di Alberto Zoratti
Basterebbe navigare nei luoghi giusti del web, alla ricerca di fonti accreditate, per contribuire alla demolizione del TTIP, l'accordo commerciale transatlantico tra Unione Europea e Stati Uniti che da quasi tre anni tiene banco nelle stanze di Washington e Bruxelles come nelle piazze di molti Paesi al di qua e al di là dell'Atlantico. Dopotutto la strumento utilizzato dai sostenitori dell'accordo è stato sostanzialmente la disinformazione: pochi dati, meno documenti, tanta demagogia. La stessa che conosciamo e che ascoltiamo ogni volta che si parla di liberalizzazione dei mercati e di globalizzazione, intese più come panacee che non come scelte politiche vere e proprie.
Se ci si dovesse fermare alle apparenze, se non si andasse più a fondo dei numeri che spesso vengono presentati dai centri di ricerca coinvolti dalla Commissione Europea (+0.48% di Prodotto interno lordo all'anno e quasi 540 euro all'anno in più per famiglia europea di quattro persone, sebbene non si dica mai dal 2027 e che si tratta di stime medie) il TTIP si dovrebbe percepire come un grande affare. E del resto sarebbe percepito come una scelta storica, considerato che circoscriverebbe un mercato del valore di oltre il 46% del Prodotto interno lordo mondiale.
Ma cercare altre fonti significa andare oltre alla propaganda, capendo che non esiste univocità su un argomento così vasto e complesso e che al contrario esistono criticità e possibili ricadute pesanti su interi comparti economici.
Nel novembre del 2015 è USDA, il Dipartimento Agricoltura degli Stati Uniti che contribuisce alla chiarezza. Con un report scritto a otto mani ("Agriculture in the Transatlantic Trade and Investment Partnership: Tariffs, Tariff-Rate Quotas, and Non-Tariff Measures"), l'Amministrazione statunitense mette nero su bianco vantaggi e svantaggi, ipotizzando diversi scenari (abbattimento dei soli dazi, abbattimento di dazi e barriere non tariffarie come le regolamentazioni) e le stime sugli impatti sono molto interessanti, soprattutto per noi europei. Con un surplus di 12 miliardi di dollari, l'Europa registra un importante avanzo negli scambi agroalimentari con gli Stati Uniti. Un vantaggio che diminuirebbe fino quasi ad azzerarsi nel momento in cui dovesse essere approvato il TTIP: ad un aumento delle esportazioni statunitensi, si avrebbe un aumento delle importazioni di prodotti a basso costo in Europa, cosa che potrebbe disarticolare interi comparti produttivi che verrebbero di fatto espulsi dal mercato. Un fenomeno che andrebbe a sommarsi a quello della trade diversion, del riorientamento dei flussi commerciali, che sacrificherebbero gli scambi intraeuropei a vantaggio di quelli transatlantici. Secondo una stima di impatto presentata dalla Bertelsmann Foundation nel 2013, la diminuzione degli scambi tra Paesi membri dell'UE potrebbe toccare punte del -29% ad esempio tra Germania e Italia, uno scenario che preoccupa non poco le Piccole e Medie Imprese, che del tessuto economico europeo sono una delle più importanti ossature, con gli oltre 22 milioni di piccole aziende.
Questo, è un esempio di quello che potrebbe accadere con il combinato disposto delle diverse misure approvate col TTIP, che riguarderebbero la gran parte dei settori produttivi che verrebbero impattati dalla diminuzione dei dazi e dall'azzeramento di alcune barriere non tariffarie. Perché il Trattato transatlantico è questo, un accordo di seconda generazione. Nella nuova fase della globalizzazione dei mercati, la priorità non è più l'abbassamento dei dazi, in molte situazioni già molto bassi se non addirittura cancellati, ma sono le regolamentazioni e gli standard che creano vere e proprie barriere, e quindi costi, alle imprese che decidono di commercializzare sui mercati globali. A tutto questo si aggiunge la tutela degli investitori, con la proposta dell'arbitrato internazionale, l'ISDS, che permetterebbe alle aziende di citare in giudizio un Governo, richiedendo una compensazione economica, nel caso fosse stata approvata una legge o una normativa capace di mettere in discussione le aspettative di profitto dell'investitore.
