di Sergio Farris
La Grecia classica è stata la culla del concetto di democrazia. Oggi pare che l'Unione europea, così insegna capitolazione del governo greco nel luglio 2015 dinanzi alle richieste delle istituzioni dell'Unione Europea, imponga un modello di rappresentanza che inibisce la partecipazione popolare alle scelte politiche, subordinando queste ultime a decisioni dettate dagli interessi dei rappresentanti di finanza internazionale e grande industria. Ciò avviene tramite l'istituzionalizzazione di una teoria economica la quale trova albergo presso gli uffici studi delle maggiori organizzazioni economiche internazionali, come il Fondo monetario internzionale, la Banca centrale europea, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo.
Le regole economiche alle quali gli organi politici nazionali devono, non senza una certa complicità, soggiacere, sono gli strumenti con i quali le elites finanziarie e industriali promuovono il perseguimento e il mantenimento di un ordine sociale funzionale agli interessi loro propri.
Per cercare di dimostrarlo è opportuno ricostruire per sommi capi il processo che ha condotto alla, tuttora in corso, crisi europea e poi svolgere qualche considerazione circa la sua gestione. Una crisi della quale la Grecia è l'emblema.
Come si sa, il governo greco, investito di un mandato che metteva in discussione le politiche di austerità statuite in vari trattati comunitari, dopo un braccio di ferrro durato alcuni mesi, il 13 luglio 2015 è dovuto capitolare dinanzi alle ferme richieste della “troika” (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale). Tali richieste mettono al centro la continuazione delle politiche di austerità in cambio di nuovi prestiti. Dopo le elezioni della seconda metà del 2015, Tsipras, confermato al governo, si è trovato a dover applicare al popolo greco un nuovo ciclo di misure economiche improntate ai sacrifici. Questi sacrifici, secondo il punto di vista dei fautori dell'austerità, troverebbero giustificazione in una sorta di religiosa espiazione per gli eccessi del passato.
Tuttavia, contrariamente a quanto i più seguiti mezzi di informazione e lo stesso “senso comune” suggeriscono, la tesi secondo la quale l'Unione europea sarebbe divisa fra paesi prodighi e dilapidatori di risorse (Grecia in testa) e paesi morigerati e virtuosi (Germania in testa) non è soddisfacente. Tale percezione è dettata dalla teoria che paesi con un elevato livello di debito pubblico (o con debito pubblico sovrastante una certa soglia) sarebbero condannati a languire nella povertà per i decenni a venire. Occorrerebbe dunque, per evitare tale triste fato, puntare l'attenzione sul risanamento delle finanze pubbliche, concentrando gli interventi di politica economica su misure di austerità (decurtazione dei trattamenti pensionistici, riduzioni salariali, facilità di licenziamento, aumenti di imposte, bilancio dello stato in tendenziale pareggio). Vi sono tuttavia autorevoli studiosi che confutano tale visione, richiamando l'attenzione sul fatto che la crisi dell'Unione Europea deriverebbe piuttosto da un processo di unificazione (creazione di un mercato unico abbinato ad una messa in comune della moneta) privo di solide fondamenta. Stando così le cose, la maggior pecca dell'Unione europea pare piuttosto risiedere in una mancanza di coordinamento fra le politiche dei paesi membri, la quale rimanda a una più generale carenza di solidarietà. In pratica, ogni paese aderente all'unione deve sottostare alla medesime ferree regole in materia di bilancio pubblico, ma, in caso di difficoltà (come un deflusso di capitali), il rischio al quale ogni paese va incontro dinanzi ai mercati finanziari non trova ripartizione fra i paesi membri. Un'unione economica di regioni fra loro diverse (sia per specialità produttive che per condizioni di sviluppo) dovrebbe infatti prevedere un meccanismo di compensazione degli squilibri sotto forma di trasferimenti da un centro “federale” verso le regioni che, a causa di una crisi economica, si venissero a trovare in cattive acque.
Ma perché alcuni paesi, primo fra tutti la Grecia, si sono trovati a un certo punto (nel 2010 e nel 2011) sotto attacco da parte dei mercati finanziari? Secondo la vulgata corrente, perché avrebbero speso troppo, non rispettando le suddette ferree regole di bilancio pubblico. Di conseguenza si sarebbero indebitati eccessivamente. Ma, anche qui, occorre sfrondare il terreno da una visione immediata che rischia di farci scadere in una lettura dei fatti troppo semplicistica. Bisogna anzitutto porre l'accento su quello che è oggi definibile come un vero e proprio arbitrio da parte degli operatori finanziari internazionali (gruppi bancari e fondi di investimento). La deregolamentazione in ambito finanziario che ha caratterizzato gli ultimi decenni consente a un numero anche esiguo di operatori, in grado tuttavia di muovere simultaneamente nel mercato cifre straordinarie, la possibilità di mettere in difficoltà, tramite la speculazione sui titoli di stato, entità quali un paese sovrano. L'accresciuta spesa per interessi che un attacco speculativo provoca, conduce uno stato ad aumenti di imposte e a drastici ridimensionamenti dei servizi pubblici e degli investimenti (i famigerati tagli). A tal punto, l'aggravamento della crisi economica è dietro l'angolo. La stretta fiscale che viene in tal modo indotta, abbatte i redditi in misura maggiore rispetto ai debiti.
