di Leonardo Clausi
Se Atene piange, Sparta non ride. Ed è lecito sospettare che, dopo la dimostrazione di spettacolare disunità offerta dal Labour sulla questione degli armamenti nucleari e dell’intervento militare in Siria, Jeremy Corbyn stia segretamente godendosi la resa dei conti da film splatter che la minacciata uscita della Gran Bretagna dalla Ue sta provocando tra le file dei conservatori. Il volto gonfio di stanchezza e le borse sotto gli occhi di un Cameron stravolto, riunito fino all’alba con le sue controparti europee in negoziati dove si frantumano capelli in quattro soprattutto per placare lo scontento interno al suo partito, proiettano all’esterno l’affettazione di uno stakanovismo sempre sul punto di trasformarsi in un involontario quanto beffardo boomerang.
Corbyn ha liquidato sdegnosamente la performance del primo ministro, definendola più o meno come avanspettacolo. Lo ha fatto in particolare attaccando la misura del tanto dibattuto “freno d’emergenza”, in funzione anti-immigrati da lui considerata pressoché inutile, come del resto tutta la missione di Cameron a Bruxelles, le febbrili colazioni di lavoro che diventano pranzi e poi cene, e il filodrammatico alternarsi di ottimismo e preoccupazione con cui i commentatori seguono gli eventi.
Il suo appoggio formale alla permanenza del paese nel consesso europeo è confermato. Ma è un appoggio tiepido, quasi distratto. Non solo la misura su cui insiste Cameron per escludere i lavoratori immigrati dal resto d’Europa dall’accesso ai sussidi fino al quarto anno di permanenza nel paese non servirà ad arginare il flusso d’ingressi: per Corbyn “Non metterà un centesimo nelle tasche dei lavoratori britannici, come non smetterà di minare i loro salari attraverso lo sfruttamento dei lavoratori migranti.” Si è poi detto contrario ad un altro dei quattro punti su cui Cameron insiste tanto, l’opposizione dura al trasferimento del controllo della City dalla banca d’Inghilterra a Bruxelles, nel nome di una presunta maggiore disciplina del mondo finanziario nella quale forse crede davvero.
In questo senso, pur partendo da assunti diametralmente opposti, le sue critiche non sono troppo dissimili da quelle rivolte al premier all’Ukip: la Cameroneide di Bruxelles è tutta una sciarada che in Gran Bretagna non cambierà minimamente l’equilibrio delle fazioni durante la campagna referendaria, che si pervenga o meno ad un accordo. Solo che per Farage e la destra Tory Cameron si è umiliato davanti ai “burocrati” di Bruxelles, sacrificando la gloriosa sovranità del regno, mentre Corbyn non condivide affatto la trasversalità dell’afflato liberista che accomuna il fronte per la permanenza nell’Ue (che poi è una delle ragioni per cui è stato eletto leader).
Questo perché Corbyn stesso non è mai stato filo-europeista, non ha mai sottoscritto cioè un progetto economicamente neoliberale venduto ai cittadini europei come luminoso e idealistico trascendimento di angusti confini cultural-identitari, nel cui solco il Labour ha iniziato la propria lunga marcia verso la totemica eleggibilità trasformandosi nel frattempo in New Labour.
Fu Neil Kinnock dagli anni Ottanta in poi a vincere il tradizionale insularismo in salsa socialista del partito, un traguardo subito tesaurizzato dall’agenda blairiana che aveva fruttato al New Labour il doppio primato di partito non gravato dai provincialismi tardoimperiali della destra euroscettica e allo stesso tempo aperto agli spiriti animali di un’Europa dinamica e moderna. Ideali che David Cameron, nel suo studio metodico e appassionato della biografia politica di Tony Blair, sta ora cacciando in gola al proprio partito.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.