La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 1 ottobre 2015

La classe creativa della città fantasma

di Massimiliano Guareschi
In fran­cese détroit signi­fica «stret­toia». Un avven­tu­riero fran­cese, mon­sieur de Cadil­lac, scelse quel nome per un inse­dia­mento posto alla con­fluenza fra un fiume e un grande lago che aveva con­tri­buito a fon­dare. Per­dendo l’accento sarebbe diven­tata Detroit, la città dell’auto, del for­di­smo, della mas­sic­cia migra­zione dal Sud di neri attratti dalle oppor­tu­nità di lavoro offerte dalla grande indu­stria. Ma Detroit non ha signi­fi­cato solo catene di mon­tag­gio. Citando un non memo­ra­bile pezzo dei Kiss, Detroit è anche city rock, per il meglio e per il peg­gio, si potrebbe aggiun­gere: MC5 e Iggy and the Stoo­ges, ma anche il blue col­lar rock di Bob Seger fino agli abissi del metal repub­bli­cano dell’esecrabile Ted Nugent. Motor­town, con­tratto in Motown, ci riporta poi all’etichetta black del miglior soul e R’n’B. Poi negli anni Ottanta sarebbe venuta la «Techno Detroit».
Al di là del fatto musi­cale, Detroit si pre­senta come un punto di snodo fon­da­men­tale dell’esperienza afroa­me­ri­cana: luogo di sra­di­ca­mento e crea­zione di nuove appar­te­nenze, di deter­ri­to­ria­liz­za­zione e riter­ri­to­ria­liz­za­zione, di inte­gra­zione e con­flitto. Qui nasce la Nation of Islam, con l’apparizione al fon­da­tore, il miste­rioso, Wal­lace D. Farm, di Allah in per­sona, qui ini­zia a pre­di­care Mal­colm X e Mar­tin Luther King tiene la prima ver­sione di «I dream», qui scop­pia nel 1967 la «rivolta di luglio», per sedare la quale ven­gono mobi­li­tate la guar­dia nazio­nale del Michi­gan e una divi­sione aero­tra­spor­tata. Motor­city is bur­ning can­terà John Lee Hoo­ker. Dalle mace­rie fumanti della inner city l’idea di andar­sene verso i para­disi middle-class dei sob­bor­ghi resi­den­ziali ini­zia ad essere una pro­spet­tiva seducente.
Il fal­li­mento annunciato
We almost lost Detroit è il titolo indi­ret­ta­mente pro­fe­tico di un pezzo di Gil Scott-Heron del 1977. Il rife­ri­mento era a un inci­dente nucleare, quello del reat­tore Fermi1, che avrebbe minac­ciato nel 1966 la distru­zione della città. In realtà a deser­ti­fi­care Detroit non sareb­bero state le radia­zioni quanto gli effetti altret­tanto pos­senti di dina­mi­che economico-sociali legate sia alle ten­denze alla subur­ba­niz­za­zione tipi­che delle città sta­tu­ni­tensi sia, soprat­tutto, al pro­cesso di ristrut­tu­ra­zione e delo­ca­liz­za­zione sca­te­na­tosi a par­tire dalla fine degli anni Set­tanta. Men­tre chiun­que disponga di un red­dito suf­fi­ciente, soprat­tutto bian­chi, si tra­sfe­ri­sce nei sob­bor­ghi resi­den­ziali e le grandi fab­bri­che chiu­dono l’inner city si svuota. Calando il red­dito dei resi­denti, l’infernale mec­ca­ni­smo del loca­li­smo fiscale con­tri­bui­sce a defi­nan­ziare tra­sporti, scuole e ogni tipo di ser­vi­zio sociale, incre­men­tando l’incentivo ad andarsene.
Nel 2009 poi la muni­ci­pa­lità, som­mersa dai debiti, dichiara fal­li­mento. E così Detroit da Motor­town si tra­sfor­merà in ghost towno mur­der town (in con­cor­renza con Bal­ti­more, non a caso scena del giu­sta­mente cele­brato «The Wire»), epi­fa­nia estrema delle dina­mi­che tipi­che della Rust Belt, una fascia di città del Mid­west in cui la rug­gine appare come l’attestazione resi­duale delle pas­sate glo­rie indu­striali e un monito circa una rina­scita sem­pre riman­data.
