La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 8 agosto 2016

Le due tensioni di Elio Vittorini: una teoria lunga della letteratura

di Luca Mozzachiodi
Erano decenni, precisamente dal 1981, che si aspettava una riedizione di questo libro, ora per fortuna fornita dalle edizioni Hacca per la cura, filologicamente accurata ma insieme appassionata e tutt’altro che distaccata, di Virna Brigatti. Si tratta della raccolta degli appunti e dei materiali preparatori di Vittorini per un libro rimasto incompiuto e del quale l’attuale sottotitolo dice molto: Le due tensioni, appunti per una ideologia della letteratura.
Via, caviamoci subito il dente ripetendo uno degli ovvi arcana del linguaggio critico, ideologia della letteratura non significa il contenuto dottrinario, politico o no, della letteratura a priori, ma significa il contenuto prodotto a posteriori dalla letteratura stessa senza tenere conto delle forze materiali che lo determinano, rappresentandosi cioè falsamente libero, ovvero con un concetto falso della libertà. La produzione letteraria, e quella critica con essa, sono ideologiche, mistificate, vuole dirci Vittorini con questo titolo che rivela la sua origine e il suo scopo: essere per la critica della letteratura (che è cosa diversa dalla critica letteraria) quello che L’ideologia tedesca di Marx fu per la filosofia del proprio tempo.
Si tratta di notazioni, appunti, riflessioni e schede di lettura che rendono ragione degli ampi interessi di Vittorini e del suo sguardo vasto e penetrante nell’affrontare le questioni che riteneva determinanti (divisione del lavoro, natura e cultura, fantasia, linguaggio e metalinguaggio, architettura, solo per citare alcuni titoli di rubriche).
Il primo dunque, e anche il più ovvio e naturale percorso di lettura che si può fare attraverso le pagine di questo grande scrittore che, per nostra fortuna, scrivendole guardava la luna e non il dito è appunto quella di leggerle in successione, come le molte note di un ricco zibaldone da tenere nell’angolo buono del tavolo da lavoro. Quanto sarebbe utile infatti rileggere anche solo alcune righe di questi appunti prima di iniziare ogni nuovo libro o scritto come quando ci si deve mettere i guanti per iniziare un lavoro che richiede sforzo e porta qualche pericolo!
Già questo basterebbe, non è però soltanto questo, per merito dell’autore ma anche dell’editore e del curatore, il modo di leggere Le due tensioni, la possibilità più ricca consiste anzi nel seguire, ed è possibile farlo grazie ai richiami intratestuali appositamente collocati all’inizio di ogni nuova nota, il discorso imbastito da Vittorini: una vera e propria teoria “lunga” della storia della letteratura, nel senso anche della scuola degli Annales che proprio nella prima metà degli anni Sessanta conosceva il suo momento di massima diffusione.
Le due tensioni sono la tensione razionale e quella espressiva, che si sono susseguite, macroscopicamente parlando, nell’attitudine degli scrittori verso la letteratura e continuano a susseguirsi nella storia della cultura; non si tratta però banalmente della contrapposizione delle due culture, quella scientifica e quella umanistico-retorica, che pure influisce su Vittorini ma nel senso della volontà di un superamento, come dimostrano le numerose note dedicate, ad esempio, al complicato rapporto tra letteratura e fisica.
La tensione razionale è una tensione analitica, potremmo semplificare dicendo che è quella che anima le opere che ci vogliono arricchire circa la consapevolezza sulla condizione, storica, sociale, antropologica e biologica beninteso, non metafisica, dell’uomo e delle società che costruisce; la tensione espressiva è invece sintetica, cioè raccoglie i concetti in metafore non mediate, usa simboli per dirci come l’uomo, un individuo spesso, si sente o per interrogarci, questa volta sì, sulla sua condizione in senso metafisico ed esistenziale.
Per Vittorini l’ultima grande cesura tra il momento a tensione razionale e quello a tensione espressiva è stato l’inizio dell’Ottocento, guarda caso la rivoluzione industriale, guarda caso lo sviluppo della società borghese, con autori borghesi e lettori borghesi, il Romanticismo e il suo figlio più longevo: il poeta sentimentale come archetipo dell’uomo, in una parola l’individuo.
Dall’Ottocento la letteratura è sempre stata dominata dalla tensione espressiva e anzi la critica vittoriniana con invidiabile e ammirevole onestà intellettuale si spinge all’autocritica, l’autore di Conversazione in Sicilia, Il garofano rosso, Uomini e no, confessa tutti i limiti delle opere per cui lo diciamo grande, spesso gli autori grandi sono anche più grandi di quanto pensiamo. Si vede subito come qui si tratti dei grandi, lenti, mutamenti della coscienza, non della storia letteraria come sequenza di premiati o incalzante susseguirsi di gruppi e gruppetti.
Secondo Vittorini letterariamente, rispetto alla velocità e alla profondità dei mutamenti economici, sociali e allo sviluppo della conoscenza scientifica, siamo all’età della pietra, e ad essere onesti c’è da faticare a dargli torto: diciamo che una cosa è bella o brutta ma circa le spiegazioni (oggettive non prendiamoci in giro!) su come l’uomo percepisca il bello e il brutto, quali sollecitazioni, stimoli, associazioni di immagini, possano produrlo, siamo rimasti all’estetica del tardo settecento quando va bene. La teoria della letteratura è un eterno commento alla frammentaria Poetica di Aristotele, nelle poesie i soli continuano a sorgere e tramontare anche se da più di cinquecento anni la scienza ha messo in soffitta il sistema tolemaico, e quel che è peggio è che albe e tramonti continuano a commuoverci e non sappiamo razionalmente perché, anzi spesso non vogliamo saperlo, pena la caduta di tutti gli ideali consolatori che la letteratura produce e dei quali si serve.