Detto ciò, occorre addentrarsi sulle cause specifiche della crisi che ha investito l'Unione Europea. Essa è rinvenibile nei gravi squilibri infracomunitari formatisi nel mercato unico, i quali a loro volta rimandano ad altrettanti rapporti fra paesi creditori e paesi debitori. Questi ultimi paesi, in particolare, alla vigilia della crisi evidenziavano un disavanzo delle rispettive partite correnti (un eccesso di beni acquistati all'estero rispetto all'entità dei beni venduti oltreconfine) e quindi un debito estero soprattutto privato, contratto in gran parte verso i partner dell'unione.
Per enfatizzare il difetto strutturale dell'unione economica e monetaria, è opportuno richiamare un po’ di teoria: secondo l'ortodossia imperante, i mercati dei beni, del lavoro, dei capitali, sono entità che si autoregolamentano pervenendo così ad una situazione di efficienza (ottimale allocazione delle risorse). Lasciando fare i mercati, verrebbe assicurato uno sviluppo equilibrato e duraturo. L'avvento dell'Unione Europea ha così coinciso con la fissazione di regole che pongono l'accento sulla necessità di liberalizzare i mercati. Ciò comporta un notevole restringimento delle politiche discrezionali attuabili da parte delle autorità politiche.
A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, ai singoli paesi sottoscrittori non è stato lasciato altro compito al di fuori del controllo del disavanzo di bilancio, fissato ad un livello massimo nominale (3%) rispetto al prodotto interno lordo, e del debito pubblico. Con l'unificazione della valuta, inoltre, la politica monetaria è stata sottratta alle banche centrali dei singoli stati, per essere demandata ad una banca centrale unica e formalmente indipendente (il cui unico scopo statutario è peraltro, sempre in ossequio alla teoria economica prevalente, il controllo dell'inflazione e non anche lo stimolo dell'occupazione).
Purtroppo, la competizione all'interno del mercato unico ha determinato, come da alcuni temuto, notevoli divari di competitività fra paesi con una certa struttura industriale, come la Germania, e paesi più deboli, come la Grecia. A dieci anni dal varo della moneta unica, la crisi finanziaria internazionale e il prosciugamento della liquidità verso i paesi debitori, hanno messo a nudo gli anzidetti squilibri. Durante il suddetto periodo la Germania ha accumulato consistenti avanzi commerciali a fronte di speculari disavanzi affastellati da parte dei paesi periferici dell'unione, fra cui, ovviamente, la Grecia. I guai e l'innesco del processo speculativo sono perciò derivati da un sistematico eccesso di importazioni sulle esportazioni da parte dei paesi periferici dell'unione, piuttosto che da un eccesso di spesa pubblica (basti dire che paesi quali Spagna e Irlanda, attaccati anch'essi dalla speculazione, presentavano fino all'avvento della crisi del 2008 bassissimi rapporti di debito publico/Pil). Gli investitori finanziari temono, in contingenze simili, un'uscita di uno o più paesi membri dall'unione monetaria, con conseguente svalutazione dei debiti, sia pubblici che privati, e secche perdite di valore dei crediti che a tali debiti corrispondono. Le austere politiche recessive imposte ai paesi in difficoltà sono quindi rivolte a frenare, tramite il contenimento delle importazioni, l'accumulo di deficit verso l'estero di questi paesi e a scongiurare future perdite al settore finanziario privato. Un deterrente alla speculazione sarebbe dato dalla previsione della possibilità di consentire alla Bce l'acquisto dei titoli di stato dei paesi sotto attacco, ma come detto, l'architettura istituzionale dell'unione europea ha scisso l'autorità monetaria dall'autorità politica (divieto di finanziamento della spesa pubblica), investendo la prima del solo compito di garantire la stabilità dei prezzi. L'Unione Europea si è così venuta a trovare senza un usbergo e quindi impreparata davanti all'impazzare della crisi finanziaria del 2008 (una tipica crisi da repentina interruzione dei flussi finanziari verso paesi prima considerati profittabili). Mettere d'accordo tutti gli stati aderenti all'unione al fine di costituire un “fondo salva stati” per arginare la crisi del debito dei paesi periferici è stato un processo lungo e non privo di discordanze, stante la divergenza di interessi fra paesi debitori e paesi creditori (i finanziamenti concessi ai paesi nei guai sono stati comunque condizionati all'attuazione delle cosiddette riforme strutturali, cioè le suddette politiche di austerità).
I rappresentanti della media e grande industria hanno da subito fornito il loro appoggio incondizionato alle politiche di austerità, rivelando una saldatura di interessi con il mondo finanziario. La contrazione dei redditi che l'austerità provoca, conferisce infatti aspettative di una maggiore competitività di prezzo nel mercato internazionale.
