di Loreto Colombo
Il nostro paese non ha mai scelto con chiarezza tra centralismo e federalismo. Opzioni altalenanti si sono spesso succedute a breve distanza di tempo.
Leggi statali e leggi regionali, norme, regolamenti e "linee guida" disegnano procedimenti burocratici come rotaie con scambi continui, che talvolta portano sul binario morto. Gli iter formali, più che finalizzati al risultato, appaiono spesso come fini a se stessi. Molti sono convinti che tale inestricabilità non sia casuale, che proprio grazie ad essa è possibile infilarsi nelle maglie del reticolo; cosa che risulterebbe ben più difficile se le regole fossero poche, chiare e semplici.
La farraginosità dell'apparato normativo rende inevitabile l'interpretazione, e quindi da un lato la discrezionalità degli uffici e dall'altro l'assunzione da parte della magistratura del ruolo di legislatore ausiliario. È ovvio che nessuna istituzione rinunzierebbe spontaneamente all'incremento dei suoi poteri, ma in una plausibile democrazia il potere politico e quello giudiziario devono essere nettamente separati e bilanciati. In Italia lo sono sempre meno.
L'urbanistica. Un paradigma di questa complessità è quello dalla disciplina del territorio, affidata alla pianificazione territoriale e urbanistica. Due recenti libri parlano del suo fallimento: Contro l'urbanistica di Franco La Cecla (Einaudi, 2015) e Libertà e innovazione nella città sostenibile di Stefano Moroni (Carocci, 2015). Il primo autore racchiude nel termine urbanistica il livello politico-decisionale, quello dei comportamenti e quello tecnico-progettuale e finisce col confondere una presunta volontà autodistruttiva planetaria - raccontata mediante le declinazioni mondiali dell'insostenibilità urbana - con i principi teorici antichi e recenti che sottendono lo strumento piano come complesso regolativo.
Le storiche definizioni di urbanistica(1) concordano più o meno tutte nel riconoscere in essa il complesso disciplinare finalizzato alla strumentazione tecnico-operativa per progettare o riqualificare il sistema insediativo. È ovvio che l'urbanistica così intesa non può essere neutrale: essa fa inevitabilmente della città la rappresentazione fisica della società, dei suoi modi di vita, delle sue leggi evolutive. Ma da questo a riconoscere nell'urbanistica disegni perversi corre una bella differenza.
Stefano Moroni, prendendo atto della complessità ordinamentale italiana e partendo dalla constatazione del meccanicismo delle regole, auspica che, all'interno del loro telaio fitto e mutevole, si cerchi creativamente di contemperare sostenibilità e libertà, quest'ultima interpretata come possibilità di muoversi entro la cornice di un diritto semplice, certo e imparziale.
Ma auspici del genere devono fare i conti con la realtà: da una parte quella delle nostre città e dall'altra quella dell'inadeguatezza degli strumenti di progettazione e gestione. Che al fallimento dell'urbanistica abbiano anche contribuito i suoi "inerziali sostenitori, i professori di urbanistica delle nostre facoltà di architettura"(2) sarà anche vero. Ma non certo per spirito di conservazione; semmai per il sempre più insistente vaniloquio che ha trasformato la ricerca disciplinare in una gara di astrazione e astrusità, nella frequentazione di luoghi comuni con l'uso di un gergo insopportabile, nella divagazione rispetto al tema centrale del rinnovamento e dell'efficacia del progetto di città e della sua attuazione. Da una parte, dunque, una pianificazione inefficace e dall'altra una ricerca priva di concretezza. Tutto questo mentre cresce nell'accademia una generazione di docenti che vola nell'iperuranio per una moralistica norma di legge che vieta ai professori l'esercizio professionale, cioè la sperimentazione, che è il sale della ricerca applicata. Sicché docenti che, si badi bene, non devono formare filosofi o matematici, ma progettisti, devono insegnare a progettare senza poterlo - e quindi spesso saperlo - fare. Essi sono ormai letterati dell'urbanistica e dell'architettura, non più architetti.
