Nel gennaio del 1992 Ingrao rese nota la decisione di non porre la sua candidatura alle imminenti elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati ove sedeva dal 1948 e della quale aveva tenuto la presidenza nel corso della settima legislatura. Colpito dal poco risalto che la stampa aveva tributato alla notizia del ritiro dalla politica istituzionale di uno dei più grandi protagonisti della democrazia italiana, Bettini dedicò a Pietro Ingrao un articolo su Paese Sera in cui tracciava un profilo della sua personalità, mettendo in luce le peculiarità della sua condotta politica e civile. Condotta che ancora oggi è da considerarsi esemplare, quanto rara. Dopo aver letto l’articolo, Pietro Ingrao scrisse la lettera, che qui pubblichiamo, a Goffredo Bettini in cui esprimeva i motivi profondi, personali e intimi, che avevano guidato e avrebbero continuato a guidare il suo agire politico e nel mondo. Tredici anni dopo, nel giorno del novantesimo compleanno di Pietro Ingrao, il 30 marzo del 2005, Bettini rispose a quella lettera, continuando la riflessione sul valore della politica e sul significato dell’appartenenza alla sinistra.
Oggi, che viviamo l’epoca delle “larghe” intese e del costante calo della partecipazione causato da una classe dirigente sempre più delegittimata agli occhi degli elettori, queste riflessioni appaiono allo stesso tempo monito e sprone al recupero del valore alto della politica.
Una lettera di Pietro Ingrao
Caro Goffredo,
torno a ringraziarti per l’articolo che hai scritto su di me: non solo per l’affetto e la stima che esso esprime (e ci sono anche, in questo senso, parole che temo eccessive, molto); ma perché l’articolo vede punti reali e radicati della mia esperienza e del mio sentire: aspetti di me che raramente ho sentito cogliere così. E’ vero: ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una “passione” per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso in un’età così avanzata fatichi a spegnersi. Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l’aspetto “tattico” (mi capisci: non nel senso di furbesco). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo nelle mie condizioni è esorbitante, e può essere anche un “vizio”; ma poi vedo che mi interessano anche i passaggi “quotidiani”; quante volte sono tentato di impicciarmici! Perché non staccarsene?
Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo “eticismo”: il “dover essere” mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano. È vero. Io ho raccontato nel mio ultimo libro che fui trascinato a pedate nella politica dalla resistenza a Hitler. Ho ricordato una cosa che tutt’ora è in me nitidissima: quando di fronte al rischio che Hitler vincesse, (i momenti terribili che la vostra generazione non ha vissuto), ho detto nella mia mente: non ci sto. Anche in quel caso però, continuo ancora oggi a pensare che fosse qualcosa di altro, o di non riducibile a un dovere etico.
Era una resistenza del mio essere, una difficoltà della mia vita ad adattarsi a quell’esito (cioè a una vittoria del nazismo sul mondo).
Tu dici: il punto essenziale è per me dove «si difendono meglio gli umili e gli oppressi». E questo coglie, con parole semplici, un sentimento che è tenace dentro di me. Io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la sento perché pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Perché alcune sofferenze degli altri mi sono insopportabili.
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso.
L’altra sera, ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo e non avrei fatto nulla di fronte a ciò che diceva, rappresentava (significava) quella realtà. Questo episodio può dire la ragione per cui io rimango incollato alla politica, persino sotto l’aspetto tattico. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare come una motivazione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro condizione mi “turba”, e senza gli “altri” non esisto (nemmeno sarei nato).
Ma veniamo alla questione che tu affronti. Tu dici, per me: «incanto» e «disincanto». È chiaro: sono immagini, sono metafore. Forse sono ancora prudenti. A fare un po’ di letteratura, si potrebbe dire più seccamente che io sono “scisso”. Sapessi quante volte quell’intervenire nella politica (persino sotto l’aspetto “tattico”, o addirittura congiunturale) mi appare di una lontananza astrale dai miei stati d’animo più profondi. Quante volte, stando “dentro le mura”, so che vengo e sto “fuori le mura”: sento una estraneità, persino una strana indifferenza in certi momenti. Mi chiedo: che ho a che spartire?
Tu dici: coscienza del limite della politica. Sì. E anche coscienza della astrazione-mutilazione che reca in sé la norma. Ci mettono le brache dal momento che nasciamo. È curioso che io mi sia interessato tanto di istituzioni e di Stato (cioè di “norme”, regole), e abbia lavorato tanto (per mia scelta) dentro le istituzioni, con la crescente, fredda coscienza che la norma è riduzione, quantificazione di fronte all’immisurabile, allo “smisurato” della vita. Così succede: sto dentro la misura, e la rifiuto. Quante ne facciamo per campare. Amando così la vita, accettiamo di essere “misurati” continuamente: come fossimo sempre alla visita di leva. Per fortuna, nei rari momenti di forza e di libertà, io mi dico: ma io non sono di questa città. (Comprendi da ciò la cautela grande, e sospettosa, con cui cerco di adoperare la parola “morale” e la parola “diritti”: che cosa sono le leggi? Chi le fa? A chi?). Il “convento”. Il convento è questa distanza; e la sensazione che questa condizione che chiamiamo vivere sia certo il pane da mangiare (il “produrre”), ma anche la passione (l’irriducibile alla “ragione”, a una qualche “ragione”) e il silenzio (come interrogarsi).
La politica e il fare, lo Stato e il produrre possono consentire (per non dire: invocare) il silenzio dell’interrogarsi e del contemplare? Non sembra. L’inutile e il gratuito sono disprezzati in questo attuale modo di vivere: il cui motto è l’efficienza nel produrre e per il produrre. Certo in un quarto (o in un quinto) del mondo non si muore più di fame e di pellagra. E anche a me e a te piace molto mangiar bene, e una vita lunga. E paghiamo debitamente il prezzo richiesto. Vedi come sono “scisso”. Invoco il silenzio, e già sono al comizio. Mi dichiaro “straniero” e voglio fare le leggi. Mi capita. Più di quanto tu puoi immaginare.
Questa lettera, lo so, è segnata di narcisismo. E, alla mia età, ciò è scandaloso. Mi ci ha un po’ trascinato il tuo scritto, l’“amor sui”, e quel desiderio di trovare la parola, che è rimasto così inappagato in questi lunghi anni di vita. Tu sai che il solo, vero consiglio che ho cercato di darti è stato: sforzati di essere libero. tuo Ingrao.
P.S. Non ricopio e rivedo, perché questa lettera (personale) ti arriverebbe tardi. Non ho avuto ancora la copia del Paese.
Fonte: il manifesto
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