di Santo Barezini
Conosci Leonard Peltier? Una domenica di fine settembre, a Washington Square, nel cuore di New York, una signora non più giovanissima mi ha rivolto questa domanda. Aveva appeso la sua mercanzia, fatta di spillette a tema politico, su due rudimentali pannelli e l'aveva sistemata nel cuore di una piccola manifestazione di solidarietà con i sioux di Standing Rock, la riserva al confine fra Sud e Nord Dakota dove riposano le spoglie di Toro Seduto; il luogo dove, si racconta, vola ancora lo spirito di Cavallo Pazzo. Mi chiese di Peltier vedendomi interessato a certe sue spilette, perché qui non sono in tanti a conoscere la sua storia.
Quella storia, invece, io la conoscevo: la vicenda di un sioux condannato senza prove per l'omicidio di due agenti federali, chiuso in carcere oltre quarant'anni fa, dopo un processo rivelatosi in seguito una farsa macchinata dall'FBI; un attivista per i diritti dei nativi a cui nessun presidente americano ha voluto concedere la grazia e nessun giudice un'agevolazione del regime carcerario, un detenuto modello, ormai vecchio e malato, a cui è stato vietato persino di presenziare al funerale di un figlio. Una delle tante pagine vergognose della storia recente degli Stati Uniti.1
Quel giorno ci eravamo dati appuntamento sotto l'incongruo arco di trionfo sistemato fra i giardini di una piazza di Manhattan, per una manifestazione di solidarietà con i Water Protectors, i protettori dell'acqua, i sioux che avevano occupato alcuni terreni a sud della riserva, per impedire il passaggio sulle loro terre del DAPL, il Dakota Access Pipe Line2, un oleodotto che minaccia d'inquinare il fiume Missouri, unica risorsa idrica dell'area, e il cui tracciato prevede il passaggio attraverso luoghi considerati sacri dai nativi3.
Sicuro che conosco Leonard Peltier! Ho risposto.
La venditrice di spillette
Sono sempre stato dalla parte degli indiani, forse è nel mio dna, forse è per l'educazione ricevuta, gli incontri fortunati, le letture giuste. A quindici anni avevo letto Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, il classico di Dee Brown, uno sconosciuto bibliotecario divenuto famoso, con grande onta degli accademici, per aver raccontato la vera storia della conquista del West, l'epopea che ha visto gli Stati Uniti annettersi vastissimi territori in meno di trent'anni. Una storia vista però dalla parte degli indiani delle grandi praterie, con lo sguardo di chi a ovest ci viveva e guardava con rabbia e disperazione orde di barbari calare da est, avidi di terra, oro e minerali. A vent'anni avevo visto Soldato Blu. A ventidue avevo ascoltato Fabrizio De André raccontare, con un brivido di delicata poesia e quella sua voce evocativa da sciamano, il massacro degli cheyenne di Black Kettle sul Sand Creek.
Ma ancora prima di tutto questo, quando avevo appena dodici anni, avevo seguito con passione la cronaca dell'assedio di Wounded Knee: nella primavera del 1973 quel luogo immensamente simbolico4 era stato occupato dai ribelli, male armati ma decisi, dell'American Indian Movement e un assortimento di indiani di sessantaquattro diversi gruppi tribali tenne in scacco per oltre due mesi il governo federale, reclamando rispetto dei trattati, sovranità e diritti civili. Quando tutto fu finito e i pochi morti seppelliti, proprio nei pressi della fossa comune dove riposano le spoglie dei minneconjou di Piede Grosso, ancora una volta gli indiani furono ingannati dalle false promesse dei visi pallidi5.
La venditrice di spillette mi ha risposto senza stupore: “è più conosciuto all'estero che qui da noi, eppure Peltier è il più importante prigioniero politico degli Stati Uniti”. Io sì, mi sono stupito, perché non si incontra spesso un americano che ammetta l'esistenza di prigionieri politici nel suo paese, un'affermazione che riempirebbe di indignazione la maggior parte dei suoi concittadini.