Come è riuscita la Germania a piazzare per un lungo periodo i suoi prodotti nei mercati dei partner europei? In due modi: con una spregiudicata politica di contenimento di prezzi e salari interni (accrescendo cioè con una svalutazione interna la sua competitività) e inducendo un crescente indebitamento pubblico e privato, via credito delle banche tedesche, nei paesi periferici. Come detto, con l'integrazione finanziaria (un unico mercato dei capitali), i capitali sono liberi di muoversi verso qualunque paese in cui le aspettative di redditività paiono maggiori. Eliminato il rischio del cambio valutario, i teorici ortodossi, fiduciosi nei segnali del mercato, si attendevano una convergenza delle economie dei paesi deboli verso le prestazioni di quelli più forti. Ciò non si è verificato. I flussi finanziari risultanti dalle riserve bancarie dei paesi “centrali” hanno alimentato piuttosto i debiti esteri, soprattutto privati, dei paesi meno competitivi, che hanno a loro volta alimentato le esportazioni tedesche.
Le colpe della crisi, quindi, andrebbero viste sia dal lato dei debitori che dal lato dei creditori, la cui responsabilità non va sottaciuta (se erogo un prestito a favore di un soggetto debole affinché questi possa acquistare un mio bene, mi assumo il rischio che egli, forse, non potrà ripagarmelo).
Purtroppo, le regole vengono imposte dai più forti (i creditori). Si può osservare anzitutto che ai paesi dell'Unione Europea, nel corso della crisi è stato addirittura chiesto di inserire in costituzione la regola del pareggio di bilancio strutturale, così come previsto dal trattato comunitario del 2012 chiamato “fiscal compact” (l'Italia lo ha fatto). Si può poi rilevare che viene ribadita ed estremizzata la previsione che pone quale unico compito degli stati il contenimento del disavanzo di bilancio pubblico anche in periodi di recessione, fino all'imposizione di un percorso temporale forzato di riduzione del debito. Ciò significa, letteralmente, legare le mani ai governi proprio nelle contingenze che più richiederebbero l'intervento pubblico. Essendo mirate attraverso politiche deflattive alla salvaguardia del valore dei titoli detenuti dagli operatori dei paesi creditori, (l'inflazione, come noto, erode il valore dei crediti e riduce il valore reale dei debiti) e a facilitare le acquisizioni di asset come reti, porti o servizi pubblici, pare proprio trattarsi di regole che vanno incontro agli interessi dei paesi creditori (più precisamente, dei rispettivi ceti dominanti).
La tesi ortodossa secondo la quale bisogna ridare fiducia ai mercati anche in tempi di recessione, che non a caso trova in letteratura economica un buon novero di oppositori, sembra proprio anteporre la inscalfibilità di un vincolo finanziario esterno rispetto all'impiego degli strumenti di politica pubblica volti ad alleviare le difficoltà dei cittadini. Un'impostazione che lascia il campo all'anomia dei mercati e a coloro che dal funzionamento di questi traggono vantaggio. Si noti il ribaltamento del processo logico: anziché permettere ai governi di procurarsi le risorse finalizzate alla cura dei propri cittadini tramite la banca centrale, si lasciano i governi in balia dei mercati dominati dai finanziatori privati, assumendo che il merito di credito che questi ultimi possono a seconda delle circostanze attribuire, vada anteposto a qualsiasi altro valore etico-sociale. Per dirla con il penultimo ministro delle finanze greco Varoufakis: “Aristotele definiva la democrazia come il sistema di potere in cui i poveri, che sono la maggioranza, governano. Per custodire la democrazia bisogna insistere sul punto che, le decisioni riguardanti le vite della maggioranza vengano assunte dai rappresentati di questa nei suoi interessi, senza piegarsi alle direttive dei pochi potentati che controllano la maggior parte delle risorse materiali”. Una presa di posizione che ricorda molto la celebre frase del sofista Trasimaco: “la giustizia è l'utile del più forte”.
La resa del governo greco del luglio 2015 davanti alle istituzioni dell'Unione Europea rappresenta senz'altro un'occasione mancata per mettere al centro del dibattito pubblico il tema di una riforma della governance comunitaria. L'Unione europea ha dimostrato la sua irriformabilità e la sua spocchia. E accentua i già tanti dubbi circa la sua natura democratica.
Riferimenti:
L. Pandolfi: oltre il sogno, l’Europa possibile
J.E. Stiglitz: can the euro be saved? Lecture del 07/05/2014 Università Luiss, Roma
P.Krugman: end this crisis now!
L.Bini Smaghi: morire di austerità
E. Brancaccio-M.Passarella: l'austerità è di destra
J.P. Fitoussi: l'Europa, una bambina in economia, un'orfana della politica
P. DeGrawe: who rules the euro? Festival dell'economia, Trento 2014
A.Baranes: dobbiamo restituire fiducia ai mercati
Y. Varoufakis: intervista al corriere della sera, 20/09/2015
M. Pivetti-S.Cesaratto: oltre l'austerità
Anticipazione dal Granello di Sabbia n. 23 di Gennaio-Febbraio 2016 "Verso una Nuova Finanza Pubblica e Sociale: Comune per Comune, riprendiamo quel che ci appartiene!" di prossima pubblicazione.
Fonte: Attac Italia
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