di Duccio Facchini
“Ricordati che le costituzioni non si stracciano ad uno spirare del vento”, si era premurato di suggerire Pietro Ingrao all’elettore chiamato alle urne dell’ultimo referendum costituzionale, il 25 e 26 giugno di dieci anni fa. Erano i tempi della “riforma Berlusconi-Bossi”, respinta dalla maggioranza dei votanti. Nel 2016, come un incubo ricorrente, riemerge il desiderio “particolare” di piegare la Costituzione a propria immagine e somiglianza. La maggioranza pro-tempore pretende di specchiarcisi, ritrovando la sua personalissima “visione del futuro del Paese”.
Ma Ingrao aveva messo in guardia: lo spirare del vento, ovvero i manifesti politici di (qualsiasi) Governo, non c’entra nulla con la Carta. Questa è nata per limitare il potere, non per diramarne le ricette.
Ma Ingrao aveva messo in guardia: lo spirare del vento, ovvero i manifesti politici di (qualsiasi) Governo, non c’entra nulla con la Carta. Questa è nata per limitare il potere, non per diramarne le ricette.
Una Costituzione, quella del 1948, che per oltre il 90% dei lemmi impiegati era accessibile a quella larga parte di italiani (59%) che il fascismo lasciò privi della licenza elementare. Tullio De Mauro si è preso la briga di contare parola per parola: quella dei costituenti era scelta ponderata; gli premeva di rendere “di tutti” quei diritti e doveri riconosciuti e organizzati nei 139 articoli della prima versione.
Il 4 dicembre i cittadini italiani voteranno su una scheda che riporta cinque “argomenti”, a discrezione del legislatore che ha scelto quali “meritassero” il titolo della legge costituzionale approvata dalla Camera il 12 aprile 2016: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. Si tratta di cinque etichette che vorrebbero riassumere, senza però esaurirli, i 41 articoli del testo. Sommandole, le modifiche intervengono su 47 articoli della Carta, oltre un terzo. La nuova elezione del presidente della Repubblica, il voto a data certa nella disponibilità del Governo, la rinnovata dichiarazione di guerra, la clausola di supremazia del potere centrale sulle autonomie, l’immunità parlamentare estesa a consiglieri regionali e sindaci, per citare solo alcuni casi emblematici, non sono sulla scheda ma sono contenute nella legge. La confusione, dunque, domina. Chi dovesse lamentarsi per un quesito eterogeneo riceverebbe repliche rabbiose: “Abbiamo avuto 63 governi in 70 anni e il problema è un quesito?”. Peccato che dei 63, solo due siano cascati in aula. Il resto è bega politica, che è affare di ceto e non di regole. “La Costituzione è vecchia”, è detto, nonostante sia stata toccata 38 volte in 68 anni. L’ultima volta, nel 2012, con il pressoché unanimemente disconosciuto “pareggio di bilancio”.
Venendo al merito. Presentato come l’antidoto al detestato “bicameralismo paritario”, il Senato (una piccola parte del tutto) esce privato del rapporto di fiducia con il Governo - che con la legge elettorale in vigore potrebbe diventare faccenda del solo partito di Governo -, dell’indirizzo politico e della funzione di controllo sull’operato dell’esecutivo. Dovrebbe diventare la “Camera delle autonomie” - viene raccontato - la traduzione italica del Bundesrat tedesco. I senatori passano da 315 a 100, cinque dei quali in “quota” Quirinale per 7 anni e non più a vita.
Gli altri 95 saranno consiglieri regionali (74) e sindaci (21). I cittadini, come per le Province, perderanno il diritto di eleggerli. Se ne occuperanno i consigli regionali, in un modo che non è chiarito dalla legge e che una norma transitoria (poco citata) rischia di cristallizzare in un “Porcellum” in sedicesimi, con listini bloccati fino a nuova legge (il cui termine non è perentorio). A chi segnala il rischio che un doppio lavoro - peraltro non retribuito - garantisca solo cattiva legislazione, il neo costituente replica che già oggi i sindaci e i consiglieri “vanno a Roma per la conferenza Stato-Regioni”. Peccato che la citazione sia orfana di un dettaglio rilevante: la Conferenza non legifera, come invece potrebbe fare il “nuovo” Palazzo Madama, svirilizzato (per citare Carlo Smuraglia) ma potenzialmente influente. In sedici materie continuerà infatti a legiferare collettivamente (esattamente come oggi) con la Camera. Una di queste riguarderà le leggi costituzionali: un non eletto dai cittadini potrà toccare l’equilibro della Carta fondamentale. Alessandro Pace, a proposito, ha parlato di morte del costituzionalismo. S’è preso dell’archeologo.