Mentre parlavo con lei mi guardavo attorno: poca gente, pochissimi giovani, ma tanto entusiasmo. Canti e cori intervallati da slogan gentili. Quaccheri, studenti di psicologia, attivisti di varie associazioni e veri indiani se ne stavano lì, fianco a fianco, determinati e allegri. Quella gente sapeva che i nativi di Standing Rock, lottando per la loro dignità, per la libertà, per una sovranità ancora una volta violata, stavano lottando anche per il futuro di tutti noi, contro l'arroganza del potere, gli affaristi, le banche, le multinazionali, i politicanti corrotti e il maledetto, dissennato modello di sviluppo che sta spingendo il pianeta verso il baratro: davvero un grande impegno per un piccolo popolo, che appena un secolo indietro era stato quasi cancellato dalla storia. Una bella storia, che in quel giorno di settembre faceva avvertire un senso di fratellanza a persone i cui destini difficilmente si sarebbero in altro modo incrociati.
Sono rimasto un po' a parlare con quella donna: sembrava uscita da un'altra epoca, mi raccontava di aver trascorso qualche tempo con gli indiani, in una riserva. Ne parlava come si fosse trattato di un altro paese, o di un altro mondo e io pensavo come fosse assurdo che ancora esistano, le riserve, un universo concentrazionario architettato dal governo degli Stati Uniti come soluzione finale alle guerre indiane.
Ancora una volta, i Sioux
La manifestazione si è sciolta dopo qualche ora, senza drammi. Gli striscioni sono stati riposti e ciascuno è andato per la sua strada. Ho salutato la signora delle spillette e nel cuore mi è cresciuta la tristezza: mi pareva che tutto quello fosse stato bello, ma inutile; che i nativi fossero impegnati in una lotta impari e senza speranza; che quella manifestazione fosse stata poco più che simbolica e che in fondo dei sioux non importasse nulla a nessuno.
Andando verso casa certe letture giovanili sono affiorate alla mente. Da ragazzo la storia dei sioux mi aveva affascinato: nel XIX secolo avevano condotto una resistenza coraggiosa unendo altre tribù nell'impegno comune di fermare l'invasore. Nuvola Rossa aveva ricacciato l'esercito costringendolo a una pace umiliante. Toro Seduto aveva battuto sul terreno le più numerose e meglio armate giacche blu, preferendo alla fine l'esilio alla riserva. Cavallo Pazzo aveva guidato i suoi a memorabili vittorie e rifiutato ogni compromesso. Quei guerrieri non furono sconfitti sul campo ma fermati dal dolore di vedere il proprio popolo morire di stenti e assassinati poi a tradimento, come accadde a Toro Seduto e a Cavallo Pazzo. Mi colpisce che oggi siano ancora una volta loro, i sioux, a guidare la rivolta.
Quei nativi accampati per fermare le ruspe mi hanno ricordato i “nostri” resistenti: i no TAV, no MUOS, no Dal Molin; i nostri indiani piemontesi, siciliani, veneti, che difendono le loro terre da politiche dissennate. Sarebbe bello trovare il modo di collegare tutte queste lotte, queste aree libere, questi piccoli popoli resistenti. Disegnare una linea ideale di amicizia e solidarietà fra Standing Rock e la val di Susa.
A molti americani, invece, questa lotta di nativi del XXI secolo ha ricordato i fatti di Wounded Knee della primavera del 1973. Ma le differenze con quegli avvenimenti sono, a mio parere, determinanti: quella ribellione nacque fra indiani urbanizzati e politicizzati, spesso in polemica con i cosiddetti “tradizionali” che vivono nelle riserve; fu una rivolta senza chiari obiettivi e priva di una struttura decisionale. Dalle improvvisate trincee di Wounded Knee gli indiani si difesero a colpi di fucile e le sparatorie furono frequenti.