È dunque comprensibile lo spocchioso scetticismo che molti mostrano sull'urbanistica. Ma, più che soppressa, l'urbanistica va profondamente riformata nei suoi processi. Sul piano normativo, la fantasia ai livelli statale, regionale e locale non riesce a trovare limiti nell'esperienza: è continua la tendenza ad un'innovazione additiva basata su modelli funzionali immaginati in astratto, con la pretesa di incasellare la realtà entro fitti ed immaginifici telai regolativi.
L'ordinamento "a cascata" Regione-Provincia-Comune della vecchia legge del 1942, ancora in vigore dopo i timidi tentativi di aggiornamento, dispone i piani in una formale sequenza deduttiva secondo la quale il livello sottordinato discende cronologicamente e concettualmente da quello sovraordinato. Nell'esercizio della competenza urbanistica, le Regioni si sono sbizzarrite in una legiferazione complessa e variegata, che costringe a defatiganti elaborazioni e a contorti procedimenti di approvazione dei piani. Le dinamiche di trasformazione dei territori non riescono a trovare riconoscimento nella coerenza di un quadro pianificatorio teoricamente predittivo, in realtà sempre in ritardo: se è aggiornato uno dei livelli di piano saranno antiquati gli altri. E così la pianificazione si è trasformata in un'attività sostanzialmente burocratica nella quale il formalismo mal nasconde una grave lacuna culturale, un'idea vera e concreta di città e di territorio.
Il dimensionamento ragionieristico, che determina popolazione futura e fabbisogno di alloggi e di aree pubbliche col decrepito parametro del 1968 (mq/ab), è ormai alla base di un rito stanco e inefficace. A ciò va aggiunto l'eccessivo numero di piani: a quelli generali si aggiungono i piani di settore, come il Piano di parco, il Piano per l'Assetto idrogeologico, il Piano paesaggistico, il Piano regionale dei trasporti, senza contare i tanti piani specifici di livello comunale.
Il livello di pianificazione più praticato, quello comunale, è regolato dalle leggi regionali, ma la sua approvazione, in genere di competenza provinciale, presuppone la preventiva verifica di conformità ai vari piani di settore già ricordati con pareri e passaggi formalizzati. Anche per questo si spiega la neghittosità di molti Comuni, i quali, nonostante l'obbligo, si accingono malvolentieri all'incombenza del piano e spesso la trascinano sine die(3).
E allora c'è da chiedersi: una volta constatato il bassissimo grado di adeguamento ad un obbligo di legge non sarebbe normale chiarirne i motivi e provvedere attraverso una riforma semplificativa? Continua invece la perversa pratica dell'autoassoluzione, secondo la quale le responsabilità sono sempre degli altri: per la Regione i Comuni sono inadempienti; per i Comuni la Regione detta regole impossibili.
Insomma occorrono semplicità e chiarezza, efficacia ed efficienza. A ciò possono provvedere soltanto, purché in sinergia, i politici e gli addetti ai lavori. E su tale incombenza è inevitabile la divaricazione tra ottimisti e pessimisti.
I beni culturali. Una logica spartitoria concepisce la pianificazione come attività essenzialmente locale e attribuisce allo Stato la tutela dei beni culturali e del paesaggio. Ma il territorio italiano è costellato di centri storici il cui rapporto con montagne, colline, fiumi e laghi è tale da non consentire di separarli da ciò che li circonda. E ogni centro storico non è una somma di edifici singolarmente considerati ma qualcosa di più e di diverso da essa.
Eppure molti insistono nell'interpretare il secondo comma dell'art. 9 della Costituzione (La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione) come attribuzione esclusiva di tale compito allo Stato. La Repubblica è invece articolata in Regioni, Città metropolitane, Province (soppresse solo come entità politiche) e Comuni; il sostantivo repubblica, in senso più lato, può includere l'intero complesso degli enti, delle istituzioni e degli organi che svolgono e regolano le attività e le funzioni di pubblico interesse.
