La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 5 luglio 2016

Barconi e navi da guerra: le rotte degli affari

di Nigrizia
Viviamo in democrazy. La democrazia schizofrenica. Dove contraddizioni ipertrofiche ottengono un ampio diritto di cittadinanza. Dove si coltiva l’illusione di poter fermare persone in fuga con le nostre avarizie di popoli sazi e saturi (magari costruendo muri negli stessi paesi di partenza) e, allo stesso tempo, si forniscono i lanciafiamme a quei “pompieri incendiari” – pensiamo solo a Qatar e Arabia Saudita – che innescano o aggravano i conflitti nelle terre da cui scappano milioni di persone. Se il carattere proprio dell’età che stiamo vivendo non fosse l’opacità, ci apparirebbe chiara come l’acqua cristallina di Lampedusa la profonda saldatura che lega i barconi carichi di disperati alle navi cariche di missili, vendute a chi alimenta guerre.
E se la memoria, appunto, non fosse labile e avariata dovremmo ricordare come il potere che piange, ipocritamente, quando il Mediterraneo si trasforma in tomba liquida, è lo stesso che stappa le bottiglie al nuovo contratto militare miliardario sottoscritto con nazioni a rischio.
L’ultimo esempio si è avuto il 16 febbraio scorso, con la firma dell’accordo fra Italia e Qatar per l’allestimento della loro nuova flotta navale militare. Un contratto da 5 miliardi di euro, di cui 3,8 miliardi a Fincantieri, per la costruzione di quattro grandi corvette, due pattugliatori minori, equipaggiate con i più moderni sistemi elettronici e di armamento; e 1,1 miliardi a MBDA Italia per i sistemi missilistici antiaerei e antinave. L’entusiasta ministra della difesa, Roberta Pinotti, l’ha definito «il più importante contratto mai firmato dall’Italia con un paese straniero per quanto riguarda la parte navale». Non solo. Ma per la ministra quell’accordo dimostra «come si muove bene il “sistema Italia”». Governo e aziende del settore hanno lo stesso obiettivo.
Un affare, quello con il Qatar, che segue di pochi mesi i contratti firmati da Finmeccanica-Leonardo con il Kuwait per la fornitura di 28 velivoli Thyphoon del consorzio europeo Eurofighter: valore 7-8 miliardi di euro, metà dei quali arriverà nelle casse italiane. Per l’amministratore della multinazionale tricolore, Mauro Moretti, «il più grande successo commerciale del gruppo».
E la conferma che l’Italia sta espandendo la sua collaborazione militare e industriale con importanti paesi del Golfo arriva anche dall’annuale relazione della presidenza del consiglio sull’export armiero: tra i primi dieci paesi a cui vendiamo materiale bellico troviamo, come nel 2014, gli Emirati arabi uniti (304 milioni di euro) e l’Arabia Saudita (258 milioni).
Paesi del Golfo, quelli citati, che guidano la coalizione arabo-africana in conflitto nel vicino Yemen. E il Qatar, nonostante stia cercando in questi mesi di ricalibrare la sua politica regionale, riposizionandosi accanto all’Arabia Saudita, per anni ha contribuito ad accendere la rivalità intra-sunnita nell’area nordafricana-mediorientale, sostenendo conflitti in Siria, Egitto, Libia. Nazioni da cui fuggono milioni di persone, con la speranza di arrivare sulle coste europee.
Ancora oggi il regime egiziano di al-Sisi attribuisce a Doha il ruolo di sponsor dei Fratelli musulmani; ruolo che giustifica una brutale azione repressiva nei confronti dei suoi cittadini, soprattutto se giornalisti, come nel caso dei dipendenti dell’emittente televisiva qatarina, Al Jazeera. E sebbene l’Egitto si riveli sempre più un potere autocratico e intollerante, l’Europa continua ad arricchire il suo arsenale. Il Cairo acquisterà entro il 2020, grazie a finanziamenti sauditi, 7 navi da guerra, un satellite militare e 24 caccia Rafaele: tutti sistemi d’arma francesi.
Parigi si muove in proprio. Roma e Berlino la seguono. Ciò rivela che le decisioni comuni di Bruxelles sul tema migrazione (vedi articolo sul migration compact a pag. 36) sono solo una risposta militare-umanitaria, figlia di una logica di minaccia-compassione. In realtà, c’è un vuoto che nessuno vuole coprire. Lo disse già 17 anni fa James Orbinski, di Medici senza Frontiere, nel suo discorso d’accettazione del premio Nobel: «L’umanitarismo è la reazione dei cittadini al fallimento della politica». Anche per Filippo Grandi, neo Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, sul tema delle grandi migrazioni «la risposta umanitaria è insufficiente. C’è bisogno di leadership e di azione politica». Ma è coerente un’azione politica che propone di selezionare persone mentre scappano da case che vanno a fuoco, con la vendita di lanciafiamme a signori che incendiano quelle case?
La risposta, purtroppo, rischia di essere monotona: noi veneriamo i diritti umani, fondamento della nostra civiltà, a meno che non interferiscano con le nostre convenienze.
Buone vacanze. Di riposo. Senza, tuttavia, lasciare troppo in ammollo la mente. Perché questa, come ci ricordava Einstein, è come un paracadute: funziona solo quando è aperta.

Fonte: Nigrizia 

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