Il movimento di Standing Rock, invece, è nato dentro la riserva, con il sostegno e l'incoraggiamento degli anziani che hanno fornito un'autorevole leadership, garantendo organizzazione, disciplina, rispetto delle decisioni. Questa volta le armi hanno tuonato da una parte sola: i nativi hanno scelto la strada della nonviolenza e gli anziani hanno percorso incessantemente gli accampamenti per esortare i giovani a non rispondere mai con la violenza, neanche alle provocazioni più gravi. Sono caratteristiche nuove, che hanno consentito alla protesta di crescere e guadagnarsi il rispetto e l'ammirazione di tanti americani. Infatti quella di Washington Square non è stata che la prima di tante altre manifestazioni. La solidarietà è cresciuta di pari passo con la repressione e i fatti di Standing Rock hanno avuto un'eco inaspettata, risvegliato le coscienze, spinto alla partecipazione.
L'occupazione nata in estate con poche decine di sioux, in autunno era divenuta un grande accampamento di oltre quindicimila persone: nativi di molte diverse tribù ma anche tanti visi pallidi, arrivati da ogni angolo del paese, uniti sotto la guida dei pronipoti di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La pianura si è riempita di teepee, risate, giochi e calore, facendo montare la rabbia degli speculatori, spaventati dalla prospettiva di perdere lucrosi guadagni. Il consorzio che ha l'appalto per la costruzione del DAPL non ha esitato a mettere in campo agenti federali e forze di sicurezza private per forzare lo sgombero e riprendere i lavori. Pallottole di gomma, cani d'assalto e granate stordendi hanno fatto parte del triste armamentario della repressione e i manifestanti sono stati colpiti brutalmente dai getti freddi degli idranti quando ormai l'inverno aveva portato il gelo e imbiancato la pianura coi primi fiocchi di neve. Gli ambulatori da campo si sono riempiti di feriti e di gente a rischio congelamento. Ma l'accampamento ha resistito.
La presenza dei veterani
Un filmato dei feroci attacchi contro i pacifici dimostranti è stato diffuso da Democracy Now,6 suscitando un'ondata di indignazione: a molti quelle immagini hanno ricordato la brutale repressione della polizia dell'Alabama contro i cortei antisegregazionisti degli anni sessanta e il movimento di solidarietà ha risposto con una escalation di azioni nonviolente: manifestazioni estemporanee, flash mob nelle sedi del consorzio di costruzione del DAPL, boicottaggio delle banche che finanziano il progetto, siti istituzionali sommersi da messaggi, autoaccuse di migliaia sui social network per confondere gli investigatori a caccia di resistenti sul web.
Sul mio cellulare le convocazioni last minute di manifestazioni anti DAPL a New York sono andate moltiplicandosi con appuntamenti veloci e improvvisi cambiamenti di programma, sempre con la stessa sottolineatura: “se non siete pronti a manifestare in maniera nonviolenta, non venite”. Dietro questo movimento spontaneo nessuna etichetta politica, nessuna apparente leadership: i capi ideali di questa piccola rivolta erano ancora accampati sul ghiaccio, a 1700 miglia di distanza.
Erano i coraggiosi sioux di Standing Rock, gli abitanti della contea più povera degli Stati Uniti.7
All'inizio di dicembre, quando le forze della repressione si stavano preparando a sferrare l'attacco finale per sgomberare l'occupazione, è accaduto un piccolo miracolo yankee che mi ha lasciato di stucco: in risposta a un appello cinquemila ex militari si sono messi in viaggio, hanno raggiunto Standing Rock, si sono schierati a fare scudo, hanno rafforzato i punti deboli dell'accampamento. I veterani erano lì per difendere il diritto dei sioux a proteggere la loro terra. Le ragioni di questa mobilitazione le ha spiegate in un post l'ex marine Halim Nurdir: “Siamo qui per difendere la libertà di espressione, il diritto a manifestare pacificamente. Qui abbiamo gente attaccata brutalmente a cui viene chiesto di azzittirsi. Quando sono entrato nell'esercito ho giurato di difendere l'America da ogni minaccia, esterna ed interna. Usare idranti in pieno inverno, lanciare granate stordenti e lacrimogeni su pacifici manifestanti: a me pare che tutto questo rappresenti una minaccia”.
