di Andrea Fumagalli
C’è qualcosa di reiteratamente perverso nelle decisioni in materia di lavoro e sicurezza sociale che accomuna i provvedimenti del governo Renzi: si annunciano interventi a favore di alcuni obiettivi del tutto condivisibili ma si utilizzano strumenti che, a un’analisi più attenta, rischiano di produrre l’esatto contrario.
Così è stato per il Jobs Act, sbandierato come lo strumento migliore per garantire occupazione, duratura e certa per combattere la precarietà. In realtà, il connubio fra la «totale liberalizzazione del ricorso al contratto a tempo determinato (reso acausale)» e l’introduzione del «contratto di lavoro (denominato a tempo indeterminato) a tutele crescenti», in sinergia con la possibilità di licenziare a livello individuale anche senza giusta causa e a un costo irrisorio (soprattutto rispetto agli incentivi fiscali per la sua adozione), produce l’effetto di istituzionalizzare la precarietà come condizione tipica del rapporto di lavoro.
Di fronte alla possibilità di essere licenziate/i liberamente entro i primi tre anni e successivamente per motivi economici come previsto dalla Legge Fornero, il contratto a tempo indeterminato si depotenzia del tutto e si precarizza, di fatto sparendo dall’ordinamento giuslavorista italiano.
Di fronte alla possibilità di essere licenziate/i liberamente entro i primi tre anni e successivamente per motivi economici come previsto dalla Legge Fornero, il contratto a tempo indeterminato si depotenzia del tutto e si precarizza, di fatto sparendo dall’ordinamento giuslavorista italiano.
Cosi pure per il Decreto di legge sul Lavoro autonomo, proposto dal Consiglio dei Ministri dello scorso 28 gennaio, nel quale di fronte al riconoscimento (meglio tardi che mai!) che esiste il lavoro autonomo, a fronte di alcuni interventi scontati in materia di maternità e di formazione, si glissa sulle questioni centrali: la fissazione di un compenso minimo, l’equità fiscale e previdenziale e la necessità di interventi sulla continuità di reddito. L’effetto è ancora una volta una semplice operazione di facciata, che lascia del tutto irrisolti i veri problemi.
Con il DdL Poletti sulla povertà, approvato lo stesso giorno, si supera però ogni primato.
Il BIN ha sempre sostenuto che per parlare di reddito di base (seppur minimo) è necessario che vengano rispettati determinati requisiti: individualità, residenza, massimo livello di incondizionatezza possibile (es. congruità della proposta di lavoro), onere a carico della fiscalità generale grazie alla separazione tra assistenza e previdenza, un livello non inferiore alla soglia di povertà relativa e definito non in termini assoluti ma relativi – per giungere a un’armonizzazione dei variegati e distorti ammortizzatori sociali oggi esistenti.
La misura di Poletti è l’esatto contrario, tranne per il fatto di essere finanziata dalla fiscalità generale (per un budget ridicolo di 600 milioni di euro). È di natura familiare, viene data solo a chi gode dei diritti di cittadinanza, è fortemente condizionata a obblighi comportamentali e lavorativo-formativi, e presenta un ammontare risibile in termini assoluti (320 euro mensili a famiglia, quindi a livello individuale ben inferiore alla soglia di povertà assoluta, nonostante le intenzioni dichiarate: meno di un’elemosina). Inoltre, non può in ogni caso soddisfare le esigenze di tute le famiglie che si trovano in condizioni di indigenza assoluta (circa 1,2 milioni in Italia). Infatti solo poco più del 20% potranno accedervi: quelle che presentano un reddito familiare lordo ISEE inferiore ai 3000 euro l’anno!
Nella realtà, dunque, questa misura non contrasta la povertà in Italia, non intaccando in alcun modo le sue ragioni. A parte la sua natura propagandistica e di facciata, essa ha anche il compito di ottemperare, almeno formalmente, alle disposizioni europee in materia di lotta alla povertà: visto che per tale lacuna l’Italia è già stata più volte sanzionata e richiamata dall’Europa.
Ma forse vi è anche un’altra possibile motivazione, più strettamente politica: una volta approvata, la nuova legge svolgerebbe il compito di rendere inutile e superflua la discussione parlamentare relativa ai due progetti di legge sul reddito di base (Cinque Stelle e SEL-Società civile) che da due anni giacciono negli ammuffiti scaffali del parlamento. Di fatto il DdL Poletti/Renzi non è contro la povertà ma contro ogni proposta di reddito minimo garantito.
Fonte: Alfabeta2
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