di Intermittenti della Ricerca
Si potrebbe continuare all'infinito la polemica, tra botta e risposta, mea culpa personali, consigli alla generazione perduta, ma non crediamo che questo cambierebbe la situazione per nessuno: per i ricercatori, per Roberta, per i giornalisti, per la società nel suo complesso.
Se c'è qualcosa che abbiamo imparato nelle nostre composite biografie politiche, umane, professionali e affettive è che non si può e non si deve guardare solo con i propri occhi personali, che il campo dell'analisi deve essere sempre allargato, che le soluzioni non sono né uniche né tantomeno univoche e che soprattutto la risposta e la via d'uscita per essere efficace deve essere sempre collettiva...
E questo, forse, Roberta non l'ha fatto, è vero, ma non bisogna certo biasimarla: si è difesa con le unghie dallo sciacallaggio mediatico del solito ministro di turno, con la pancia, con il livore dei suo sforzi personali dei calici amari ingoiati (come dice il giornalista). Non ha risposto però vedendo il quadro generale e ricercando ed esigendo una risposta collettiva, ampia. È vero ed è chiaro ai più che il mondo universitario è marcio anche a causa di quel sistema "informale" di cooptazione che ancora funziona e la fa da padrone negli atenei in Italia, foraggiato da un gran numero di docenti che sono rimasti silenti mentre negli ultimi vent'anni si trasformava il sistema universitario nazionale attraverso la scure dei tagli ai finanziamenti e la retorica della meritocrazia. Classe docente che è la prima responsabile dello smantellamento dell'Università pubblica non avendo opposto nessun tipo di resistenza alle "riforme" imposte dai governi che si sono succeduti negli ultimi vent'anni (tranne qualche rara eccezione che conferma, appunto, la regola). Anzi, per prendersi le briciole, hanno perfino ricattato chi invece non si rendeva disponibile a svolgere mansioni non previste nel proprio contratto.
Tuttavia, oltre al corporativismo della classe "dirigente" accademica, la ricerca in Italia è al collasso. Anche, anzi soprattutto, per i tagli draconiani e per politiche neoliberali che stanno trasformando le università, non solo italiane, in luoghi in cui non si bada più alla qualità della ricerca e al suo impatto sociale, ma agli indicatori bibliometrici, al profitto immediato delle aziende che ormai orientano (senza quasi nessun onere) le ricerche dei dipartimenti e alla mera riproduzione di un sistema di potere che distribuisce denari e privilegi. Uno dei problemi maggiori della ricerca in Italia è la mancanza di innovazione dovuta, tra le altre cose, all'età molto alta dei docenti (causa blocco quasi decennale del turn-over) e ai tentativi di eliminare molte discipline non facilmente spendibili nel mercato del lavoro della conoscenza.
Rispondere in maniera organizzata e collettiva a questo attacco definitivo portato all'Università pubblica, come invocato dal giornalista (facile da fuori, vero?), non è affatto facile. Ma è ancora più difficile muoversi in solitudine, rispondere alle ingiustizie da soli e liberarsi individualmente dal ricatto dei baroni e dalla precarietà. Una frammentazione delle figure precarie che attraversano l'Università è stata fortemente accentuata dall'introduzione delle nuove regole "valutative". Infatti, a dispetto della natura puramente cooperativa della ricerca, il dispositivo della valutazione che dovrebbe premiare il "merito" e far emergere le "eccellenze" mette tutti contro tutti in una gara in cui alla fine tutti siamo sconfitti. I diritti diventano, infatti, premi riservati ai pochi, pochissimi vincitori di questa selezione darwiniana che nel frattempo, però, produce autosfruttamento, lavoro gratuito e completa distruzione di quella che una volta si chiamava "appartenenza di classe". Per fugare ogni dubbio e prevenire facili critiche e strumentalizzazioni riguardo ad un nostro rifiuto pregiudiziale della valutazione, specifichiamo che noi non siamo contro la valutazione, ma contro questa valutazione imposta dall'alto, con finalità punitive, che sta mettendo in pratica un vero e proprio laboratorio di ingegneria sociale, mutando antropologicamente le figure che attraversano e lavorano in Università.
Di fronte a questa situazione, il problema non è se si ha torto o ragione nell'andare a fare ricerca all'estero. Non è un problema di chi scappa o chi resta. Né tantomeno bisogna cadere nella retorica che l'estero sia la panacea di tutti i mali, che lì esiste il paradiso per i ricercatori. Non è così: le logiche meritocratiche e neoliberali, quelle che ammazzano la diffusione e la cooperazione dei saperi, sono nate proprio in quei paesi che oggi ci sembrano il Bengodi (basti pensare all'Inghilterra, dove le Università di Serie A e Serie Z sono ormai una realtà, dove gli studenti che pagano 9.000 sterline l'anno (!) sono considerati, a ragione, dei clienti da soddisfare, dove la parcellizzazione del sapere ha raggiunto i livelli più alti e preoccupanti).
Il punto è che fare ora, come ricostruire, dopo il 2008 e il 2010, un movimento di massa nelle Università capace di coagulare al proprio interno tutte le componenti accademiche, dagli studenti, ai ricercatori precari fino a quella minoranza di docenti che ancora si chiede che senso ha il proprio lavoro oltre lo stipendio a fine mese (o agli scatti stipendiali, come se il recupero di questi ultimi fosse il male dell'Università del 2016). Quello che tutti noi dovremmo fare, e stiamo faticosamente tentando di fare, è ricucire il tessuto disperso delle varie figure del mondo della formazione, fuori da particolarismi e corporativismi di sorta, per porre assieme il problema complessivo di che cosa voglia dire fare cultura e ricerca in questo paese, e di quali siano le condizioni minime per farlo. Occorre trovare delle forme di mobilitazione che coinvolgano tutti, perché tutti assieme siamo parti in causa di una guerra che ci viene condotta contro, spietata come il ricatto della precarietà che subiamo, subdola come le costruzioni retoriche che ci vengono cucite addosso. È a partire dal riconoscersi in una condizione comune e in un comune desiderio di rivalsa che potremmo, forse, riprenderci le strade e le piazze di questo paese, conquistare i diritti che ci spettano e costruire un altro modo di produrre e trasmettere sapere.
Fonte: dinamopress.it
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