di Andrea Zhok
Nei giorni scorsi è assurto agli onori della cronaca uno sfogo su Facebook da parte della ricercatrice Roberta D’Alessandro. Il post è stato ampiamente discusso in rete e la dott.ssa D’Alessandro ha avuto anche modo di correggere alcune impressioni iniziali che il suo post poteva dare, dunque non ne riparleremo oltre. Tuttavia, suo malgrado, lo sfogo della D’Alessandro ha innescato alcune discussioni che oramai si accendono come riflessi condizionati nel dibattito pubblico italiano.
Queste discussioni gravitano intorno ad una serie di luoghi comuni, che come tutti i luoghi comuni hanno un fondo di verità, pur rimanendo fuorvianti.
Possiamo riassumere il quadro sinottico di questi luoghi comuni nella seguente proposizione (d’ora in poi nominata come tesi C; C come corruzione):
Possiamo riassumere il quadro sinottico di questi luoghi comuni nella seguente proposizione (d’ora in poi nominata come tesi C; C come corruzione):
Tesi C:
«L’Italia viene abbandonata dalle sue menti migliori (‘cervelli in fuga’) perché l’università, gestita da baroni corrotti, respinge i migliori per tenersi i raccomandati.»
Incidentalmente questa tesi, con le sue innumerevoli variazioni, è stata adoperata come una clava negli ultimi anni per giustificare davanti all’opinione pubblica (o almeno a quella poca opinione pubblica interessata a tali vicende) il progressivo strangolamento economico dell’università italiana.
Proviamo, brevemente a gettare un po’ di chiarezza su questo quadro.
Partiamo dalla questione dei ‘cervelli in fuga’. Come è stato osservato più volte, ciò che è atipico nella mobilità dei ricercatori in Italia non è la percentuale dei ricercatori italiani che trovano impiego all’estero. Questo flusso rientra nella media, ed è anzi di poco inferiore. Ciò che è totalmente inusuale per gli standard dei paesi avanzati è la pressoché totale assenza di ricercatori che si muovono in senso opposto, insediandosi a lavorare in Italia. Ciò suggerirebbe l’opportunità di chiedere non tanto a chi se n’è andato perché lo ha fatto, quanto piuttosto di indagare perché quasi nessuno prende la strada opposta. Soffermarsi sui primi casi, naturalmente, nutre un immaginario molto italiano legato all’abbandono del focolare, della pizza, della pasta e della mamma, e si presta mirabilmente ad un utilizzo aneddotico da parte dei giornali, ma contribuisce ben poco a chiarire la sostanza del problema.
Ora, se la Tesi C fotografasse la realtà, le conseguenze di un tale sistema dovrebbero essere ovvie: se le menti migliori vengono respinte a favore di una selezione di amanti, parenti e portaborse, l’esito di tale processo sarebbe ovviamente fatale: la didattica e la ricerca italiane dovrebbero essere colate a picco da lungo tempo ed inesorabilmente.
Curiosamente le cose non sembrano stare così. Sul piano della didattica il fatto stesso che migliaia di ricercatori formatisi nelle università italiane trovino poi posto in dipartimenti europei e nordamericani è un indice affidabile del fatto che la preparazione fornita è quantomeno competitiva con i migliori standard internazionali. E sul piano della ricerca i dati disponibili dicono che la produttività della ricerca italiana è tra le più alte al mondo (insieme a UK e Canada), laddove per produttività si intende il rapporto tra risorse disponibili e rendimento di quelle risorse (in termini di numero di pubblicazioni e di loro impatto internazionale). E se si guarda specificamente alla produttività media procapite (per singolo ricercatore) emerge come l’Italia detenga addirittura con distacco il primato qualitativo. (Fonte: indagine Elsevier, riportata su Nature vol. 504, Issue 7479). Naturalmente produttività non è la stessa cosa di produzione e se guardiamo alla produzione complessiva del paese, non in rapporto alla spesa ma alla popolazione, l’Italia crolla agli ultimi posti in Europa: infatti il numero dei ricercatori in Italia è massicciamente inferiore ai suoi ‘competitors’ con PIL e popolazione comparabile (meno della metà di Francia e UK, un terzo della Germania).