La partecipazione degli ex militari è stata decisiva. Lo sgombero non c'è stato, perché i veterani godono di grande rispetto e colpirli avrebbe provocato uno scandalo nazionale. Due giorni dopo il loro arrivo il genio militare ha revocato i permessi di attraversamento nel territorio della riserva e il consorzio ha dovuto annunciare, suo malgrado, la modifica del tracciato. Una vittoria insperata, come se la TAV fosse stata revocata, il MUOS smantellato, la base Dal Molin chiusa.
I veterani sono ritornati alle loro case e i camion antisommossa sono rientrati nelle caserme, ma un presidio di water protectors è rimasto a vigilare, perché i sioux non si fidavano: in passato i visi pallidi hanno fatto molte promesse e firmato tanti trattati, ma li hanno sempre traditi.
Il tradimento è arrivato, infatti, puntale, con l'ascesa al potere di Donald Trump. Uno dei suoi primi atti da presidente è stato l'ordine esecutivo per far ripartire i lavori del DAPL, con l'imposizione al genio militare di rilasciare le autorizzazioni. La polizia del Sud Dakota è stata dotata di maggiori poteri e le pene per i resistenti sono state inasprite. Alla fine di febbraio i sioux hanno ceduto, per evitare lo scontro. Lo hanno fatto soprattutto per proteggere i simpatizzanti, quei sostenitori giunti da fuori che per molte settimane hanno condiviso con loro la vita nelle difficili condizioni dell'accampamento. Non hanno voluto che subissero la violenza della polizia e dure sentenze negli inevitabili processi. Dopo otto mesi di resistenza è finita l'occupazione, ma la lotta continua con altri mezzi.
A dispetto del finale triste, questa storia ha scosso un certo mio pessimismo, risvegliando la speranza: anche nel paese più forte, anche quando la repressione è immensa, un piccolo popolo che combatte per la dignità e la libertà può cambiare le cose. “Freedom is a constant struggle”, ha detto recentemente Angela Davis,8 che invita a non credere in singole figure eroiche ma nella forza dell'impegno collettivo. E la campagna contro il DAPL si è caratterizzata anche per il suo carattere comunitario: nessuna personalità è emersa, nessun portavoce, i sioux di Standing Rock sono una collettività in lotta e hanno dimostrato che nulla è immobile e cambiare direzione è possibile.
Crudele vendetta contro l'indiano ribelle
È difficile prevedere se questo movimento si spegnerà o fiorirà. Qualche lieve segnale di speranza c'è: il DAPL non è l'unico oleodotto che rischia di distruggere l'ambiente e già altri tracciati sono sotto accusa, nuove proteste all'orizzonte. Il fracking9 sta sconvolgendo l'America e non tutti sono disposti a restare a guardare in nome di una illusoria indipendenza energetica. Se son rose fioriranno.
Dalla sua cella, in un carcere federale di massima sicurezza, Leonard Peltier ha incoraggiato e sostenuto questa lotta. Ma resta prigioniero: Obama non ha firmato quella grazia che migliaia di cittadini hanno chiesto a gran voce. Lo stato vuole portare a termine la sua crudele vendetta contro l'indiano ribelle. Peltier aveva chiesto solo di poter morire nella sua terra, fra la sua gente. In attesa di notizie sul suo destino aveva scritto ai suoi sostenitori: “Se non avrò clemenza mi farò un pianto in cella, poi mi tirerò su e continuerò a lottare fino a quando ne avrò la forza. Non temete: dopo oltre quarant'anni posso affrontare qualsiasi cosa”. Le sue lettere dal carcere le conclude sempre con queste parole: In the spirit of Crazy Horse.
