di Pietro Ingrao
Di fronte al crollo dei regimi dittatoriali dell’Est messi in piedi e imposti da partiti comunisti, e dinanzi ala novità delle domande che emergono in questa fine di secolo, ha senso e ha fondamento parlare ancora di comunismo?
Secondo noi sì. La prima ragione è la più semplice: il partito comunista italiano è stato, nel corso di questo secolo, l’immagine concreta di una lotta per la redenzione degli oppressi, per la tutela degli sfruttati, per l’emancipazione del mondo del lavoro. E questa lotta di emancipazione si è strettamente unita alla difesa concreta della libertà, in una società segnata non solo da una vita democratica continuamente minacciata e colpita, persino da poteri occulti insediati nel cuore dello Stato. Ma questo grande patrimonio che conta (perché la memoria storica è parte essenziale della vita collettiva e del suo ethos) non basta ancora a motivare la forza di questo nome oggi. Vi sono altre ragioni di forte attualità.
Sta sviluppandosi – proprio nelle società contemporanee – un bisogno di beni, che non sono quantificabili con il metro del denaro, e non sono misurabili con il criterio del mercato. Sono bisogni di comunicazione umana diretta. Sono esigenze di affettività. Sono volontà di prestazioni gratuite e di sedi in cui esse possano realizzarsi.
Sono infine domande di liberazione da un lavoro colpito da nuove e peculiari forme di alienazione, e bisogno di restituire al lavoro una creatività, e al tempo di vita una autonomia. Questi bisogni non possono trovare risposta nemmeno in una crescita della giustizia e del processo di uguaglianza, perché vanno al di là delle stesse garanzie di equità, che possono esistere in una società che definiamo socialista.
Sono infine domande di liberazione da un lavoro colpito da nuove e peculiari forme di alienazione, e bisogno di restituire al lavoro una creatività, e al tempo di vita una autonomia. Questi bisogni non possono trovare risposta nemmeno in una crescita della giustizia e del processo di uguaglianza, perché vanno al di là delle stesse garanzie di equità, che possono esistere in una società che definiamo socialista.
Tenere aperto allora l’orizzonte del comunismo significa mettere in discussione alcuni radicati criteri di valore: prima di tutto questa così tenace (così continuamente ripetuta, così impressa nella società contemporanea ) classificazione tra ‘forti’ e ‘deboli’ vuol dire tenere aperto il sospetto che i ‘deboli’ possono avere in sé una straordinaria risorsa sepolta, che i ‘forti’ non hanno. Guardare a questo orizzonte quindi aiuta molto a comprendere il significato profondo della ‘differenza femminile’, e i mondi compressi e soffocati che possono scaturire dai ‘continenti della fame’, da una parte così grande del genere umano.
Come punto di vista per la trasformazione della società, comunismo è la critica della ‘produzione per la produzione’, della prevalenza assoluta dell’accumulazione rispetto alle sue finalità concrete, dunque di un sistema sociale essenzialmente rivolto alla moltiplicazione quantitativa dei beni e dei bisogni.
Comunismo è critica della democrazia politica come puro sistema di garanzie formali, limitato e contraddetto dalla diseguaglianza del condizioni sociali e culturali e dalla concentrazione del potere di fatto. Critica, dunque, della politica come affare di una élite professionalizzata e affermazione della democrazia come processo che tende a permeare ogni struttura, a superare la separazione tra governanti e governati.
Comunismo vuol dire anche, e qui è un suo connotato essenziale, che tutto ciò è possibile solo con il graduale superamento di una formazione economico-sociale fondata sulla priorità del profitto e del mercato, e grazie alla ‘pratica’ anzitutto di coloro che da questo sistema sono direttamente sacrificati.
Oggi noi possiamo misurare dolorosamente (senza nasconderci pesanti errori di valutazione nel nostro passato) quanto questo progetto sia stato duramente contraddetto dai regimi dispotici dell’Est. E si deve apertamente riconoscere che questo progetto è più un orizzonte che un disegno di società, e che molti elementi di analisi da cui sono partiti Marx e le correnti marxiste non hanno retto di fronte alle prove della realtà. Ma a nostro parere, le domande che emergono dal mondo odierno conferiscono a quell’orizzonte una nuova attualità, lo ripropongono nella sua ricchezza liberatoria, lo rendono quanto meno una intuizione feconda.
Viviamo ormai in un mondo che avrebbe le risorse per superare le soglie della scarsità e garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni primari; e tuttavia non solo esso resta percorso da feroci disuguaglianze, ma condanna la maggioranza del pianeta all’impoverimento assoluto.
Viviamo in un mondo che accelera freneticamente lo sviluppo materiale, chiudendo gli occhi di fronte ai disastri che esso determina e ai bisogni qualitativi che cancella.
Viviamo in un mondo in cui si estendono sì i regimi democratici e crescono le risorse informative per la partecipazione, ma che paradossalmente conosce nuove e gigantesche forme di manipolazione del consenso e di concentrazione del potere.
Viviamo in un mondo in cui l’affrancamento dell’individuo da vincoli e costrizioni antiche procede di pari passo con la massificazione, e la libertà di ciascuno troppo spesso si mortifica nella povertà umana e nell’isolamento egoistico.
Viviamo in un mondo in cui la professionalità, la qualità del lavoro sociale si presentano come una risorsa decisiva, ma tanta parte del lavoro reale vede la separazione tra coloro che sanno e coloro che eseguono, e tra il lavoro stesso e la vita.
Ebbene, non sono proprio queste motivazioni storiche a rendere per la prima volta ricco di motivazioni e insieme possibile un progetto comunista? A renderlo almeno un contributo fecondo per una ricerca realmente nuova a livello della nostra epoca?
E’ questa parola che ci permette di mettere in relazione le vecchie contraddizioni con le nuove. Non per ridurre l’una all’altra, ma per rendere ben chiaro il nesso tra la critica qualitativa del modello di sviluppo e i meccanismi forti dell’economia e del potere che lo originano o almeno lo governano.
La strada è ben lunga. Avevamo pensato fosse breve, e soprattutto avevamo sperato che una severa riflessione critica portasse in tempo a una correzione sostanziale delle esperienze dell’Est e avviasse anche in Occidente una fase nuova, che chiamammo allora, con berlinguer, ‘eurocomunismo’. Così non è stato: una rottura di continuità è nelle cose.
Ma distogliere lo sguardo da un orizzonte comunista, accettare che esso sia rimosso a causa del crollo del modello stalinista, vorrebbe dire precludersi una componente essenziale della ricerca del nuovo. Perché sacrificare nel Partito comunista italiano quella traccia storica che nella realtà, e non solo nei libri, può collegare in modo non improprio un passato al futuro? Chi altro potrebbe tentarlo?
Per questo pur riconoscendo la tendenza comunista come una parzialità e aprendoci al confronto con altre forze, culture, tradizioni, pur criticando duramente e senza indulgenze antiche certezze e avviando una fase nuova, noi vogliamo non solo continuare a chiamarci, ma continuare a essere comunisti.
Dalla raccolta Coniugare al presente. L’Ottantanove e la fine del Pci. Scritti [1989-1993], Ediesse pag.95-99, un estratto da una bozza di mozione del dicembre 1989.
Fonte: Rifondazione Comunista
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