La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 25 settembre 2016

Nelle traiettorie degli altri

di Alessandra Pigliaru
«Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita». Di quelle Lebensformen convocate nella seconda parte delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein intuiva la declinazione plurale a cui, tra l’altro, riconoscere un legame con i «giochi linguistici». Molteplicità di forme di vita, insieme a un altro dato, altrettanto accettabile: se è vero che i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo, accordare l’esistenza di infiniti mondi significa sapere, essere coscienti, che sono proprio questi ultimi le «altre» forme di vita. Lo sottolinea Leonardo Caffo in un volumetto dal titolo La vita di ogni giorno.
Cinque lezioni per imparare a stare al mondo (Einaudi, pp. 119, euro 12,50), e basterebbe questo breve inciso, compresa la digressione, per considerare interessante un lavoro simile. Tuttavia nel testo, agile, leggibile e semplice – quindi non guastato dalla opacità che spesso assedia il linguaggio accademico – compare più di un bagliore ascrivibile a quel Wittgenstein che avverte il bisogno di filosofia dopo aver abbandonato l’essenzialismo semantico ed essersi rivolto alla densità umana.
Più dei contenuti, ciò che conta è il metodo che nelle intenzioni de La vita di ogni giorno appartiene a una condivisione che si fa parlante, nasce già con una stoffa relazionale. Le cinque lezioni, tenute da Leonardo Caffo tra febbraio e marzo del 2016 al Circolo dei lettori di Torino compongono un resoconto che restituisce il tenore colloquiale della discussione in presenza, allargandosi a un’analisi critica che eccede la mera circostanza.
La riconoscenza verso i maestri diventa cifra di un intrattenersi – infedele e quindi prezioso – nei riguardi del pensiero, sapendosi autorizzare a quel chiaroscuro esperienziale che proprio misurandosi con la quotidianità diventa una pratica. Così dall’autore del Tractatus, Caffo ci prende per mano e ci permette di spostarci per entrare nell’officina di Spinoza, come in quella di Thoreau fino ad arrivare a Nietzsche e all’amato Tiziano Terzani. In un pensiero vivente che, mostrato alla luce del contemporaneo, non è eccezione ma sempre «zoe-pensante» e che consente l’avvio della meditazione nella forma classica della sistemazione filosofica. Etica, estetica, linguaggio e logica, ontologia per Caffo diventano modi del futuro, di quel prolungarsi che è la stessa esistenza di ciascuno e ciascuna non tra le maglie di un vuoto a venire bensì nel solco di un viaggio da percorrere con esatti strumenti di bordo.
L’umanità ha una struttura «designata dall’empatia» e l’etica è una «mobilitazione totale», intesa come movimento verso l’altro, ed è plausibile arrivare alla conclusione della «teoria dello stormo» che meglio si attaglia a uno scenario simile. Il carattere attraverso cui viene a dipanarsi un tale convincimento segue la prossimità della vita di ogni giorno, e dell’eventualità che si incarna in una pratica del partire da sé o del «come se» e a cui rispondere, un’urgenza del contingente che illumina la necessità di ascolto e confronto con i viventi.
L’estetica ci conduce invece all’arte che sa essere «un domani anticipato nell’oggi». Compresa l’arte contemporanea e le sue declinazioni quando realizzano quel grano di incarnata e assoluta predizione. Conflitto sociale e politico stanno sullo sfondo come una domanda, emergono cioè come rintocchi del presente in tutto il testo.
Allora, per esempio, diventa nitido il nesso riscontrato tra l’installazione di Michael Craig Martin, An Oak Tree, osservata da un filosofo come Leonardo Caffo alla Tate Modern, e l’esito ecologista che può avere. E non perché sia questo il vero significato, né perché se ne debba trovare uno a tutti i costi, ma perché rischi e orlature del futuro si avvertono grazie al «grado di realtà», e alla sua messa in crisi, che da parte dell’arte sono estensioni su qualcosa che verrà.
La filosofia di cui scrive Caffo non si ferma a un io singolare e claustrofobico, né al suo onanismo speculativo. Perché ciò che può fare da orientamento ha subìto già una trasformazione, a partire dallo stesso concetto di «umano», inteso come unico ente etico, metafisico e scientifico e fatto già a pezzi dalla fine dell’antropocentrismo. O almeno dalla sua decostruzione massiccia che poi coincide con la postura che si sceglie di assumere per stare al mondo. Si tratta quindi di contrattare, sempre e ancora una volta, il privilegio non con il diritto all’esistenza delle differenze ma con una fluidità libera che consenta di afferrarle una per una e dire che sì, fuor di metafora, se ne dovrebbe avere «un senso» di quelle forme di vita. Perché a convocarle non è solo questione linguistica ma di attenzione e generosità. Che persiste anche senza di noi.

Fonte: Il manifesto 

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