Ma allora, qual è dunque il mistero che qui si cela? Possibile che dopo che questo sistema corrotto ha messo da decenni in cattedra amanti, portaborse e lacché, questi rivelino infine insospettati talenti scientifici?
Per quello che conta l’esperienza personale, che naturalmente è una campionatura circoscritta e limitata, se dovessi valutare da quello che ho visto in un po’ di dipartimenti europei (UK, Austria, Germania, Francia, Olanda) la qualità dello staff di insegnamento italiano è quasi indistinguibile dai migliori esteri. Lo è quanto alla presenza di ‘star’ e lo è quanto al blocco centrale dei ricercatori e docenti attivi. Dove si distingue in peggio (anche se, va detto, si tratta di una situazione in marcato regresso) è la presenza marginale, ma talvolta imbarazzante, di una minoranza di inattivi totali: persone che mai avrebbero dovuto entrare nel sistema, che vi sono entrate per grazia ricevuta e che una volta entrati hanno piazzato le tende, contribuendo solo all’occupazione fisica degli spazi. Si tratta di un’esigua (e residuale) minoranza che tuttavia rappresenta il reale pegno pagato a quanto di vero c’è nella Tesi C: talvolta davvero baroni corrotti sono riusciti a far passare nel sistema amanti, parenti e portaborse per le loro esclusive virtù di amanti, parenti e portaborse.
Ora, però, se il quadro complessivo non è qualitativamente affatto così deprecabile, possibile che tutti i resoconti rabbiosi nei confronti del sistema selettivo italiano siano campati in aria? Possibile che tutti coloro che non sono entrati nel sistema universitario italiano, trovando invece accoglienza presso istituzioni estere, si sbaglino quando danno voce al loro risentimento per essere stati immotivatamente esclusi? Anche questo è altamente improbabile. Qual è dunque la verità?
La verità, come sempre, è un po’ più complessa dei quadri di comodo. Per capirne qualcosa è importante partire da un punto fondamentale: in senso comparativo l’intero sistema educativo italiano, e nello specifico il sistema dell’educazione terziaria e della ricerca, non è sottofinanziato solo dall’inizio della crisi finanziaria (comunque: grazie Tremonti, sei sempre nei nostri cuori), ma lo è da quando esiste la Repubblica italiana. Il fatto che oggi la spesa italiana per l’università oscilli tra l’ultimo e il penultimo posto tra i paesi OCSE non è il solo frutto di una svolta negativa a partire dal 2008 (svolta che pure c’è stata), ma è il frutto di una tendenza di lungo periodo. Il sottofinanziamento si è poi sempre combinato con un certo grado di sciatteria nel formulare le regole per il funzionamento della selezione e del reclutamento, producendo distorsioni strutturali che vengono interpretate in modo abbastanza fuorviante parlando di ‘corruzione’, ‘mafia’ e simili.
Per rendere più concreto il quadro presento due casi modello che sintetizzano in modo paradigmatico processi di selezione e reclutamento passati, ma che sono durati per molto tempo. Si tratta di casi modello, non episodi con una data, perché sintetizzano diverse istanze passate di cui ho contezza.