Una super­fi­cie equi­va­lente a quella di san Fran­ci­sco, Boston e Man­hat­tan messe insieme per soli 700 mila abi­tanti: è in que­sto spa­zio urba­niz­zato che sem­bra con­trad­dire i det­tami ter­ri­to­riali tipici dell’urbano che Fran­ce­sca Berardi e l’artista Anto­nio Rovaldi ambien­tano il loro detour, anche in que­sto caso senza accento, alla cac­cia di sto­rie e imma­gini. Il risul­tato è un libro, dal titolo Detour in Detroit (Hum­boldt Books, pp. 254 euro 23), che assume la forma di una deriva geo­gra­fica pun­teg­giata e con­ti­nua­mente rio­rien­tata dagli incon­tri con inter­ces­sori le cui nar­ra­zioni esor­ciz­zano la spet­tra­lità del pre­sente rian­no­dando i fili con il pas­sato o rive­lando punti di vista inso­spet­tati su che cosa si muove in città. Si ini­zia con Leni Sin­clair, una gio­vane pro­ve­niente dalla Ger­ma­nia Est che giunta negli Stati Uniti nel 1959 incon­tra il jazz, il rock e la foto­gra­fia. Ma anche un uomo, John Sin­clair, che avrebbe spo­sato e di cui avrebbe con­ser­vato il cognome anche dopo il divor­zio. Insieme con­tri­bui­rono in maniera deci­siva a fon­dare le White Pan­thers, rispon­dendo a una sol­le­ci­ta­zione di Huey New­ton, ed ebbero l’intuizione geniale di coin­vol­gere una garage band, gli MC5 di Wayne Kra­mer e Fred «sonic» Smith», al fine di por­tare il mes­sag­gio di rivolta presso i gio­vani bianchi.
John Sin­clair da anni vive in Olanda, Leni è rima­sta a Detroit, in una casa som­mersa dalle foto­gra­fie da lei scat­tate, rigo­ro­sa­mente senza flash, ai grandi del jazz e del rock degli anni Ses­santa e Set­tanta, e auspica una rina­scita della città come nuova Amster­dam, con­fi­dando ancora una volta sull’erba come ingre­diente essen­ziale se non per la rivo­lu­zione, come ai tempi del move­ment, almeno per una forma di svi­luppo eco­no­mico della città i cui frutti pos­sano rica­dere anche sui gruppi subalterni.
Un ana­logo otti­mi­smo viene espresso da una mili­tante quasi cen­te­na­ria, Grace Lee Boggs, fon­da­trice con il marito James, C.L.R. James e Mar­tin Gla­ber­mann di una signi­fi­ca­tiva espe­rienza del mar­xi­smo ame­ri­cano degli anni Cin­quanta e Ses­santa, il Cor­re­spon­dence Publi­shing Com­mi­tee. A suo avviso il disa­stro della città indu­striale cree­rebbe le pre­messe per una rivo­lu­zione comu­ni­ta­ria basata sul «lavo­rare meno e con­su­mare meno», su un cam­bia­mento degli stili di vita basata sul «Do-it-yourself», il mutua­li­smo e l’autoproduzione (lungo una gamma che va dagli orti urbani alle stam­panti 3D). Più rea­li­sta, invece, appare invece la posi­zione di You­sef Sha­kur, ex mem­bro di una gang dive­nuto poi orga­niz­za­tore di comu­nità, secondo cui, al di là di ogni illu­so­ria idea di rina­scita, quello di cui Detroit neces­sità è lo svi­luppo di un forte movi­mento sociale.
Uno degli effetti più ecla­tanti dello svuo­ta­mento di Detroit è costi­tuito dai cosid­detti «deserti ali­men­tari». In ampie zone della città, dove con la popo­la­zione si rare­fa­ceva la capa­cità di spesa, i negozi hanno ini­ziato a chiu­dere. E così, il distri­bu­tore di ben­zina si pre­senta come l’unico luogo dove è pos­si­bile approv­vi­gio­narsi di cibo. Allo stesso tempo, però, gli enormi vuoti che si crea­vano nello spa­zio urbano hanno ini­ziato a essere col­ti­vati. Tra ini­zia­tive dal basso e sup­porto di Ong, Detroit è così diven­tata una delle capi­tali mon­diali dell’urban far­ming.
