di Francesca Sironi
Ricercatori in fuga, ricercatori che restano. Ma soprattutto: ricercatori che sgobbano per corsi e lezioni. Il tema dei finanziamenti (scarsi) alla parte piùinnovatrice delle nostre università è tornato sulle prime pagine di tutti i quotidiani, in questi giorni. Si affacciano così storie di chi è emigrato, di chi resiste, di chi si sforza, di chi riesce “comunque” - nonostante tagli, burocrazia, parentopoli – a portare brevetti e invenzioni in Italia.
Ma fra tutte queste voci manca forse, come ha notato Radio Popolare, quella della “massa”. Ovvero quella autentica dei 66.097 (dati Miur 2014) precari dell'università - borsisti, assegnisti, contratto-deterministi, consulenti a tempo stretto – che a guardare i numeri sono diventati di fatto la vera mole di chi sta “dietro la cattedra” negli atenei, visto che insieme i ricercatori di ruolo, i professori ordinari e i docenti associati sono 51.839. Ovvero: meno.
I precari d'ateneo, insomma, sono tantissimi. Ma contano molto poco. A dicembre del 2015 il ministero del Lavoro, interpellato su un emendamento che proponeva di estendere l'indennità di disoccupazione anche agli aspiranti docenti e scienziati dell'università, ha risposto ufficialmente che non si poteva fare, perché l'attività degli assegnisti «è fortemente connotata da una componente formativa».
Non è proprio “lavoro” in senso stretto insomma, ma ancora sviluppo o educazione. E per questo non ha bisogno di supporto. I dati raccolti dal “coordinamento ricercatrici e ricercatori non strutturati” - una rete che si è creata da un anno e si prepara a un'assemblea nazionale a Roma ai primi di marzo - raccontano però tutt'altro.
Solo i mille e duecento contrattisti e collaboratori dell'università, soprattutto trentenni, che hanno risposto a un questionario distribuito dal coordinamento ammucchierebbero infatti mediamente 63mila ore “di lavoro” alla settimana: oltre 30mila dedicate alladidattica frontale, e poi commissioni di esame, perizie, interventi, tesi di laurea da seguire.
«Proprio adesso sto uscendo per tenere un corso alla scuola di dottorato», racconta Barbara Saracino, giovane che si muove fra bandi di ricerca in “Metodologia delle scienze sociali” a Firenze e a Napoli e porta la voce della protesta. Il dottorato nella sua materia lo ha terminato sette anni fa, e da allora, convinta di voler continuare il suo percorso e arrivare ad insegnare in facoltà, ha passato tre anni coperta da assegni di ricerca e gli altri saltando fra accordi a progetto, collaborazioni a tempo, borse private o sostenute da fondi europei.
Nel lungo limbo fra la fine degli studi di dottorato e la speranza di una cattedra, questo esercito di ultraprecari si muove infatti fra borse e assegni (rinnovabili al massimo sei volte), passando spesso per mesi di vuoto. Da cui la proposta di estendere il sussidio almeno a quei periodi. «Ma la nostra non è una richiesta solo “monetaria”. Piuttosto, vorremmo avere almeno un riconoscimento per quello che facciamo quotidianamente», spiega: «La nostra attività non è solo dedicata alla ricerca e al laboratorio, infatti, ma è diventata in buona parte di ciò che serve ai corsi per andare avanti “normalmente”».
Per questo hanno lanciato uno “ sciopero alla rovescia ”, richiamando l'esempio civile di Danilo Dolci, e raccogliendo immagini ed esperienze di ultra-precari della Ricerca in tutta Italia, ritratti sul loro posto di “lavoro” - appunto – con indosso una maglietta rossa che è diventata il simbolo della protesta. Prossima mossa: «Vorremmo scrivere una carta della Ricerca pubblica in Italia», racconta Barbara: «Visto che non arriva dalle istituzioni, proviamo a portare delle proposte concrete noi stessi».
Fonte: L'Espresso online
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