Caso I. Per un lungo periodo, soprattutto nei settori umanistici, il primo e più brusco collo di bottiglia per l’ingresso nell’ambito della ricerca universitaria era rappresentato dall’accesso al dottorato di ricerca. Diversamente dalla maggior parte degli altri paesi, dove al dottorato ci si iscrive come ad una prosecuzione degli studi precedenti, il dottorato italiano, dalla sua istituzione nel 1980, è sempre stato un dottorato con un numero chiuso molto ristretto. Per molto tempo tutte le posizioni in concorso davano diritto ad una borsa di studio, che rendeva dunque il dottorato a tutti gli effetti un primo passo nella carriera di ricercatore. In occasione dei bandi in aree umanistiche (dove lo sbocco universitario è di norma il più ambito) si avevano esami di dottorato con un normale rapporto di selezione di 1/60. Ricordo esami di dottorato con più di 200 iscritti per 3 posizioni. La commissione, composta di 3 persone, doveva correggere gli scritti in 24 ore. In teoria la correzione doveva svolgersi collegialmente, ma per stare dentro i tempi, i temi venivano normalmente divisi tra i tre membri della commissione. Ma anche così valutare decine di scritti in poche ore non consentiva certo una disamina approfondita; ciò che di fatto accadeva è che ciascun membro della commissione dava una letta alla pagina iniziale dello scritto o poco più, compilando poi una short list di massima da proporre agli altri. In questo modo nascevano le selezioni per gli orali, in cui aveva già luogo un drastico abbattimento dei candidati. (Per inciso, molti tra i più brillanti docenti delle nostre attuali università si sono visti ripetutamente bocciare in tali selezioni.) Vista l’elevata probabilità di fallimento, si presentavano spesso per l’accesso al dottorato candidati laureati da anni, che avevano già all’attivo diverse pubblicazioni, quando non addirittura monografie. All’orale, la cernita, anche quando fatta in scienza e coscienza, aveva già prodotto una selezione con un congruo grado di casualità (se il proprio tema era corretto da un membro della commissione con interessi difformi il candidato era spacciato a prescindere). Nonostante questo grado di arbitrio, all’orale giungeva una scelta di persone che con rare eccezioni, erano tutte qualificate per l’accesso al dottorato. A quel punto ‘conoscenze personali’ e ‘raccomandazioni’ giocavano un ruolo spesso decisivo: considerando che il colloquio non aveva carattere d’esame e si trattava di scartare comunque alcuni candidati validi, se il candidato conosceva incidentalmente un membro della commissione o se un suo mentore (di solito relatore della tesi) poteva segnalarne il nome alla commissione stessa, ciò risultava spesso decisivo. Bisogna trarne una lezione circa la scorrettezza mafiosa delle selezioni? È certo che la selezione prometteva di essere qualcosa che non era: ambiva ad essere un esame strettamente meritocratico e rigoroso, ma non era concepito per poter essere tale. Prometteva una cernita attenta delle capacità, ma poi vuoi per i tempi di correzione, vuoi per la strutturazione della commissione, vuoi per il destino cinico e baro, diventava qualcosa di diverso: un sistema di selezione sommaria, cui poi si sommava un sistema di cooptazione a base personale. Il peggior difetto di questo sistema non stava nel fatto che la cooptazione fosse determinante (la cooptazione è decisiva più o meno in ogni sistema accademico), ma che non si presentasse come tale, deresponsabilizzando chi di fatto operava la scelta. Ciò detto, i selezionati erano raramente degli asini, e dunque in certo modo il sistema ‘funzionava’: si trattava di un sistema confuso, in parte casuale, in parte meritocratico, e in parte cooptativo. Naturalmente gente validissima poteva vedersi sbattere le porte in faccia ripetutamente, fino a scoraggiarsi ed abbandonare.
Caso II. Un secondo caso archetipico delle vicissitudini del reclutamento, riferito al settore delle hard sciences, aveva la seguente forma. Il ricercatore X, dopo essersi fatto valere all’estero, gestendo un laboratorio con fondi ingenti, e pubblicando articoli importanti, concepiva l’idea di rientrare in Italia. Cogliendo l’occasione di un raro concorso nel proprio settore, vi si iscriveva. Ad iscrizione avvenuta gli giungeva una telefonata (o altra comunicazione) da parte di un membro della commissione, o da altra persona influente, che gli spiegava cortesemente la situazione. Per quel posto messo a concorso c’era già una fila di candidati italiani. Questi candidati lavoravano da anni, spesso gratuitamente o quasi, con laboratori fatiscenti, pubblicando perciò con molta fatica. Al nostro brillante ricercatore all’estero X veniva fatto presente che, presentandosi, avrebbe messo la commissione in seria difficoltà, perché per non farlo vincere sarebbe stato necessario formulare valutazioni forzate, che rischiavano di essere impugnabili. Si giungeva così alla preghiera-minaccia di non presentarsi (con il sottotesto, che se mai dovesse vincere, entrerà in un dipartimento dove verrà guardato con odio). Incidentalmente, che a X potesse venir concesso di vincere era fuori discussione, perché se così fosse accaduto le conseguenze sarebbero state catastrofiche per l’intero sistema. Infatti il sistema si fondava (e si fonda) sul fatto che (per le usuali carenze di fondi) una schiera di persone lavorava per anni, e continua a lavorare, andando avanti a pane e speranza. Senza il loro contributo ‘volontario’ il sistema sarebbe andato in pezzi. E a farli andare avanti era la promessa che il loro contributo sarebbe stato riconosciuto. Se il primo ricercatore brillante di passaggio poteva saltare la fila e rompere questo sistema di ‘indebitamento morale’, ovviamente il sistema intero sarebbe saltato.
