di Giulia Ragonese
È chiaro a tutti che la vita in Italia sia sempre più precaria e faticosa. Non è un inno al pessimismo opposto all’elogio alla speranza di Matteo Renzi. È piuttosto un’operazione di verità di cui abbiamo bisogno (e di cui soprattutto avrebbe bisogno il governo) per provare a dare delle risposte, ora più che mai, in un momento di grave emergenza economica come questa.
L’indagine Eurispes 2015 ci rivela il volto di un Paese che non cresce, dove il 76% delle famiglie considera la propria condizione economica peggiorata anche quest’ultimo anno; dove il 17% delle persone non arriva a sostenere le spese entro fine mese; dove, ed è un dato davvero allarmante, il 40% dei giovani under 35 sostiene di aver lavorato nel 2015 senza alcun contratto.
I neet, coloro che non studiano e che non lavorano sono, secondo i dati Istat, circa due milioni sotto i 29 anni d’età. Le donne poi, a parità di mansioni, guadagnano meno degli uomini e sempre di più soffrono il mobbing dei datori di lavoro, soprattutto quando si tratta di maternità.
I neet, coloro che non studiano e che non lavorano sono, secondo i dati Istat, circa due milioni sotto i 29 anni d’età. Le donne poi, a parità di mansioni, guadagnano meno degli uomini e sempre di più soffrono il mobbing dei datori di lavoro, soprattutto quando si tratta di maternità.
A fronte di tutto questo, di un’Italia che negli ultimi vent’anni ha assistito alla frammentazione delle vite e al crescere di una precarietà disarmante, grazie a leggi che per nulla hanno pensato alla tutela delle persone, questo governo non ha saputo e voluto dare risposta. Il Jobs Act si è rivelato, come previsto, un buco nell’acqua: non sono sostanzialmente diminuite le oltre quaranta forme contrattuali esistenti ed il contratto a tutele crescenti non garantisce continuità lavorativa. Programmi sbandierati dal Ministro Poletti come occasione per i giovani, vedi appunto “Garanzia Giovani”, non li hanno sostanzialmente aiutati a entrare nel mondo del lavoro. L’utilizzo dei voucher, ovvero i buoni con cui vengono pagate le ore di lavoro a zero diritti, è stato esteso, e dal 2008 è aumentato del 200%, allargando a dismisura la platea dei precari e delle precarie.
D’altro canto il governo Renzi non propone alcun modello di welfare, se non misure a scopo elettorale. In questa prospettiva si configurano interventi come le 80 euro in busta paga, il bonus bebè, la dis-coll che tral’altro lascia esclusi tutti i lavoratori e le lavoratrici nelle università (ricercatori e studiosi, che però è bene sottolineare quanto siano anch’essi “produttivi”). Interventi che non cambiano la vita delle persone, al massimo “gli mettono una pezza”; come accade per i 600.000 euro che il governo ha investito quale contributo al disagio economico, quello che Poletti vorrebbe far passare come reddito minimo, ma che non è altro che un fondo di carità per i più poveri. Lodevole probabilmente, ma ben altra cosa rispetto a permettere alle persone di costruirsi un futuro.
Il punto è proprio questo: come si garantisce, si stimola e si tutela l’autodeterminazione delle persone? La loro autonomia a scegliere il proprio futuro, ad auto-realizzarsi? Insomma, ad essere? Essere donna ad esempio. Ne abbiamo discusso a “Pink Factor, la differenza che cambia la politica” al laboratorio dal titolo “Vita – Lavoro, welfare, reddito”.
Il tessuto sociale con cui siamo chiamati a fare i conti oggi è un magma di lavori/non lavori, flessibili, precari, dove la produttività si confonde con il tempo libero (si pensi all’enorme lavoro di produzione di contenuti che ogni giorno ognuno di noi opera sui social network e da cui ormai attingono le testate giornalistiche), dove casa e ufficio sono spazi interconnessi e chiaramente non basta dire “smart-working” (il lavoro telematico) per analizzarli, dove i lavori autonomi diventano spesso un modo per trovare la via di svolta – finte partite Iva ad esempio – e si confondono con quelli subordinati, un mondo dove l’economia della condivisione si sostituisce ai diritti, quando non diventa anch’essa sfruttamento. Non possiamo discutere di maternità, di indennità di disoccupazione, senza fare i conti con un questo mondo, se non si considera insomma la precarietà non come categoria ma come paradigma di analisi della società. Non può farlo una sinistra che intende parlare alla maggioranza del Paese e indagare le crepe della vita stando vicino agli ultimi, agli esclusi.
Per proporre un nuovo modello di welfare, universale, concreto, è il diritto delle persone di avere un futuro il perno su cui bisogna discutere e per cui bisogna lottare. Dobbiamo fare della possibilità di scegliere la propria strada, e quindi del reddito di autonomia come strumento che lo permette – strumento di liberazione e di autodeterminazione – uno dei temi che meglio descrive la crisi di oggi e su cui è importante dare risposte. È un approccio completamente diverso da qualsiasi forma di welfare e di sussidio economico che non implichi il riscatto delle persone, e su cui dobbiamo segnare la differenza.
In questi anni la sinistra ha fatto importanti passi in avanti in questo senso. In Parlamento c’è una proposta di legge presentata da Sinistra Ecologia Libertà e sulla quale hanno lavorato molte associazioni per lungo tempo raccogliendo oltre 50.000 firme, una delle quali è TILT!, rete di lotta alla precarietà. TILT! si è spesa in questi anni per dare voce ad una nuova interpretazione della realtà, che guardasse ai cambiamenti, alle frammentazioni, ad un mondo che si andava sgretolando ma che ha anche un’importante capacità di re-inventarsi, un mondo resiliente che rivendica diritti. Ora, che è il momento di costruire il domani, va continuato insieme il cammino, approfondito e discusso, sapendo però che non possiamo permetterci alcun arretramento.
Fonte: Commo.org
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