di Thomas Fazi
La settimana scorsa abbiamo parlato della duplice proposta tedesca che sta scatenando il panico nei corridoi di Palazzo Chigi e di Palazzo Koch (Banca d’Italia). La prima è quella che vorrebbe che ai titoli pubblici posseduti dalle banche dell’eurozona siano attribuiti coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli Stati (mentre ora sono considerati privi di rischio); che sia messo un tetto alla presenza di titoli di Stato del loro paese nel portafoglio delle banche; e, infine, che in caso di crisi del debito pubblico – e di contestuale richiesta di assistenza al Meccanismo europeo di stabilità (MES) da parte del governo interessato – sia applicato ai titoli pubblici lo stesso principio di bail-in introdotto per le banche con l’unione bancaria: allungamento delle scadenze e magari anche sospensione e riduzione degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè in primo luogo sulle banche del paese interessato.
La seconda proposta riguarda invece la creazione di un “superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale.
La seconda proposta riguarda invece la creazione di un “superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale.
È evidente che tali proposte, se passassero, rappresenterebbe un colpo letale per l’Italia e per gli altri paesi della periferia. Da un lato, la proposta di “bail-in sovrano” aprirebbe immediatamente delle voragini enormi nei bilanci delle banche dei paesi maggiormente a rischio (nel caso delle banche italiane, che possiedono 400 miliardi di euro di titoli pubblico e sono già pesantemente sottocapitalizzate, l’impatto sarebbe semplicemente devastante), esasperando la crisi bancaria in questi paesi ed accelerando la fuga di capitali (già in corso) dai paesi della periferia verso quelli del centro; questo avrebbe anche pesanti ricadute sui debiti pubblici dei paesi interessati – che in parte già stiamo vedendo –, giacché le banche si affretterebbero a scaricare i titoli pubblici in loro possesso (magari per comprarne di più solidi, per esempio quelli tedeschi), determinando un immediato aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato (di fatto cancellando gli stessi vantaggi del quantitative easing) e costringendo quasi sicuramente il governo a fare ricorso al fondo salva-Stati (il che ovviamente comporterebbe per le banche perdite ancora più ingenti, per le ragioni di cui sopra, oltre che severe misure di austerità per il paese interessato). Dall’altro lato, la creazione di un ministro del Tesoro europeo priverebbe gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale rimasto loro per implementare politiche anti-cicliche (come fu fatto all’indomani della crisi del 2008) nel caso di un nuovo tracollo finanziario (lo stesso ex ministro delle finanze di Prodi, Vincenzo Visco, ha dichiarato che nelle condizioni attuali il ministro europeo «sarebbe solo un tecnocrate garante degli interessi tedeschi»).
Un meccanismo diabolicamente geniale, dei cui effetti potenziali abbiamo avuto un assaggio con l’entrata in vigore dell’unione bancaria: l’introduzione del meccanismo di bail-in per le banche, infatti, sta già scatenando il panico sui mercati bancari europei (in particolare quello italiano), anticipando il ritorno di quel “circolo vizioso” banche Stati che nel 2011-12 ha rischiato di spaccare l’eurozona – e che in teoria l’unione bancaria doveva servire a spezzare!
La scorsa settimana lo spread sul titoli a 10 anni del Portogallo è salito a 410 punti base rispetto ai bund tedeschi, spingendo gli oneri finanziari a livelli insostenibili in termini reali. Anche lo spread sui titoli italiani e spagnoli ha ripreso a salire.
Quanto sia critica la situazione, lo si deduce dal fatto che per la prima volta Renzi e il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sembrerebbero essersi schierati apertamente contro la Commissione europea e la Germania (al punto che c’è chi vede nelle bordate di Monti a Renzi addirittura un piano estero per far cadere il governo). Per ora Renzi ha rifiutato l’ipotesi di un ministro europeo del Tesoro ed ha dichiarato che metterà il veto su qualsiasi tentativo di mettere un tetto alla presenza di titoli di Stato nel portafoglio delle banche. Che Renzi si opponga ad una misura che trascinerebbe quasi senz’altro l’Italia nel baratro, con conseguenze catastrofiche per tutta l’unione monetaria, non fa certamente di lui un paladino anti-austerity; si tratta di mera sopravvivenza politica.