Oggi tuttavia, grazie ad alcune riforme, tra cui la Legge 240/2010, casi che ricalchino esattamente le due situazioni di cui sopra non si danno o solo marginalmente. Ma lo spirito del sistema e i suoi vincoli di fondo non sono molto diversi. Parlare di ‘mafia’, ‘corruzione’ e ‘baronie’ qui significa colpire il bersaglio di striscio, rendendolo incomprensibile. La ‘questione morale’, la tradizionale tendenza a ‘flettere’ le regole, tipica del Belpaese, è solo una delle componenti e non la più importante. I fattori essenziali del malfunzionamento sono e rimangono due: la perenne mancanza di risorse e un’implementazione tecnicamente approssimativa di regole in linea di principio nobilissime. All’incrocio tra poche risorse e regole di funzionamento claudicanti il sistema obbligava galantuomini, lestofanti, e tutto quel che sta nel mezzo, alla collaborazione. Un sistema in perenne emergenza, con risorse scarse, finestre concorsuali rapsodiche, criteri di selezione vaghi e inefficienti, e fortemente verticistico nelle scelte, finisce per dare un potere spropositato ai giudizi insindacabili di persone che occupano il proprio tempo più nella tessitura di relazioni che nella sostanza della ricerca e della didattica.
Ma per andare oltre all’usuale lamentazione sulle occasioni perdute, è importante sottolineare, che alcuni piccoli passi nella direzione di una soluzione di questi problemi sono stati tentati.
a) Il sistema dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), se funzionante, dovrebbe garantire l’esclusione futura dal sistema di quella relativamente esigua ma imbarazzante minoranza di inattivi e incapaci, che mai avrebbero dovuto entrare, e che tuttavia di quando in quando sono entrati. Consentendo di accedere ai concorsi solo a coloro i quali hanno un accettabile livello scientifico e produttivo, il sistema potrebbe risolvere alla radice quel problema. (E, per inciso, non dovrebbe pensare di risolverne altri, perché non è un sistema attrezzato per ‘scovare l’eccellenza’, ma solo, nel migliore dei casi, per escludere le evidenti subottimalità).
Ad ogni modo l’ASN non sta funzionando e a non farlo funzionare, non è la proverbiale nequizia degli accademici italiani, ma l’usuale approssimazione della nostra classe dirigente. Infatti il sistema dell’ASN non è mai entrato a regime, facendo svolgere 2 sole sessioni di contro alle 5 che avrebbero dovuto svolgersi (la terza sessione ha già subito quattro rinvii). Inoltre i criteri che dovrebbero consentire l’abilitazione sono risultati per molti settori confusi, arbitrari fino al ridicolo e, comunque costantemente mobili, così che nessuno può essere in grado di programmare fiduciosamente il proprio lavoro, le proprie pubblicazioni e attività. Quando i media nazionali cercano di spiegare l’assenza di ingressi stranieri nel sistema dovrebbero forse concentrare l’attenzione su prosaiche disfunzioni di questo tipo, prima di rincorrere commoventi biografie di valenti studiosi emigrati all’estero.