In tutti gli altri casi, il Senato potrà sempre dire la sua, inutilmente. Ma la bolla del “Senato delle autonomie” (che esiste solo sui titoli dei quotidiani, nella legge si chiama ancora “Senato della Repubblica) scoppia all’articolo 67 della Carta. I “nuovi” senatori, si scopre, non avranno alcun vincolo di mandato, cioè non saranno minimamente tenuti a tener fede alle indicazioni delle “istituzioni territoriali” che dovrebbero sulla carta rappresentare. Risultato: una nuova camera politica, non eletta, che potrà anche “costare meno” - come ostentato dai fan del Ponte sullo Stretto - ma che certamente non garantirà qualità legislativa. Tanto meno in materia di bilancio, dove la revisione assegna la miseria di 15 giorni di tempo ai sindaci o consiglieri-senatori per poter esprimere un parere nel merito. Inverosimile. Come inverosimili sono gli annunci sulla partecipazione popolare: le firme per le proposte di legge di iniziativa popolare diventano 150mila (triplicate) e i “tempi certi” sventolati dal “Sì” son invece demandati ai regolamenti parlamentari (scritti dalla maggioranza). I referendum propositivi richiedono una nuova legge costituzionale per nascere (e una bicamerale per funzionare), mentre quelli abrogativi restano identici a prima, a meno di raccogliere - negli stessi tempi e con le stesse difficoltà burocratiche - 800mila firme e non 500mila. È lo “zuccherino” che si fa Costituzione. Poco importa se il “ping pong” raccontato dal neo costituente sia un mito - in questa legislatura, l’80% delle leggi approvate non ha fatto alcuna navetta, ci dice il Servizio Studi della Camera - o che l’organico del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) - che tutti vogliono cancellare - andrà assorbito presso la Corte dei Conti. O che le province sono sì abolite (tranne nelle Regioni a Statuto speciale) ma senza chiarire che ne sarà delle competenze. O, ancora, che il Governo già oggi predomina l’iniziativa legislativa, al di fuori dall’eccezione concepita in Costituzione (dal 1996 al 2013, legislatura in corso esclusa, sono oltre 1.600 le leggi “governative” contro le 400 del Parlamento). Son dettagli, si dice. E nei dettagli del nuovo Titolo V, dal quale sono state generosamente esentate le cinque Regioni a Statuto speciale, sta la definitiva sottrazione di ogni potere decisionale ai territori. Lo Stato si riprende 21 materie “esclusive”, alle Regioni lascia le briciole e, poco sobriamente, si riserva, con una clausola del 117, la “supremazia” assoluta nel nome di unità giuridica, economica o “interesse nazionale”. Per brevità rimando all’articolo 68 (immunità parlamentare), miracolosamente lasciato “identico” al vigente. O al 64, lo “statuto delle opposizioni” demandato sempre al regolamento della Camera. O allo stato di guerra, nelle disponibilità del partito di governo che, in uno scenario oscuro, potrebbe addirittura dichiararlo strumentalmente per garantire lunga vita alla Camera (che non si scioglierebbe). Per tutti i dettagli rimando alla nostra guida “Le ragioni del NO” (Altreconomia).
Lorenza Carlassare, analizzando il tutto, ha parlato di verticalizzazione del potere. Che oltre a spaventare, dovrebbe far riflettere sul vero tema anche i più strenui sostenitori dell’efficienza (che la revisione, in ogni caso, non assicura): la qualità delle nostre leggi. Meno interessi si rappresentano, meno qualità si garantisce. Il partito unico, al di là dei colori, è quasi sempre zoppo di prospettive, perché troppo innamorato di sé. Accettare le differenze e le pluralità non è “casta”, è la cosa giusta. Ma il ceto vuole piegare le regole.
“Le ragioni del no, Guida al voto per il referendum costituzionale” è acquistabile qui: http://altreconomia.it/prodotto/le-ragioni-del-no/
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 "Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!"
Fonte: Attac
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