La vera domanda è perché la Germania stia promuovendo con tale veemenza delle misure che, a detta anche di diversi economisti tedeschi, mettono a rischio la sopravvivenza stessa della zona euro (sarebbe «dinamite per l’area euro», dice per esempio Peter Bofinger). Una spiegazione possibile, ipotizzata per esempio da Visco, è che «i gruppi dirigenti tedeschi (o una loro parte) abbiano già deciso di considerare chiusa l’esperienza dell’euro se non della stessa Unione», e dunque, in previsione di un’imminente deflagrazione della zona euro (o perlomeno di un’uscita della Germania dalla stessa), abbiano deciso di infliggere quanti più danni possibili ai loro (potenziali) concorrenti commerciali, a partire dall’Italia. Un’altra spiegazione possibile – che Visco non esclude – è che i tedeschi siano talmente accecati dalla loro ossessione per le regole e dalla presunta superiorità del loro modello economico – lo storico Hans Kundnani in un libro uscito di recente in Italia parla dell’affermarsi in Germania di un nuovo nazionalismo economico, l’Exportnationalismus – da non rendersi conto che queste misure finiranno per ritorcersi contro la stessa Germania (il paese che ha beneficiato e beneficia di più dalla moneta unica). Secondo questa lettura degli eventi, la Germania sbaglierebbe, per certi versi, “in buona fede”. Anche questo è possibile.
Un’altra ipotesi ancora è che la Germania stia perseguendo un’esplicita strategia di dominio che esclude a priori la possibilità di una disgregazione della moneta unica, indipendentemente dall’aggravarsi della crisi nei paesi della periferia. Per certi versi questo è lo scenario più inquietante, poiché implica la «desertificazione economica di interi paesi (tra cui il nostro), ridotti a colonie del nucleo centrale guidato dalla Germania», come scrive Carlo Clericetti. A ben vedere, anche questo scenario non è da escludere. In fondo, sono anni che economisti e commentatori profetizzano scenari di uscita e/o di implosione dell’eurozona che puntualmente non si materializzano, in parte per l’impegno delle autorità europee – finora mai disatteso – a fare tutto il necessario per garantire la sopravvivenza dell’eurozona (e non è detto che non saranno in grado mantenere tale promesso in futuro), in parte per il fatto che i paesi della periferia sono stati – e continuano ad essere – governati da partiti per i quali l’uscita non è mai stata un’opzione. Basta prendere il caso dell’Italia: è comprensibile che Renzi ora cerchi di ottenere il minimo necessario per rilanciare l’economia (e, soprattutto, per vincere le elezioni); ma se non dovesse farcela, qualcuno pensa veramente che sarebbe disposto a prendere in considerazione l’uscita dall’euro? Appunto.
Alla luce di ciò, i tedeschi potrebbero aver valutato i benefici potenziali della loro “scommessa” sufficienti da giustificare i costi – comunque più bassi per loro che per gli altri – di un’eventuale fine della moneta unica. La scommessa, come abbiamo visto, consiste nel tentativo di rafforzare ulteriormente la camicia di forza dell’euro, togliendo agli Stati nazionali sia la possibilità di finanziarsi tramite le loro banche, sia quel minimo di discrezionalità fiscale prevista dalle regole attuali (niente più battaglie sulla “flessibilità”, ecc.). E la Germania cosa ne beneficerebbe? Nel breve, come abbiamo visto, delle migliori condizioni di finanziamento, visto che le banche della periferia sarebbero incentivate a comprare i titoli dei paesi più solidi. Questo, però, non sembrerebbe sufficiente a giustificare l’all-in della Germania.
Dobbiamo dunque prendere in considerazione l’ipotesi che le azioni della Germania si inseriscano in una strategia di più ampio respiro. In un recente articolo suggerivo (ispirandomi ad un’analisi di Emiliano Brancaccio) che l’unione bancaria – proprio perché non riduce ma enfatizza le asimmetrie tra i sistemi bancari dell’eurozona – determinerà un’escalation del processo di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa, ossia una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dislocati soprattutto nel Sud Europa ed i capitali più forti situati prevalentemente in Germania. In pratica, il rischio è che si vada verso la creazione di un ristretto oligopolio bancario “concertato”, probabilmente franco-tedesco, che di fatto – soprattutto se passasse la proposta tedesca di recidere una volta per tutte il legame tra banche e Stati di appartenenza – disporrebbe del potere di decidere di quanto e a che condizioni finanziare il debito degli Stati. Il potere che ne deriverebbe per la Germania e gli altri paesi del “centro” sarebbe, ovviamente, enorme. Con indubbi vantaggi anche in termini economici, visti i tassi di interessi che i paesi divenuti nuovamente “rischiosi” (Italia in primis) sarebbero costretti a pagare. Di fatto, si tratterebbe di una forma di trasferimento fiscale permanente dai paesi più deboli a quelli più forti, attraverso gli interessi sul debito pubblico sottoscritto dal nuovo oligopolio bancario europeo. Se le cose stanno così possiamo solo sperare che Renzi abbia veramente intenzione di andare fino in fondo nella sua opposizione al progetto tedesco. Le parole, ormai, non bastano più.
Fonte: Eunews Oneuro
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