b) Anche l’avvenuta adozione del modello della valutazione ex-post dei dipartimenti potrebbe rappresentare un momento di decisiva rottura con problemi del passato: infatti, premiando dipartimenti che fanno scelte di qualità nel reclutamento, si può rompere la forzata collaborazione tra galantuomini e meno galantuomini, spingendo con la leva del ritorno ai dipartimenti a scelte qualitativamente ponderate. Ma, di nuovo, tutto ciò è destinato a rimanere sulla carta senza un’implementazione all’altezza della intenzioni. Il sistema è virtuoso se e nella misura in cui i ‘criteri premiali’ sono scelti con oculatezza, dunque se e nella misura in cui produzione scientifica e qualità della didattica vengono giudicate in maniera adeguata. Se invece, come ora accade, nei ‘criteri premiali’ entrano, per dire, istanze demenziali come la minimizzazione degli studenti fuori corso, è ovvio che la valutazione, lungi dall’introdurre incentivi al miglioramento, può risultare catastrofica. (Va da sé, che per soddisfare un criterio come la riduzione degli studenti fuori corso la strada più semplice è un abbassamento degli standard di valutazione.)
c) Infine una parola sulla ricerca. In questi giorni i giornali si sono riempiti la bocca con il riferimento ai mitici finanziamenti delloEuropean Research Council (ERC), assunti come modello di finanziamento virtuoso della ricerca. Come al solito le classi dirigenti del nostro paese, invece che faticare a pensare ai noiosi particolari di come far funzionare il sistema (che sarebbe il loro mestiere), preferiscono brandeggiare, ad uso dei media, le virtù dell’eroismo individuale, del genio italico, (nonché una certa fiducia nei miracoli). Naturalmente tale sbracata approssimazione, che fa tanta simpatia quando compare in una commedia all’italiana, ne fa molto meno quando alimenta la perenne pretesa di fare nozze di gala coi fichi secchi. Formulare e addirittura vincere un progetto ERC non è il frutto di un’estemporanea genialata della proverbiale fantasia italica. Richiede un sacco di lavoro personale dei proponenti (necessariamente sottratto o alla didattica o alla ricerca), richiede un competente supporto tecnico-amministrativo, richiede di poter segnalare la disponibilità, nell’istituzione destinata ad ospitare la ricerca, delle infrastrutture adeguate (laboratori efficienti, biblioteche aggiornate, ecc.), richiede incidentalmente anche la menzione di aver già maneggiato in passato fondi di ricerca significativi, ecc. Per il medio ricercatore del Belpaese, sotto queste condizioni, le possibilità di vittoria sono infime (e la media internazionale di successi è comunque solo dell’1-3%), a fronte della certezza di sottrarre molto tempo ad attività accademicamente fruttifere. La vera domanda sotto queste condizioni è come sia possibile che ben 13 su 30 vincitori italiani di fondi ERC siano accademicamente residenti in Italia.
Un’ultima notazione in appendice, relativamente alla menzione di questi ponderosi fondi di ricerca. Dev’essere chiaro che fondi del genere, dell’entità di milioni di euro, possono rappresentare soltanto la panna montata sulla torta di un finanziamento capillare della ricerca. Si tratta di un’aggiunta straordinaria per progetti di ricerca di particolare ambizione e che richiedono particolare spesa. Questa non è, e non può essere, la forma normale del finanziamento della ricerca. La maggior parte dell’attività di ricerca, dalla matematica alla filosofia, dal diritto alla storia, e in generale tutta la ricerca che non abbisogna di attrezzature dispendiose e di lavoro di equipe, non richiede fondi di ricerca ingenti e concentrati, ma modesti e diffusi. Tali fondi sono invece concepiti sin dall’inizio avendo in mente un modello molto specifico di ricerca (camici bianchi che maneggiano pensosamente macchinari di mistica complessità). E va benissimo che tali fondi esistano e siano disponibili per tali ricerche. Ma prenderli a modello di ciò che dovrebbe essere il processo ordinario della ricerca, come in questi giorni viene fatto trasparire, è profondamente sbagliato, e corre il rischio di introdurre l’ennesima sciatta distorsione nel nostro martoriato sistema.
Fonte: Scenari Mimesis
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