di Leonardo Clausi
È diventato ufficialmente sindaco con il 56,8% dei consensi, con un totale di 1.310.143 voti, con questi numeri Sadiq Khan non può che ringraziare. «Grazie Londra. Londra è la più grande città del mondo. Sono profondamente onorato della fiducia che avete risposto in me», ha esordito nel discorso d’insediamento a City Hall, il Municipio della capitale. «Sono nato a poche miglia da qui, in una casa popolare. Allora non avrei mai sognato che uno come me potesse essere eletto sindaco di Londra. E voglio ringraziare ogni singolo londinese per aver reso possibile, oggi, l’impossibile, voglio che ogni singolo londinese goda delle opportunità di cui abbiamo goduto io e la mia famiglia: l’opportunità non soltanto di sopravvivere, ma di prosperare, di costruire un futuro migliore per voi e le vostre famiglie, in una casa decente a un prezzo accessibile, con un trasporto pubblico comodo e alla vostra portata, più impieghi e meglio pagati, più sicuri, con un’aria più pulita in una città più salubre, e con possibilità per tutti i londinesi di realizzare il proprio potenziale.
Sapete, ho pensato molto a mio padre oggi.
Sapete, ho pensato molto a mio padre oggi.
Era un uomo meraviglioso e uno splendido papà. Oggi sarebbe stato così orgoglioso. Orgoglioso del fatto che la città che scelse di chiamare casa abbia ora scelto uno dei suoi figli come sindaco». È un estratto del discorso. Che forse si è scritto da solo e in parte riflette la sua personalità pacata – i maligni senz’altro diranno scialba – ma per una volta piacevolmente lontana dal protagonismo debordante dei suoi due predecessori, Ken Livingstone e Boris Johnson. E non è davvero poco per i moltissimi londinesi che si sono dovuti sorbettare le spacconate turbocapitalistiche del sindaco uscente per otto interminabili anni. Il suo è pur sempre il mandato più vasto mai raggiunto da un politico britannico e, a voler guardare bene, la poltrona del sindaco londinese è sempre stata occupata da figure autonome da – quando non in aperto disaccordo con – il proprio partito (l’ascesa di Livingstone fu contrastata in tutti i modi da Blair e quella di Johnson non ha fatto altro che infastidire Cameron). Oggi, dunque lo ha dimostrato: Yes, he Khan.
Ora inizia la difficile collaborazione con il suo leader, Jeremy Corbyn, dal quale è politicamente lontano e ha cercato in tutti i modi di distanziarsi in campagna elettorale, reputandolo un ostacolo alla propria vittoria. Se da una parte i propositi di piena occupazione e alloggi popolari sono caposaldi della politica socialdemocratica tradizionale, dall’altra il suo enfatico appoggio al business e una politica fiscale di tagli alle grandi imprese esce dritta dritta dall’abbecedario del piccolo blairista. Ma è anche vero che, in una città come questa, senza serenate sotto ai balconi dei super-ricchi difficilmente il nostro avrebbe conquistato le sue 1.310.143 preferenze contro le 994.614 del rivale Zac Goldsmith, al momento immerso nella dolorosa diagnosi di un campagna elettorale completamente sbagliata, basata su insinuazioni e paure e che ha riportato meritatamente a galla la tradizionale etichetta dei conservatori come del «nasty party» (il partito odioso, crudele): quella stessa che David Cameron era faticosamente riuscito a staccargli di dosso a forza di retorica pseudo-ecologista e approccio giovanilistico-informale.
Ma a Londra gli è andata male e anche a Bristol. Qui il Labour ha strappato una vittoria e anche qui il nuovo sindaco è figlio di un immigrato: Marvin Rees, figlio di un giamaicano e di una infermiera inglese, che lo ha cresciuto da sola. Quarantatré anni, studi a Yale, nel curriculum un lavoro per uno dei consiglieri del presidente americano Bill Clinton, è stato giornalista per la Bbc locale e si è affacciato in politica partecipando alla campagna Operation Black Vote, ha ottenuto oltre 68.000, contro i 39mila del sindaco uscente, l’indipendente George Ferguson.
Fonte: il manifesto
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