La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 29 settembre 2015

Medio Oriente anno zero: la soluzione militare non basta a ricostruire un mondo che non c’è più


di Alberto Negri 
Medio Oriente anno zero. Nessuno dei leader mondiali che si incontrano all’Onu forse passeggerà mai più per una strada del Medio Oriente, o salirà in cima alla cittadella di Aleppo. Nessuno attraverserà piazza Firdous a Baghdad, dove nel 2003 venne abbattuta la statua di Saddam, o alzerà gli occhi al cielo per osservare i grattacieli medioevali di Sanaa in Yemen. L’orizzonte da cui sono nate millenarie civiltà è un cumulo di rovine. E neanche il più ottimista dei rifugiati giunto in Europa dalla Siria può pensare di tornarci perché la distruzione materiale ed economica della guerra è stata accompagnata da quella morale, dalla scomparsa di ogni residuo di tolleranza e convivenza civile. 
Per questo se mai ci sarà un giorno la ricostruzione della Siria, dell’Iraq, dello Yemen o della Libia, e anche del lontano Afghanistan, tutto ci apparirà soltanto una replica dell’originale, come avvertiva l’archeologo italiano Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla. Ma se si può rifare un capitello di Palmira, è impossibile replicare una società sradicata dalle fondamenta. Fondamenta assai fragili perché l’80% del Medio Oriente è l’eredità della disgregazione dell’Impero Ottomano e delle successive sistemazioni coloniali anglo-francesi, cui sono seguiti i tragici fallimenti degli Stati laici e autocratici. 
Quel Medio Oriente non esiste più neppure sulla carta geografica. Mentre Putin e Obama ieri stavano discutendo a New York, un altro pezzo della regione più nevralgica del mondo, custode di riserve di petrolio e di gas, scompariva, inghiottita da una battaglia del Califfato, da un raid di Assad, da un bombardamento saudita o della coalizione internazionale. La guerra ha travolto Stati e frontiere ma anche l’Islam: l’Isis ha reso ancora più aspra la separazione tra sciiti e sunniti, tra laici e religiosi, tra una maggioranza musulmana e minoranze che si sono dissolte. I cristiani sono scomparsi dal cuore dell’Iraq per rifugiarsi in Kurdistan, così come gli yezidi o i mandei, di cui nessuno ha mai parlato ma che vivevano lungo il Tigri da migliaia di anni. Sono diventate laceranti anche le divisioni etniche, come quella che oppone i curdi a ad Ankara e rischia di diventare una questione insanabile per la Turchia, storico membro della Nato. 
Le costruzioni post-coloniali sono pericolanti perché si è liquefatto l’unico collante che le teneva insieme, il nazionalismo, anche nelle sue forme più esasperate come quella di Saddam Hussein in Iraq o di Gheddafi in Libia. Caduti i raìs sono crollati gli Stati che rappresentavano e sono in crisi di legittimità anche le monarchie del Golfo che dopo avere esportato problemi finanziando l’Islam radicale ora vedono i guai tornare a casa propria. 
È sintomatico che i soli a reclamare ancora una nazione (e un territorio), oltre ai separatisti curdi, siano i palestinesi che ieri hanno innalzato la loro bandiera all’Onu. Per Washington, che ha votato contro, è intervenuta l’ambasciatrice Samantha Power: «Alzare la bandiera palestinese non è un’alternativa ai negoziati e non porterà più vicini alla pace». Una dichiarazione surreale: nessuno parla più di negoziati. Gli israeliani hanno evitato commenti inutili. Dalle alture del Golan vedono ben altri stendardi sventolare all’orizzonte.
L’unica bandiera che garrisce al vento è quella nera del Califfato che di fatto ha abbattuto i confini coloniali. Forse non è un caso che il video di maggiore successo dell’Isis sia quello in cui un bulldozer disintegra in pieno deserto un cartello con la scritta Sykes-Picot, il nome dei due diplomatici di Gran Bretagna e Francia che nel 1916 disegnarono la spartizione del Levante arabo. 
Negli ultimi decenni gli islamisti hanno cercato in ogni modo di creare uno Stato islamico governato dalla sharia: in Sudan, in Afghanistan, in Yemen, nel Sahel africano. L’idea era quella di impossessarsi di uno Stato preesistente e farlo proprio, mentre al-Qaeda e Osama bin Laden puntavano a spargere il terrore mirando al nemico lontano, Stati Uniti e Occidente. Ma l’11 settembre non ha avuto gli effetti sperati lasciando immutati gli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Al-Qaeda seminava paura ma non cambiava il mondo.
Il Califfato nasce in Iraq proprio da questa intuizione. È inutile combattere il centro del potere, è molto più efficace prendersi le periferie concentrandosi sui territori dove il governo è più debole e più forte lo scontento. Così nasce lo Stato Islamico: un pezzo di Iraq cui aggiungere un pezzo di Siria facendo saltare le frontiere tracciate sulle ceneri dell’Impero Ottomano. L’Isis è nei fatti la dimostrazione che il mondo può cambiare: è con questo che ha calamitato i consensi locali dei sunniti e mobilitato l’afflusso dei foreign fighters. Si è parlato molto dei jihadisti occidentali, dei convertiti. Ma la realtà è che i combattenti stranieri di prima linea sono ceceni, uzbeki, jihadisti di tutte le nazionalità addestrati in Afghanistan, Yemen, Sudan, Maghreb e Sahel. 
Quello dell’Isis è un esercito motivato e professionale. Altrimenti non avrebbe sbaragliato quello iracheno, messo spalle al muro Assad e dato filo da torcere a milizie sciite sperimentate come quelle dei libanesi Hezbollah e dei Pasdaran iraniani. Chi ha viaggiato con Hezbollah sa perfettamente che nel Qalamoun siriano hanno combattuto contro ceceni che adottavano le stesse tattiche di guerriglia usate a Grozny contro i russi.
Ecco perché la guerra al Califfato non si vince soltanto con i raid aerei. Questo lo sa certamente Putin e anche Obama che non vuole impegnare truppe nel Levante. Ma soprattutto entrambi sanno, come pure gli Stati della regione convolti - Turchia, Iran, Arabia Saudita - che il Medio Oriente è all’anno zero e la soluzione militare non basta a ricostruire un mondo che non c’è più.

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