di Martina Carpani
Nei giorni subito successivi alla vittoria del NO del 4 dicembre, così come dopo il Brexit inglese, è stato molto interessante, per non dire ridicolo, il dibattito che si è costruito sull’abolizione del suffragio universale per impedire il voto al “popolino ignorante”. Una provocazione di cattivo gusto? Forse. E’ necessario per noi chiarire che non legittimiamo l’intellettualismo contenuto in queste dichiarazioni, che non fanno altro che costruire una distanza tra chi, già destinato a far parte della classe dirigente fin dalla tenera età, ha frequentato le migliori scuole ed università (magari private) e chi oggi invece stenta ad acquistare i libri di testo o pagare le tasse universitarie. Per noi, le scelte del popolo e dei subalterni, restano sovrane senza se e senza ma.
Vale però comunque la pena sfruttare queste tristi affermazioni per costruire alcune riflessioni articolate sulla connessione tra saperi ed esito elettorale referendario, partendo da alcune premesse ed alcuni dati.
Vale però comunque la pena sfruttare queste tristi affermazioni per costruire alcune riflessioni articolate sulla connessione tra saperi ed esito elettorale referendario, partendo da alcune premesse ed alcuni dati.
Il livello di istruzione è fortemente legato al reddito della famiglia di appartenenza. E’ quindi scontato ritenere che i più poveri, ossia quelli che più hanno votato no, siano meno istruiti. Ma ció, fuori dai luoghi comuni sui “poracci ignoranti”, per dirla alla Martina nell’Ombra, non è totalmente vero. In Italia vi sono circa 5 milioni di persone in soglia di povertà assoluta e più del doppio in povertà relativa. La riproduzione delle disuguaglianze sulla base del contesto economico di riferimento delle famiglie risulta aggravata dalle barriere all’accesso all’istruzione (contributo scolastico volontario spacciato come obbligatorio, assenza di diritto allo studio, test d’ingresso all’università) che causano un aumento vertiginoso della dispersione scolastica e del calo di immatricolazioni universitarie (pari a 65 mila matricole in meno in 10 anni). Secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà, l’incidenza della povertà assoluta aumenta nelle giovani generazioni ed aumenta al diminuire del titolo di studio. Se il livello d’istruzione della persona di riferimento è basso, l’incidenza di povertà è più elevata (15,9%) ed è quasi tre volte superiore a quella osservata tra le famiglie con persona di riferimento almeno diplomata (5,8%). Esiste inoltre un dato di correlazione tra il tasso di dispersione scolastica (pari a circa il 15% della popolazione studentesca secondo Eurydice) ed il tasso di minori in sogna povertà. Seppure purtroppo questi dati gravissimi siano veri, è’ importante sfatare i luoghi comuni: la povertà per la nostra generazione è cambiata e stratificata. Oggi possedere un diploma o una laurea, aspetto centrale per evitare la riproduzione delle disuguaglianze, non basta più peró per una autodeterminazione totale dalla condizione di bisogno.
Tra i poverissimi esclusi dai canali formativi e l’uscita dalla soglia di povertà, vi sono tante altre diverse condizioni materiali di subalternità. Non è vero, infatti, che sono poveri necessariamente SOLO i meno istruiti. Non è vero, insomma, che il voto fortemente legato al reddito orientato per il NO, è necessariamente legato ad un basso livello di istruzione formale. Oggi la precarietà lavorativa e l’alto tasso di disoccupazione giovanile, fuori da ogni retorica, modificano i presupposti della povertà e della marginalizzazione sociale. Basti pensare al fenomeno dei “working poors”, persone che pur lavorando, non riescono a percepire un reddito superiore a quello di sussistenza, condizione che riguarda circa 2 milioni di lavoratrici e lavoratori italiani. Inoltre, come dimostra l’ultimo rapporto OCSE, vi è solo un 62% di occupati tra i 25-34enni che hanno svolto un percorso di formazione terziaria rispetto all’ 83% di media OCSE, fenomeno legato all’eccesso di qualifiche rispetto ad una domanda di lavoro italiana su basse competenze (o cosìdetto “skill mismatch”). Cosa vuol dire questo? Che anche i diplomati e laureati sono disoccupati e spesso poveri. La marginalità sociale si limita nelle sue riproduzioni di classe grazie all’innalzamento del livello di istruzione che rivendichiamo con forza, ma non si elimina del tutto, almeno finchè non vi sarà una riflessione radicale sul modello di sviluppo, sul sistema produttivo del nostro Paese e sul suo modello di welfare. Per questo la battaglia per una istruzione gratuita e di qualità ed aperta a tutti è fondamentale e non può slegarsi dalla lotta generazionale per un nuovo piano di sviluppo, soprattutto nel Mezzogiorno, che crei nuova occupazione, dalla lotta contro i ricatti della precarietà e da quella per il reddito minimo garantito ed una formazione permanente. Ecco perchè come studentesse e studenti ci siamo impegnati, a partire dalla connessione tra il NO ed i nostri bisogni di soggetti in formazione, a costruire un’altra visione del mondo all’altezza delle nostre aspettative di vita.
