretagna debba inaugurare una stagione di disarmo nucleare unilaterale. La mancata votazione di ieri del congresso su questo tema è stata vista come un segno di debolezza.
Il resto è stata una serie di verità sul divario spaventoso e crescente fra ricchi e poveri nel paese, su questo governo che distrugge il diritto allo sciopero, dispensa con infingarda sicumera sgravi fiscali ai ricchi e tagli ai sussidi dei poveri, sul bisogno di una politica più «gentile», e non basata sull’insulto personale e sulla necessità da parte dei militanti laburisti di «non accontentarsi di quello che ci viene dato».
Nel complesso dunque sì, è stato un discorso preoccupato più di non perdere credibilità con i nuovi sostenitori suoi e del partito (50 mila da quando si è insediato) che di accattivarsi l’interesse del “grande pubblico”, l’unica concessione al quale è stata una metafora calcistica in chiusura. Insomma, che non fosse un Demostene si sapeva; ma a questo segretario la retorica non pare serva tanto.
Fonte: il manifesto
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