di Alberto Negri
Medio Oriente anno zero. Nessuno dei leader mondiali che si incontrano all’Onu forse passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o salirà in cima alla cittadella di Aleppo. Nessuno attraverserà piazza Firdous a Baghdad, dove nel 2003 venne abbattuta la statua di Saddam, o alzerà gli occhi al cielo per osservare i grattacieli medioevali di Sanaa in Yemen. L’orizzonte da cui sono nate millenarie civiltà è un cumulo di rovine. E neanche il più ottimista dei rifugiati giunto in Europa dalla Siria può pensare di tornarci perché la distruzione materiale ed economica della guerra è stata accompagnata da quella morale, dalla scomparsa di ogni residuo di tolleranza e convivenza civile.
Per questo se mai ci sarà un giorno la ricostruzione della Siria, dell’Iraq, dello Yemen o della Libia, e anche del lontano Afghanistan, tutto ci apparirà soltanto una replica dell’originale, come avvertiva l’archeologo italiano Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla. Ma se si può rifare un capitello di Palmira, è impossibile replicare una società sradicata dalle fondamenta. Fondamenta assai fragili perché l’80% del Medio Oriente è l’eredità della disgregazione dell’Impero Ottomano e delle successive sistemazioni coloniali anglo-francesi, cui sono seguiti i tragici fallimenti degli Stati laici e autocratici.
Quel Medio Oriente non esiste più neppure sulla carta geografica. Mentre Putin e Obama ieri stavano discutendo a New York, un altro pezzo della regione più nevralgica del mondo, custode di riserve di petrolio e di gas, scompariva, inghiottita da una battaglia del Califfato, da un raid di Assad, da un bombardamento saudita o della coalizione internazionale. La guerra ha travolto Stati e frontiere ma anche l’Islam: l’Isis ha reso ancora più aspra la separazione tra sciiti e sunniti, tra laici e religiosi, tra una maggioranza musulmana e minoranze che si sono dissolte. I cristiani sono scomparsi dal cuore dell’Iraq per rifugiarsi in Kurdistan, così come gli yezidi o i mandei, di cui nessuno ha mai parlato ma che vivevano lungo il Tigri da migliaia di anni. Sono diventate laceranti anche le divisioni etniche, come quella che oppone i curdi a ad Ankara e rischia di diventare una questione insanabile per la Turchia, storico membro della Nato.
Le costruzioni post-coloniali sono pericolanti perché si è liquefatto l’unico collante che le teneva insieme, il nazionalismo, anche nelle sue forme più esasperate come quella di Saddam Hussein in Iraq o di Gheddafi in Libia. Caduti i raìs sono crollati gli Stati che rappresentavano e sono in crisi di legittimità anche le monarchie del Golfo che dopo avere esportato problemi finanziando l’Islam radicale ora vedono i guai tornare a casa propria.
È sintomatico che i soli a reclamare ancora una nazione (e un territorio), oltre ai separatisti curdi, siano i palestinesi che ieri hanno innalzato la loro bandiera all’Onu. Per Washington, che ha votato contro, è intervenuta l’ambasciatrice Samantha Power: «Alzare la bandiera palestinese non è un’alternativa ai negoziati e non porterà più vicini alla pace». Una dichiarazione surreale: nessuno parla più di negoziati. Gli israeliani hanno evitato commenti inutili. Dalle alture del Golan vedono ben altri stendardi sventolare all’orizzonte.
L’unica bandiera che garrisce al vento è quella nera del Califfato che di fatto ha abbattuto i confini coloniali. Forse non è un caso che il video di maggiore successo dell’Isis sia quello in cui un bulldozer disintegra in pieno deserto un cartello con la scritta Sykes-Picot, il nome dei due diplomatici di Gran Bretagna e Francia che nel 1916 disegnarono la spartizione del Levante arabo.
Negli ultimi decenni gli islamisti hanno cercato in ogni modo di creare uno Stato islamico governato dalla sharia: in Sudan, in Afghanistan, in Yemen, nel Sahel africano. L’idea era quella di impossessarsi di uno Stato preesistente e farlo proprio, mentre al-Qaeda e Osama bin Laden puntavano a spargere il terrore mirando al nemico lontano, Stati Uniti e Occidente. Ma l’11 settembre non ha avuto gli effetti sperati lasciando immutati gli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Al-Qaeda seminava paura ma non cambiava il mondo.
Il Califfato nasce in Iraq proprio da questa intuizione. È inutile combattere il centro del potere, è molto più efficace prendersi le periferie concentrandosi sui territori dove il governo è più debole e più forte lo scontento. Così nasce lo Stato Islamico: un pezzo di Iraq cui aggiungere un pezzo di Siria facendo saltare le frontiere tracciate sulle ceneri dell’Impero Ottomano. L’Isis è nei fatti la dimostrazione che il mondo può cambiare: è con questo che ha calamitato i consensi locali dei sunniti e mobilitato l’afflusso dei foreign fighters. Si è parlato molto dei jihadisti occidentali, dei convertiti. Ma la realtà è che i combattenti stranieri di prima linea sono ceceni, uzbeki, jihadisti di tutte le nazionalità addestrati in Afghanistan, Yemen, Sudan, Maghreb e Sahel.
Quello dell’Isis è un esercito motivato e professionale. Altrimenti non avrebbe sbaragliato quello iracheno, messo spalle al muro Assad e dato filo da torcere a milizie sciite sperimentate come quelle dei libanesi Hezbollah e dei Pasdaran iraniani. Chi ha viaggiato con Hezbollah sa perfettamente che nel Qalamoun siriano hanno combattuto contro ceceni che adottavano le stesse tattiche di guerriglia usate a Grozny contro i russi.
Ecco perché la guerra al Califfato non si vince soltanto con i raid aerei. Questo lo sa certamente Putin e anche Obama che non vuole impegnare truppe nel Levante. Ma soprattutto entrambi sanno, come pure gli Stati della regione convolti - Turchia, Iran, Arabia Saudita - che il Medio Oriente è all’anno zero e la soluzione militare non basta a ricostruire un mondo che non c’è più.
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