Secondo le statistiche elaborate da Quorum, a conferma della precedente riflessione, non è vero che il livello di istruzione ha inciso sul voto referendario. Secondo i sondaggi lxè, il titolo di studio incide solo sull’affluenza: più si è istruiti e più si sceglie di partecipare al voto. Però a differenza dell’età e del dato occupazionale e reddituale, il livello di istruzione formale, ossia il possesso di un titolo di studio, risulta irrilevante sulla scelta tra SI e NO. Le percentuali per i diversi titoli quasi si equivalgono. Il vero tema di discussione, dunque, che ribalta i giudizi di chi accusa di ignoranza il popolo sovrano che ha preso parola, non è il possesso di conoscenze formali, quanto di abilità non formali. Il SI vince solo nella categoria di over 65. Ciò è legato sia a fattori sociali, quali la connessione tra pensioni e situazione finanziaria, per cui risultava particolarmente efficace su quella fetta di elettorato la retorica della stabilità renziana annessa le minacce di pioggia di cavallette arrivate dai mercati nelle settimane precedenti al voto, quanto a fattori cognitivi. La popolazione anziana è infatti la più colpita dal digital divide. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT, più di una famiglia su due non usa internet poichè priva di competenze. All’interno del rapporto si evidenzia come circa il 95% degli studenti utilizza strumenti digitali e per un 80% la fascia di età giovanissima tra i 15 ed i 24 anni utilizza i social network. Secondo l’AgCom la rete è indispensabile per oltre il 90% dei cittadini italiani che possiedono uno smartphone, eppure solo un over 65 su 3 utilizza internet. La campagna elettorale, invece, è stata caratterizzata da un utilizzo dei social network davvero importante come strumento di contro-informazione: secondo i dati elaborati da Fipp e Statista.com dal 2018 il tempo speso sui media digital per informarsi, sarà di più di quello passato davanti alle tv o leggendo il giornale. Aumenta, soprattutto grazie alle dirette di facebook, l’utilizzo del web come strumento di informazione diretta, oltre alle già alte percentuali di informazione tramite giornali online pari al 35%. La televisione come strumento informativo si mantiene stabile dunque solo tra gli over 50.
È innegabile che siano stati i social, con la creatività e l’incontrollabilità del caso, uno dei più importanti strumenti utilizzati come fionda da Davide per abbattere dal basso Golia in questa tornata referendaria. I media main stream infatti, controllati dal potere politico, hanno potenziato in modo estramente puntuale la retorica Renziana attraverso la propaganda di notizie catastrofiche ed allarmanti sull’instabilità dei mercati successiva al voto, sulle banche che crollano, sull’abbassamento della credibilità internazionale. Le tv hanno inoltre rafforzando la retorica del cambiamento rottamatore non proponendo MAI un confronto tra il premier e qualcuno di più giovane di lui o tra il premier e qualcuno non identificabile con un partito della cosìdetta “accozzaglia” (unica eccezione per Maurizio Landini a In Mezz’Ora).
Sono stati i social network, nel bene e nel male, dal contrasto all’informazione di Stato, al caso Piero Pelù e follia collettiva delle matite copiative, i veri protagonisti di questa campagna elettorale e ciò fa riflettere ancor più delle altre volte, su come stiano cambiando le forme della politica e su quanto queste siano sempre più inaccessibili.
È dunque evidente come, il fattore determinante per il voto, non sia tanto stato il possesso o meno di un titolo di studio tra chi ha votato NO, quanto il possesso di competenze digitali tra chi ha votato SI. Sono infatti le conoscenze tecnologiche uno dei più importanti fattori di marginalizzazione sociale del nostro tempo, tanto rispetto al welfare (si pensi alle smart city), tanto rispetto alla partecipazione alla vita pubblica. Gli anziani, più colpiti da analfabetismo digitale totale, sono stati i più subalterni alla propaganda main stream oltre che i più socialmente inclini a subirla. Ciò fa riflettere su quanto i saperi non formali e la formazione permanente siano aspetti centrali per la nostra società al pari dell’accessibilità ai canali formativi classici. E’ infatti il mancato possesso di capacitazioni digitali a costruire e rafforzare integralmente gli istituti potere e le nuove forme di esclusione.
Ma quale abolizione del suffragio universale, meno spocchia e più saperi liberi!
Fonte: Il Corsaro
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