di Giovanni Russo Spena
Non sono stato né iscritto né simpatizzante del PCI. Anzi, l’ho spesso criticato da posizioni (brutalizzo per brevità) di taglio luxemburghiano. Forse, lo dico per paradosso, anche per questo ho molto amato Ingrao. Avendo, come tutta Democrazia Proletaria, punto di riferimento ideale in Bloch, con la sua utopia come percorso di trasformazione quotidiana, mi hanno sempre culturalmente ed emotivamente colpito di Ingrao la sua fedeltà al “principio speranza”(si può essere sconfitti ma non vinti), il suo “volere la luna”, per l’appunto. L’elogio del dubbio, la ricerca permanente ne facevano lo spartiacque storico contro ogni dogmatismo, ma anche contro ogni politicismo gaglioffo che si nutre di populismo “dall’alto”(Renzi ne è emblema pernicioso). Su tante questioni di fondo, lui “maestro” ed io militante di trent’anni più giovane, non eravamo d’accordo, ma la politica gramsciana cura il prevalente (ed io, anche nei nostri rari incontri, subivo il suo rigore intellettuale, la sua ansia, il suo rovello di conoscenza). Personalità complessa, vissuto critico e tragico (invasione dell’Ungheria nel ’56; espulsione dei suoi compagni de “il manifesto”) riusciva a collocare i singoli episodi in una straordinaria narrazione storica.
Accenno solo, per brevità, a tre temi che mi hanno sempre trovato particolarmente a lui attento.
Innanzitutto la ricerca affannosa sul rapporto tra socialismo e democrazia, tra “masse e potere”, sulla democrazia progressiva, sull’autogestione. Una proiezione importante del pensiero gramsciano. Il secondo tema, che, ritengo, come militante della “questione meridionale”, di straordinaria rilevanza, è statala sua lotta, interna al PCI, per misurarsi, come comunisti, con la “modernità” del paese dopo gli anni ’50. Era il neocapitalismo il sistema da abbattere, non le presunte “nicchie di arretratezza” di cui parlavano Amendola e Napolitano. Ingrao capiva che andava mutando la stessa composizione tecnica del capitale che diventava (alla Marx) sempre più anarchico e rivoluzionario e che, con la fuga dalle campagne di braccianti e mezzadri, che componevano la nuova classe operaia, mutava la stessa composizione di classe, mutavano comportamenti, stili di vita, rapporto con i lavori, forme di lotta. Su questa base strutturale (e non per moda) comprese il punto di vista di genere e di specie.
Innanzitutto la ricerca affannosa sul rapporto tra socialismo e democrazia, tra “masse e potere”, sulla democrazia progressiva, sull’autogestione. Una proiezione importante del pensiero gramsciano. Il secondo tema, che, ritengo, come militante della “questione meridionale”, di straordinaria rilevanza, è statala sua lotta, interna al PCI, per misurarsi, come comunisti, con la “modernità” del paese dopo gli anni ’50. Era il neocapitalismo il sistema da abbattere, non le presunte “nicchie di arretratezza” di cui parlavano Amendola e Napolitano. Ingrao capiva che andava mutando la stessa composizione tecnica del capitale che diventava (alla Marx) sempre più anarchico e rivoluzionario e che, con la fuga dalle campagne di braccianti e mezzadri, che componevano la nuova classe operaia, mutava la stessa composizione di classe, mutavano comportamenti, stili di vita, rapporto con i lavori, forme di lotta. Su questa base strutturale (e non per moda) comprese il punto di vista di genere e di specie.
Il terzo grande tema riguarda anche il nome, stupendo, che ci ha consegnato “Rifondazione COMUNISTA”, dove aggettivo e sostantivo si connettono naturalmente perché il comunismo non può che essere rifondazione quotidiana. Altrimenti l’identità comunista diventa un orpello conservatore. Il comunismo non è un apparato dottrinario, né un instrumentum regni, una religione del potere, ma il punto di vista della “RIVOLUZIONE” come punto più alto della politica.
Condivido il giudizio critico che, con molto affetto, quasi con rimpianto, Rossanda formula su Ingrao: “il suo modo di porsi delle domande, gli interrogativi, a volte anche esagerati, a volte lo hanno bloccato nelle scelte…Penso che sarebbe stata un’altra strada peril movimento comunista se avesse attaccato il partito di Occhetto di cui non condivideva la svolta. Non che il coraggio gli mancasse ma a prevalere fu la volontà di proteggere il partito, che per lui non era solo il gruppo dirigente ma qualche milione di persone…Davvero tutta la storia di Rifondazione sarebbe stata diversa …se lui non avesse scelto, ad Arco di Trento, di restare nel “gorgo”. Poco tempo dopi capì che il partito di Occhetto non era il”gorgo” ma acqua stagnante non trasformabile. E divenne il nostro meraviglioso “compagno di base”, come disse quando gli consegnammo la tessera del PRC. Mi fa arrabbiare molto, in questa ore, il fatto che governo, istituzioni, mass media, celebrino Ingrao come “uomo della Repubblica”. Lo fu ed è un tassello fondativo della nostra democrazia costituzionale, oggi attaccata da Renzi, Boschi, Verdini. Ma egli fu, soprattutto, un comunista, che voleva sottrarre il comunismo alla “critica roditrice dei topi”. Noi, contro ogni revisionismo storico, lo amiamo ricordare così.
Fonte: Rifondazione Comunista
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