Un aspetto questo non proprio secondario, che rischia di disarticolare la capacità degli Stati di poter legiferare lasciando ampi margini alle grandi imprese e alla loro difesa del profitto ad ogni costo.
ISDS e legislazione ambientale. A rischio i risultati della COP21? Quanto l'Arbitrato internazionale per la protezione degli investimenti sia un rischio per gli Accordi Multilaterali sull'Ambiente, a dispetto di ciò che viene espresso dalla Commissione Europea rispetto al "diritto di regolamentazione" dei Governi è stato ben espresso da una risoluzione del Parlamento Europeo votata a larga maggioranza nell'Ottobre 2015 dove si chiede esplicitamente che i risultati della Conferenza sul Clima che si è tenuta a Parigi nel dicembre 2015, nelle parti che impegnano i Governi, non siano passibili di cause di compensazione economica davanti a un arbitrato tra investitori e Stati sullo stile dell'ISDS.
Una presa di posizione forte che si basa sulle posizioni del giurista canadese Gus Van Harten espresse nel report "An ISDS Carve-Out to Support Action on Climate Change" pubblicato nel settembre 2015. Le criticità dell'inserimento dell'arbitrato nell'accordo sono molte, sebbene la gran parte dei trattati di libero scambio "all inclusive" lo contemplino (a cominciare dal CETA, quello con il Canada concluso nel settembre 2014 e in attesa di ratifica al Parlamento Europeo), e per questo nel maggio scorso la Commissione Europea ha presentato una riforma, poi resa pubblica nell'ottobre scorso, che prevede una revisione in senso più trasparente e pubblico dell'ISDS, creando una corte internazionale sugli investimenti. Un passo nella direzione di un maggiore controllo da parte dei cittadini sull'attività delle corti, ma non ancora abbastanza, considerato che i criteri a cui si rifanno gli arbitri (come quello di legittima aspettativa dell'investitori) sono ancora talmente vaghi da essere facilmente interpretabili.
Nel frattempo il negoziato segna il passo. Mentre su alcuni settori c'è un punto di arrivo, come quello dell'azzeramento delle tariffe, su altri si è ancora in alto mare, come la questione agricola e i suoi elementi critici (dagli Organismi geneticamente modificati alla promozione dei prodotti DOP, soprattutto europei, sul mercato statunitense) o come l'aspetto degli appalti pubblici e del tentativo dell'Europa di sblindare definitivamente il Buy American Act, la legge che permette agli enti pubblici subfederali americani di acquistare prodotti e servizi locali.
Nel frattempo le migliaia di organizzazioni promotrici delle campagne Stop TTIP in tutta europa stanno convergendo verso fine febbraio, quando a Bruxelles si terrà il nuovo round negoziale del TTIP. Mobilitazioni locali, tweetstorm ma anche un meeting di strategia per capire quali debbano essere i prossimi passi in vista delle mobilitazioni di aprile. Dopo le 250 mila persone di Berlino dell'ottobre scorso, l'obiettivo è quello di raggiungere più persone possibile con iniziative che, ad esempio in Italia, prevedono anche momenti di piazza.
Tutto ciò mentre gli interlocutori italiani cambiano. Il viceministro al commercio estero Carlo Calenda, proveniente da Confindustria e fiero sostenitore del TTIP, è stato promosso ad Ambasciatore italiano a Bruxelles, mentre al suo posto è stato nominato Ivan Scalfarotto, oggi Ministro alle riforme istituzionali, che dal suo blog personale non aggiunge molto al gossip che lo vede nella sua nuova veste ministeriale: "per il momento posso soltanto dire che avere la responsabilità di promuovere l'eccellenza italiana nel mondo mi pare il lavoro più bello ed entusiasmante che si possa immaginare". Anche se non ha ancora una delega sul tema, uno dei primi obiettivi sarà fargli capire che più che promuovere l'eccellenza italiana, dovrà contribuire alla tutela dei diritti e delle produzioni locali evitando letture ideologiche molto rischiose da applicare.
Campagna Stop Ttip Italia
Fonte: Huffington post - blog della campagna
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