In gioco sono que­stioni fon­da­men­tali, che oltre all’approvvigionamento chia­mano in causa il red­dito, l’autoconsumo ma anche pro­du­zione per il mer­cato, l’empo­wer­ment delle comu­nità vici­nali, la ride­fi­ni­zione del rap­porto con il cibo. Ma la linea della razza emerge anche qui. Come mostrano diverse voci rac­colte da Berardi, nel tempo si è creata una vera e pro­pria «buro­cra­zia» dell’agricoltura urbana ege­mo­niz­zata da bian­chi usciti dall’università, senza dub­bio ben inten­zio­nati ma la cui azione non manca di susci­tare nelle comu­nità nere l’impressione sgra­de­vole del pater­na­li­smo e dell’imposizione dall’alto di modelli di con­sumo e comportamento.
Desi­deri di riappropriazione
In un libro di qual­che anno fa, tra­dotto in Ita­lia da il Mulino con il discu­ti­bile titolo da guida turi­stica L’altra New York, Sha­ron Zukin rico­struiva i mec­ca­ni­smi che ave­vano con­dotto alla costru­zione dell’immagine del Lower East Side, di Har­lem e di Williamsbourg-Brooklyn come luo­ghi «urbani auten­tici» e quindi pas­si­bili di valo­riz­za­zione immo­bi­liare. La pos­si­bi­lità di acce­dere a immo­bili a basso costo favo­ri­sce l’insediamento di una popo­la­zione «biz­zarra» e di gal­le­rie d’arte, locali alter­na­tivi, bot­te­ghe arti­giane, creando pro­gres­si­va­mente un’ecologia gra­dita alla «crea­tive class», dispo­sta a pagare cifre cre­scenti per dimo­rare in una zona non ano­nima e sti­mo­lante. Il con­se­guente aumento dei valori immo­bi­liari, tut­ta­via, fini­sce per col­pire in primo luogo que­gli stessi pio­nieri che con il loro stile di vita ave­vano dis­so­dato quelle parti di città costrin­gen­doli a tra­sfe­rirsi altrove. Anche Detroit, con i suoi vuoti di valore, non sfugge agli appe­titi dei gen­tri­fi­ca­tori. Lo fanno chia­ra­mente capire le parole di Bruce Sch­wartz, numero due della Quic­ken Loans, una sorta di The Cir­cle dei mutui, per citare il recente romanzo di Dave Eggers. Diviene allora facile com­pren­dere il carat­tere ambi­va­lente e aperto a esiti oppo­sti di quelle pra­ti­che di rein­ven­zione e riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano che susci­tano l’entusiasmo di una vec­chia mili­tante come Grace Lee Boggs.
Gli orti urbani, la ride­fi­ni­zione della mobi­lità a par­tire dalla bici­cletta (nel cuore della città dell’auto per eccel­lenza), lo svi­luppo di atti­vità eco­no­mi­che impron­tate alla coo­pe­ra­zione, il wel­fare dal basso, la dif­fu­sione di spazi con­tro­cul­tu­rali se da una parte con­tri­bui­scono a ridi­se­gnare le forme di una cit­ta­di­nanza attiva e riven­di­ca­tiva dall’altra svol­gono una fun­zione deci­siva nel creare quel valore aggiunto di cui il real estate è sem­pre pronto ad appro­priarsi. Si pos­sono nutrire dubbi sul suc­cesso nell’ex Motor­city della ricetta che altrove ha dato grandi sod­di­sfa­zioni alla spe­cu­la­zione immo­bi­liare e al capi­tale finan­zia­rio. E tut­ta­via il ten­ta­tivo è in corso. Per con­tra­starlo, con ogni evi­denza, il valore in sé delle pra­ti­che e degli stili di vita non basta.

Fonte: il manifesto

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