di Roberta Fantozzi
Il governo Renzi vuole mettere le mani sulle pensioni di reversibilità? Le smentite di Poletti e Padoan non tranquillizzano perché i contenuti della legge delega per il contrasto alla povertà che il governo vuole approvare lasciano la porta aperta a questa possibilità. Nel testo si parla infatti di risorse che vanno a finanziare il fondo per il contrasto alla povertà e che devono derivare da non meglio definite operazioni di “razionalizzazione” sulle prestazioni assistenziali, comprese quelle di natura previdenziale. Da qualche parte dunque si taglierà.
Un intervento sulle pensioni di reversibilità sarebbe inaccettabile, come lo è la politica del governo nel contrasto alla povertà, non a caso improntata al cosiddetto “universalismo selettivo” richiamato dalla legge delega: l’orrendo ossimoro con cui si è teorizzato nei decenni scorsi che il welfare non poteva coprire tutti e che dunque non si trattava più di promuovere diritti universali ma al massimo prestazioni “caritatevoli” per le povertà estreme.
Di seguito una breve scheda per fare il punto su quello che il governo ha messo in campo sulle povertà, sul perché sarebbe gravissimo il taglio delle pensioni di reversibilità e sull’inaccettabilità della logica che continuamente il governo mette in campo: quella della guerra tra poveri, che mette in conflitto ultimi e penultimi, invece di intervenire sulle grandi disuguaglianze e mettere in campo politiche realmente redistributive.
1. E’ inaccettabile il modo in cui si interviene sulle povertà.
Gli interventi per il contrasto alle povertà previsti dalla legge di stabilità 2016 sono totalmente inadeguati rispetto alla situazione di sofferenza sociale cresciuta esponenzialmente in questi anni.
Secondo i dati Istat relativi al 2014, infatti, sono 1 milione e 470 mila le famiglie in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone, 7 milioni 815 mila persone sono invece in condizione di povertà relativa. I dati sono stabili rispetto all’anno precedente e concentrati geograficamente: la povertà assoluta si attesta al 4,2% al Nord, al 4,8% al Centro e all’8,6% nel Mezzogiorno. A fronte di questa situazione il governo ha stanziato 600 milioni aggiuntivi per il 2016 portando le risorse complessive a 1,6 miliardi e 1 miliardo per il 2017 portando le risorse complessive per quell’anno a 1,5 miliardi. Dei 600 milioni aggiuntivi 220 sono destinati a finanziare l’Asdi, l’assegno di disoccupazione, e 380 il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva, misura attivata dal governo Letta e rivolta esclusivamente ai nuclei familiari con un minore). Il finanziamento complessivo per il Sia raggiunge complessivamente la cifra di 750 milioni per il 2016 (tra quanto era stato già stanziato e le nuove risorse) e di 1 miliardo per il 2017. Se fossero distribuiti sulla sola platea dei poveri assoluti, non dando nessuna risposta alla condizione di povertà relativa, le risorse stanziate dal governo comporterebbero 15 euro lorde mensili, conteggiando invece la sola platea dei nuclei familiari in povertà con un minore che sono circa 600.000, questo significa 104 euro mensili lorde per nucleo familiare. Va ricordato che la proposta di reddito di inclusione sociale avanzata dall’Alleanza contro la Povertà (Acli e Caritas) prevede risorse per 7 miliardi, mentre il reddito di dignità sostenuto da Libera per quanto non quantificato precisamente, nel prendere a riferimento le proposte esistenti in Parlamento (quella del Movimento 5 Stelle e quella di iniziativa popolare proposta da Bin, Sel, Prc ed altri, quantificate dall’Istat rispettivamente in 14,9 e 23,5 miliardi) si situa approssimativamente sulla cifra di 20 miliardi. La legge delega ipotizza un ampliamento degli interventi contro la povertà modesto, dopo il 2017, e finanziato dal taglio delle misure assistenziali e previdenziali vigenti.
2. Non si può usare nuovamente il sistema previdenziale per fare cassa.
Le pensioni di reversibilità, che già oggi vengono erogate in misura differenziata a seconda del reddito del coniuge superstite e delle diverse condizioni dei figli o dei congiunti, sono finanziate dai contributi versati. Come abbiamo sottolineato più volte sono le pensioni a finanziare le casse dello stato e non viceversa, e questo accade dal 1996.
Riportiamo i dati tratti dal Rapporto sullo Stato Sociale 2015 relativi al complesso del sistema previdenziale. La spesa per il 2013 per le prestazioni IVS (invalidità-vecchiaia-superstiti) è stata di 201,6 miliardi. I contributi versati sono stati pari a 181,2 miliardi. Le risorse rientrate nelle casse dello stato attraverso le tasse sono stare 41, 3 miliardi. In sostanza il rapporto tra cioè che è uscito dalle casse dello stato in termini di pensioni erogate e ciò che vi è entrato per i contributi e le tasse, è in attivo di 21 miliardi pari all’1,3% del PIL.
E’ dunque inaccettabile che si intervenga nuovamente usando le pensioni come un bancomat, quando invece va rimessa radicalmente in discussione la controriforma Fornero.
3. Il governo incrementa le disuguaglianze e poi interviene con una partita di giro interna alla riduzione del sistema di welfare.
Va ricordato che nella legge di stabilità per il 2016 il governo Renzi ha eliminato le tasse sulle prime case dei ricchi, cioè sugli immobili di pregio, misura che da sola è costata 1,5 miliardi, favorito l’evasione fiscale con le norme sul contante, regalato una quantità stratosferica di risorse alle imprese (nel 2015 per effetto della precedente legge di stabilità si è trattato di circa 8 miliardi tra Irap, decontribuzione ed altre misure, che crescono nel 2016 e 2017, per ulteriori interventi, tra cui la riduzione della tassa sui profitti, cioè dell’Ires a partire dal 2017).
Parallelamente sempre nella Legge di Stabilità i tagli previsti sono di oltre 8 miliardi per il 2016 prevalentemente su sanità, regioni, servizi pubblici.
Tutto questo avviene in una situazione in cui la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani.
Secondo il rapporto OCSE del maggio scorso (e i dati sono coincidenti, con poche e irrilevanti differenze, con quelli di altri istituti statistici) l’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che ne detiene solo il 4,9%. 600.000 persone possiedono il triplo della ricchezza di 24.000.000 di persone.
Il 20% più ricco (primo quintile) detiene il 61,6% della ricchezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero. Il rapporto tra il primo e l’ultimo quintile è di 154 a 1.
Diciamo no a qualsiasi ulteriore riduzione delle prestazioni previdenziali. Rilanciamo l’iniziativa per rimettere radicalmente in discussione la controriforma Fornero sulle pensioni, per istituire il reddito minimo come misura di reale contrasto alla povertà, per una politica redistributiva a partire dall’istituzione di un’imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze.
Fonte: Rifondazione Comunista
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