di Lelio Demichelis
Il tempo: basta guardare l’orologio o lo schermo dello smartphone per (credere di) sapere cosa sia il tempo (in verità: per sapere che ore sono). Eppure, mai come oggi sembra che il tempo sia qualcosa di sconosciuto, e non solo perché è intrinsecamente immateriale, etereo, non toccabile in sé ma è ovunque, come l’aria; è sconosciuto, piuttosto, perché abbiamo perso il suo significato, perché viviamo in una compulsione esistenziale di istanti senza più passato e senza più futuro, istanti velocissimi che ci passano accanto e ci prendono e ci portano con loro così velocemente verso il nulla che neppure vediamo più questo nulla. Di più: se questi istanti sempre più brevi nonci prendono e non ci portano con loro, ci sentiamo esclusi dall’incessante flusso dei flussi (e i flussi sono mobili per definizione) e dalla direzione di marcia che come un sol uomo dobbiamo seguire, nella nostra irrefrenabile mobilitazione totale e permanente.
Sconosciuto il tempo lo era anche in passato, ma almeno ci si interrogava umanamente su di esso, cercando di capire cosa fosse: per i greci Crono era il padre di tutte le cose; per Aristotele il tempo era il numero del movimento secondo il prima e il poi; per secoli il tempo è stata la questione, mai risolta della riflessione filosofica e scientifica; per Bergson il tempo era durata ed esperienza interiore ovvero essenza qualitativa e metafisica, irriducibile a una sua sola misurazione esterna; e ancora, il tempo ha sempre avuto una valenza ontologica e teleologica insieme; ma oggi ci è sconosciuto appunto diversamente da ieri, perché non pensiamo più il tempo e al tempo. E quanto più lo misuriamo e suddividiamo e quanto più dobbiamo essere velocemente sincronizzati con gli altri, quanto più il tempo diventa biopolitico, meno sappiamo dare una connessione esistenziale (di senso, di direzione, di progettualità) a questi infiniti istanti (più siamo connessi, meno abbiamo consapevolezza delle connessioni esistenti; più dobbiamo andare veloci, meno vediamo il tempo che scorre; più abbiamo fretta, meno abbiamo tempo per pensare).
Il tempo (ciò che è, la sua organizzazione, la sua velocità, la sua intensità e il suo ritmo) lo abbiamo venduto, alienato proprio nel senso giuridico e contrattuale diceduto a qualcuno/qualcosa che non siamo noi e non è un altro. Non lo abbiamo fatto consapevolmente, non siamo andati da un notaio per stipulare il contratto di alienazione del bene-tempo. Ma è accaduto. Gli acquirenti sono il mercato e la tecnica (e la rete), che hanno risolto a loro favore la vecchia questione se le macchine siano appendici degli uomini (come dovrebbe essere, dando noi il tempo alle macchine) o se siano gli uomini ad essere appendici delle macchine, funzionando (noi) alla velocità imposta dalle macchine. Mercato e tecnica sono gli imprenditori del tempo, sono i mezzi di produzione e di consumo della nostra vita, e noi non siamo piùproprietari del tempo, nel senso che non siamo più noi a costruirlo socialmente. E questo ha prodotto un’altra forma di alienazione. Conseguenza inevitabile della prima.
Per Marx l’alienazione si produce quando il lavoratore è estraniato dal prodotto della sua attività, quando il lavoro è forzato dalla necessità esterna, quando (estraniandosi dall’attività produttiva) si estrania anche dal genere umano e dagli altri uomini, e se il prodotto del lavoro appartiene a un altro, cioè al capitalista (l’operaio vendendosi per un salario); per Feuerbach l’alienazione (che è sempre separazione e scissione) è prodotta dalla religione, creando un Dio dal quale l’uomo deve dipendere, essendo creato da Dio; per Marcuse è la tecnica a creare una società alienata imponendo l’adattamento dell’uomo all’apparato tecnico e la interiorizzazione di ciò che è richiesto dall’apparato per il proprio funzionamento, l’uomo funzionando secondo le leggi della razionalità tecnologica e diventando un accessorio della tecnica. E oggi? Oggi siamo alienati anche (anche, perché la vecchia alienazione non è morta, anche se è ben mascherata) dal tempo oltre che dallo spazio. Il tempo è dettato dall’apparato, ciò che produciamo nel tempo non ci appartiene (neppure nellasharing economy o nel favoleggiato postcapitalismo), né ci appartiene la rete, siamo alienati dagli altri perché non abbiamo più tempo per costruire relazioni e perché è questo che serve all’apparato (divide et impera).
Tempo: sua accelerazione infinita e inarrestabile (questo impongono le macchine e il mercato a produttività crescente), sua intensificazione (un altro modo di fare accelerazione) e quindi: alienazione. Su cui riflette – confermando in parte quanto sopra – un breve ma importante saggio del sociologo tedesco Hartmut Rosa,Accelerazione e alienazione, sostenendo che l’accelerazione sociale – che oggi è una condizione globale e totalitaria – conduce a forme assai gravi (e grevi) di una nuovaalienazione sociale, principale ostacolo alla realizzazione di una vita buona nell’età tardo-moderna. Rosa propone infine non un modello astratto di vita non alienata (né alienante), ma una via per riconquistare «momenti di esperienza umana non alienata». Perché «l’accelerazione sociale implica scavalcare certi confini al di là dei quali gli esseri umani divengono necessariamente alienati non solo dal loro agire, dagli oggetti con cui lavorano e vivono, dalla natura, dal mondo sociale e da se stessi, ma anche dal tempo e dallo spazio».
Rosa non offre una soluzione, ma qualche pezzo di soluzione. E ci offre un quadro sufficientemente completo dei processi di alienazione legati all’accelerazione. In fondo, capire è già un passo avanti per risolvere.
Fonte: Alfabeta2
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