La concezione statalista della tutela beni culturali e del paesaggio, benché risalente alla fase postunitaria, trova la sua espressione sistematica nelle due leggi Bottai del 1939; la prima sulle "Cose di interesse storico e artistico", la seconda sulla "Protezione delle bellezze naturali". Esse rappresentano tuttora il fondamento costitutivo del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio", che sostanzialmente le ha messe insieme condendo il tutto con qualche ammodernamento del concetto di paesaggio, in senso culturale ed evolutivo, desunto dalla Convenzione europea del Paesaggio.
Il centralismo statale viene esercitato attraverso le soprintendenze(4), i c.d. "uffici periferici" di un sistema arcaico, che pretende di concentrare in un ministero con un bilancio sistematicamente inadeguato, nonostante i vantati sforzi recenti, la protezione e spesso la gestione di un patrimonio sterminato.
Nel caso delle soprintendenze per i beni architettonici ed il paesaggio, la loro attività è in gran parte basata su un gioco di rimessa: il cittadino-suddito che intenda eseguire lavori, anche di sola manutenzione, su un edificio o un paesaggio iscritto tra i beni di interesse pubblico ("vincolato") deve chiedere il parere preventivo e restare in attesa dell'oracolo. Quel parere viene rilasciato in base a presupposti inevitabilmente soggettivi, tanto che, sorvolando sulla motivazione di certi dipendenti, si enumerano pareri diversi per casi analoghi e viceversa. Al punto che qualche funzionario più critico e avveduto comincia ormai ad avvertire la mancanza di norme di comportamento ispirate a casistiche consolidate, come avviene per la giurisprudenza in campo giudiziario(5).
In un paese che si attarda nella messa in sicurezza di un territorio colabrodo e nell'adeguamento statico, impiantistico ed energetico di un patrimonio edilizio storico diffusamente degradato è ancora possibile immaginare di procedere chiedendo al ministero il parere per ogni singolo edificio? Non è arrivato il momento di ricorrere a regolamenti che il cittadino debba applicare responsabilmente - letteralmente "rispondendo" di ciò che fa - invece di dipendere dal tutore come un minorenne o un incapace?
E veniamo ai finanziamenti. Il ministero può operare direttamente, in caso di necessità, su beni pubblici o concorrere al finanziamento di opere su beni privati vincolati, ma sempre che siano disponibili le risorse, cioè in un numero insignificante di casi rispetto alle necessità. Da qui ha origine la diatriba che ormai da tempo vede da un lato i difensori del "tutto pubblico" e dall'altro i sostenitori dell'"anche i privati". Il primo partito è schierato all'insegna del pubblico = Stato; Stato = bene; privato = corruzione/speculazione. Il secondo si schiera in difesa di un sistema nel quale la rilevanza pubblica dei beni culturali non escluda la possibilità di un concorso fattivo tra apparati pubblici, cittadini e imprenditori.
Tomaso Montanari, convintamente iscritto al primo partito, nel suo Privati del patrimonio(Einaudi, 2015), paventa, col titolo a doppio senso, rischi e pericoli. Ricordando che l'opportunità/necessità dell'intervento privato nel settore dei beni culturali viene accampata ormai da trent'anni, si chiede se l'avvento dei privati vada visto come un esito infausto ma obbligato o vada considerato come una svolta virtuosa verso la sussidiarietà sancita dall'art. 118 della Costituzione. Sulla prima domanda l'A. non si dà per vinto e si chiede ancora se proprio non ci siano alternative. Sulla seconda domanda pone la questione della "sincerità" dei privati nell'attendere al principio costituzionale della tutela dei beni culturali, sospettando che essi possano perseguire, invece, obiettivi diversi e magari opposti a quelli dello Stato (in realtà, come abbiamo visto, della Repubblica). E poiché i sostenitori dell'apporto privato condividono per lo più una separazione di compiti che attribuisca la tutela alla Repubblica e la valorizzazione ai privati, si chiede ancora, Montanari, se affidarsi ai privati significhi "aprire" il patrimonio a tutti o significhi invece consegnarlo a pochi chiudendolo, in tal modo, ancora di più.