La storia letteraria è, a conti fatti, una disciplina storica e andrebbe trattata come tale, dobbiamo dunque provare a immaginare una storia “lunga” della letteratura che tenga conto del fatto che soltanto all’altezza di due secoli fa si è avuta una considerevole mutazione dell’idea del soggetto lettore e di quella del soggetto scrittore. Pur grande, sotto questo punto di vista, è davvero infinitamente minore la distanza che ci separa da Byron da quella che separa, poniamo, Byron da un Parini o un Voltaire; ma chi si oppone, senza coscienza di farlo spesso, a questa critica? Chi sono gli ideologi della letteratura?
Vittorini li divide in due specie: i mammisti, che sono quelli che appunto hanno bisogno della continua consolazione dell’eterno immutabile e della mitologia sulla letteratura, quanti sproloquiano in maniera vaga di poesia, bellezza, sentimento, anima, e gli aristotelici, che per attitudine credono in un qualche sistema da applicare alla letteratura e di quello si appagano come di una chiave dorata, ivi compresi certi falsi marxisti e quanti credono che la letteratura si sviluppi e sia da giudicare iuxta propria principia; a questi potremmo oggi aggiungere i fordisti, mostri orrendi e diversamente analfabeti che sono il prodotto dell’iperspecialismo e della divisione del lavoro intellettuale che ha preso possesso delle nostre università. Vittorini non fece, fortuna sua, in tempo a vederli e si limitò alle prime due specie, che di solito abitano gradini un po’ più bassi della scala di potere culturale ma certamente li avrebbe avversati.
Già perché come si diceva, da grande intellettuale riconosce e supera la distinzione delle due culture non, come a volte purtroppo si sente dire, prescrivendo tomi di genetica, teoremi e dimostrazioni a poeti e musicisti e ore di solfeggio e apparati filologici ai chimici e ai matematici in nome della cultura, e anzi di questi personaggi il libro ci aiuta a ridere una volta per tutte, bensì ritenendo che ogni problema, ogni vero problema si intende, abbia nella sua totalità bisogno di una diversità di prospettive di analisi e soluzione.
Il libro è incompiuto certo, ma non si tratta di appunti sparsi come si potrebbe pensare e l’Ideologia di Vittorini rappresenta una visione coerente con delle zone d’ombra, delle quali peraltro era consapevole, più che delle falle logiche come già speravano gli aristotelici ghignando di aver trovato un punto debole nel sistema altrui mentre i mammisti si asciugavano il sudore dalla fronte e correvano a portare la loro ennesima opera nuova a qualche editore a pagamento. A tutti loro forse questo libro non parla, come a coloro che hanno una visione domenicale della letteratura, e intendiamoci il dilettantismo, l’altra faccia dello specialismo, è un diritto certamente, ma non è un diritto non essere trattati da dilettanti.
A quanti però si occupano davvero di letteratura questo libro non può non lasciare un’emozione intellettuale profonda: viene voglia, dopo averlo chiuso, di prendere le note provvisorie a margine, lasciate come puntelli da Vittorini e dire ricomincio da lì, per scrivere finalmente quella grande storia materiale e non ideologica della letteratura che ancora attende di essere scritta, raccogliere la bandiera e correre fino in cima alla collina per poi voltarsi e poter davvero distinguere, diradati i fumi della mischia di premi e premietti, recensioni, gruppi, convegni, i grandi movimenti della storia e la nostra autobiografia culturale.
Dio ci scampi da quello che potremmo vedere allora, come del resto viene da dire leggendo le pagine dei Quaderni del carcere, il libro che più di ogni altro mi pare avere affinità di intenti, metodi e toni con Le due tensioni; ma in fondo è questo sguardo lucido e questa temerarietà nel voler guardare in faccia la realtà delle posizioni e degli ideali, fosse anche la parzialità o limitatezza dei propri, che rappresenta il dovere realmente politico e civile di uno scrittore.
Questo sembra aver compreso molto bene la casa editrice Hacca, che ne ha fatto il proprio motto nella collana Novecento.0, che raccoglie testi di autori magari trascurati ma che con questo spirito civile e militante hanno cercato di raccontare le contraddizioni del loro tempo, e che ci ha dato con questo volume un libro imperdibile.
In un tempo in cui siamo sommersi dai libri perdonabili, quelli che ti fanno sospirare beh dai non è brutto, come se scrivere un libro non brutto fosse di per sé un qualche merito, è davvero un peccato che un libro imperdibile (quanti ne escono in un anno?) sia anche un libro incompiuto; a volte vorremmo tutte le risposte, leggiamo non per sapere come vanno a finire i libri, ma come va a finire il mondo.
Sarebbe però un comodo rifugio, una fuga dalle responsabilità e Vittorini, grande persino nella morte e attento, lui sì, a una vera letteratura del dialogo che esigesse un lavoro collettivo e non si chiudesse nella soddisfazione dell’opera, pur rilanciata che sia, riletta, imposta agli orecchi altrui quanto si vuole, non ci può concedere una simile fuga: certe opere ci chiamano al lavoro con la loro provvisorietà, l’editore e il curatore hanno fatto un ottimo lavoro dandoci in questa provvisorietà il punto fermo di una nuova, ottima edizione; adesso gli scrittori facciano il loro.

Fonte: Il manifesto Bologna 

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