Di Cavallo Pazzo non esiste alcuna immagine, nessun possibile “santino”: nella sua breve vita egli rifiutò risolutamente di farsi fotografare o dipingere. Dove sia sepolto nessuno lo sa. Ma il ricordo si conserva nel cuore di molti, perché non si arrese mai alla prepotenza dell'invasore. Dove vola il suo spirito è bello stare. Nel suo spirito la lotta dei sioux continua.
- I retroscena del caso Peltier sono stati rivelati da Peter Matthiessen nel suo monumentale libro/inchiesta: “In the Spirit of Crazy Horse”, pubblicato nel 1983 col sottotitolo: “la storia di Leonard Peltier e della guerra dell'FBI contro l'American Indian Movement”. Sulle campagne per la liberazione di Peltier si veda freepeltier.org e whoisleonardpeltier.info.
- L'oleodotto in costruzione, gestito da un consorzio miliardario, sarà lungo 1172 miglia, destinato a trasportare petrolio dal confine settentrionale del Nord Dakota fino ai porti sul fiume Missouri, nell'Illinois.
- In alternativa a “nativi” userò spesso qui “indiani”, per intendere le popolazioni che abitavano l'America del Nord all'arrivo di Colombo. La scelta può lasciare perplessi e anche indignare qualcuno ma, di fatto, il termine è ormai nell'uso comune degli stessi nativi e viene utilizzato anche per rivendicare la propria appartenenza alle nazioni originarie e distinguersi, culturalmente, etnicamente e politicamente, dagli invasori, cioé da tutti gli altri cittadini degli Stati Uniti. Del resto la più forte organizzazione politica mai fondata dai nativi è stato appunto l'American Indian Movement. Con lo stesso criterio parlo qui di sioux anziché utilizzare i più corretti “lakota” e “dakota” perché questi ultimi, suddivisi in molti sottogruppi e bande (minneconjou, oglala, hunkpapa, ecc.) oggi si riconoscono essi stessi, collettivamente, come sioux.
- Il 29 dicembre 1890, 15 giorni dopo l'assassinio di Toro Seduto, i sioux minneconjou di Piede Grosso, completamente disarmati, vennero massacrati dall'esercito a Wounded Knee. Oltre 300 bambini, donne e uomini morirono sotto il fuoco indiscriminato e inutile dei militari o per congelamento, nelle ore successive alla carneficina, feriti e abbandonati nella neve in mezzo a una tempesta. Fu l'ultimo grande massacro delle guerre indiane.
- L'assedio di Wounded Knee da parte dei federali e di milizie irregolari durò dal 28 febbraio al 9 maggio 1973. Le varie promesse fatte dalla Casa Bianca per far cessare la rivolta, come da tradizione, furono disattese. Nessuna vera inchiesta venne avviata sui fatti e oltre 500 indiani finirono sotto processo.
- Vedi democracynow.org.
- Secondo l'istituto federale di statistica.
- “La libertà è una continua lotta”. Angela Davis (1944), ostracizzata, perseguitata e ingiustamente incriminata negli anni Sessanta per l'impegno nelle Black Panthers e l'affiliazione al Partito Comunista, è ancora oggi attiva, impegnata in vari campi, sostenendo tra l'altro la necessità di abolire l'istituzione carceraria.
- La devastante tecnica utilizzata per rompere strati rocciosi e portare in superficie depositi sotterranei di petrolio, oli minerali e gas. Nello stato di New York, ispirata alla lotta di Standing Rock, sta prendendo forza la protesta contro un altro oleodotto in costruzione.
Fonte: A Rivista
Originale: http://arivista.org/?nr=415&pag=31.htm
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