Ovviamente le domande dell'A. sono retoriche. Quanti la pensano in questo modo sono gli assertori di uno Stato padre-padrone, ancora nella scia ideologica di quello Stato etico di matrice idealistica - che opera nel bene e per il bene dei cittadini - all'origine dei regimi che hanno portato alle rovine del secolo scorso. Ed è paradossale, accogliendo l'ipotesi di trasformismo e di ambiguità tra destra e sinistra di Marco Romano su queste pagine(6), che tanti intellettuali che si collocano a sinistra, una volta sostenitori accesi del decentramento e del localismo, siano invece i paladini della concezione statalista che ispirò le due leggi Bottai nel ventennio fascista.
La convinzione di quanti ritengono non solo opportuno ma necessario il concorso dei privati prescinde, in realtà, dalla semplicistica divisione di compiti che attribuisce allo Stato la tutela e ai privati la valorizzazione. A quale delle due categorie apparterrebbe il finanziamento dei lavori di restauro? Sì, proprio quello considerato tra i casi elencati nel recente decreto n. 83/2014, che in tardiva analogia con quanto avviene in altri paesi, ammette un credito d'imposta fino al 65% per donazioni in favore di interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici; musei, siti archeologici, archivi e biblioteche pubblici; teatri pubblici e fondazioni lirico sinfoniche.
C'è da sperare che si tratti soltanto di un primo passo verso la ragionevolezza.
Non c'è da dubitare che le regole debbano essere pubbliche perché pubblica è la rilevanza del patrimonio culturale, ma dove e quando lo Stato avrebbe trovato - e poi speso - i denari per restaurare il Colosseo? E senza il coinvolgimento di una fondazione senza scopo di lucro, ma finanziata da un colosso americano dell'informatica, non languirebbero ancora gli scavi di Ercolano, che sono oggi un gioiello tale da proporsi come modello anche per Pompei?
Il nostro paese sconta, forse in questo campo più che in altri, la scarsa fiducia in se stesso e affonda nel nichilismo dell'eterno sospetto. E' vero, la corruzione dilaga, ma è giusto incolparne solo i privati? E chi è il corrotto o il concussore se il privato ha come interlocutore la pubblica amministrazione? Dunque come si fa, se non per pregiudizio ideologico, ad insistere sul regime pubblicistico e centralizzato dei beni culturali come antidoto alla corruzione e alla speculazione?
Anche qui una conclusione: l'efficienza presuppone l'eliminazione dell'in-cultura del sospetto che è alla base del nostra burocrazia barocca. Occorrono fiducia, libertà e lungimiranza.
Note
1 Si rinvia, tra le più celebri, a quelle di G. Giovannoni, P. Bottoni, L. Piccinato, L. Quaroni, G. Astengo, B. Secchi.
2 Cfr. M. Romano: Urbanistica: ingiustificata protervia, in "Città bene comune", 12.12.2015.
3 Alcune regioni, come la Calabria - caso non unico ma emblematico -, incorporano il confronto con gli enti nella Conferenza di pianificazione, che si svolge sulla base di un preliminare di piano per la discussione secondo la logica partecipativa ormai generalizzata nei processi di decisione pubblica. Ma già pervenire al preliminare è operazione assai faticosa: basta informarsi sul numero di comuni che in quella regione hanno chiuso i lavori della Conferenza, come vuole la legge urbanistica che risale ormai ad oltre tredici anni fa.
4 Vedi F. Verrastro, Nascita e sviluppo delle soprintendenze per il patrimonio storico-artistico (1861-1904), in "Le carte e la storia", a. XIII n. 1, 2007
5 Cfr U. Carughi, Maledetti vincoli, 2013
6 Vedi nota 2
Fonte: casadellacultura.it
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