La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 29 settembre 2015

«Difendere gli umili non è un agire per gli altri, è un agire per me»

Nel gen­naio del 1992 Ingrao rese nota la deci­sione di non porre la sua can­di­da­tura alle immi­nenti ele­zioni per il rin­novo della Camera dei Depu­tati ove sedeva dal 1948 e della quale aveva tenuto la pre­si­denza nel corso della set­tima legi­sla­tura. Col­pito dal poco risalto che la stampa aveva tri­bu­tato alla noti­zia del ritiro dalla poli­tica isti­tu­zio­nale di uno dei più grandi pro­ta­go­ni­sti della demo­cra­zia ita­liana, Bet­tini dedicò a Pie­tro Ingrao un arti­colo su Paese Sera in cui trac­ciava un pro­filo della sua per­so­na­lità, met­tendo in luce le pecu­lia­rità della sua con­dotta poli­tica e civile. Con­dotta che ancora oggi è da con­si­de­rarsi esem­plare, quanto rara. Dopo aver letto l’articolo, Pie­tro Ingrao scrisse la let­tera, che qui pub­bli­chiamo, a Gof­fredo Bet­tini in cui espri­meva i motivi pro­fondi, per­so­nali e intimi, che ave­vano gui­dato e avreb­bero con­ti­nuato a gui­dare il suo agire poli­tico e nel mondo. Tre­dici anni dopo, nel giorno del novan­te­simo com­pleanno di Pie­tro Ingrao, il 30 marzo del 2005, Bet­tini rispose a quella let­tera, con­ti­nuando la rifles­sione sul valore della poli­tica e sul signi­fi­cato dell’appartenenza alla sinistra.
Oggi, che viviamo l’epoca delle “lar­ghe” intese e del costante calo della par­te­ci­pa­zione cau­sato da una classe diri­gente sem­pre più dele­git­ti­mata agli occhi degli elet­tori, que­ste rifles­sioni appa­iono allo stesso tempo monito e sprone al recu­pero del valore alto della politica.

Una let­tera di Pie­tro Ingrao

Caro Gof­fredo,
torno a rin­gra­ziarti per l’articolo che hai scritto su di me: non solo per l’affetto e la stima che esso esprime (e ci sono anche, in que­sto senso, parole che temo ecces­sive, molto); ma per­ché l’articolo vede punti reali e radi­cati della mia espe­rienza e del mio sen­tire: aspetti di me che rara­mente ho sen­tito cogliere così. E’ vero: ci sono due facce con­trad­dit­to­rie (ma è giu­sto chia­marle così?) della mia vita. Evi­den­te­mente io devo avere una “pas­sione” per la poli­tica che è tenace; altri­menti non si spiega come essa pas­sione duri così a lungo, e ancora adesso in un’età così avan­zata fati­chi a spe­gnersi. Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diver­sa­mente, assai diver­sa­mente da quello che qual­cuno dice di me) a me inte­ressa, nella poli­tica, anche l’aspetto “tat­tico” (mi capi­sci: non nel senso di fur­be­sco). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che que­sto nelle mie con­di­zioni è esor­bi­tante, e può essere anche un “vizio”; ma poi vedo che mi inte­res­sano anche i pas­saggi “quo­ti­diani”; quante volte sono ten­tato di impic­ciar­mici! Per­ché non staccarsene?
Tu spie­ghi ciò con una moti­va­zione morale. Io ho sem­pre molte esi­ta­zioni ad ado­pe­rare que­sto ter­mine: per­ché io non sono in con­so­nanza con un certo “eti­ci­smo”: il “dover essere” mi sem­bra che con­tenga una astra­zione; e io credo molto in una cor­po­reità della vita; credo nelle pas­sioni vitali che ci scuo­tono e ci segnano. È vero. Io ho rac­con­tato nel mio ultimo libro che fui tra­sci­nato a pedate nella poli­tica dalla resi­stenza a Hitler. Ho ricor­dato una cosa che tutt’ora è in me niti­dis­sima: quando di fronte al rischio che Hitler vin­cesse, (i momenti ter­ri­bili che la vostra gene­ra­zione non ha vis­suto), ho detto nella mia mente: non ci sto. Anche in quel caso però, con­ti­nuo ancora oggi a pen­sare che fosse qual­cosa di altro, o di non ridu­ci­bile a un dovere etico.
Era una resi­stenza del mio essere, una dif­fi­coltà della mia vita ad adat­tarsi a quell’esito (cioè a una vit­to­ria del nazi­smo sul mondo).
Tu dici: il punto essen­ziale è per me dove «si difen­dono meglio gli umili e gli oppressi». E que­sto coglie, con parole sem­plici, un sen­ti­mento che è tenace den­tro di me. Io sento peno­sa­mente la sof­fe­renza altrui: dei più deboli, o più esat­ta­mente dei più offesi. Ma la sento per­ché pesa a me: per così dire, mi dà fasti­dio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Per­ché alcune sof­fe­renze degli altri mi sono insopportabili.
Ti dirò un epi­so­dio che rischia di risul­tare stu­pi­da­mente lacrimoso.
L’altra sera, ho visto a Mixer alcuni fil­mati sui bam­bini ira­cheni col­piti durante e dopo la guerra dalle malat­tie e dalla penu­ria. Mi sono sem­brati dei fatti let­te­ral­mente insop­por­ta­bili. E mi sono rim­pro­ve­rato la mia inet­ti­tu­dine o defe­zione dinanzi a quella insop­por­ta­bi­lità. Scusa que­ste parole: ho avver­tito una nau­sea psi­chica. E mi sono ver­go­gnato, per­ché io non ho fatto e non facevo e non avrei fatto nulla di fronte a ciò che diceva, rap­pre­sen­tava (signi­fi­cava) quella realtà. Que­sto epi­so­dio può dire la ragione per cui io rimango incol­lato alla poli­tica, per­sino sotto l’aspetto tat­tico. Non sono sicuro che ciò si possa rap­pre­sen­tare come una moti­va­zione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro con­di­zione mi “turba”, e senza gli “altri” non esi­sto (nem­meno sarei nato).
Ma veniamo alla que­stione che tu affronti. Tu dici, per me: «incanto» e «disin­canto». È chiaro: sono imma­gini, sono meta­fore. Forse sono ancora pru­denti. A fare un po’ di let­te­ra­tura, si potrebbe dire più sec­ca­mente che io sono “scisso”. Sapessi quante volte quell’intervenire nella poli­tica (per­sino sotto l’aspetto “tat­tico”, o addi­rit­tura con­giun­tu­rale) mi appare di una lon­ta­nanza astrale dai miei stati d’animo più pro­fondi. Quante volte, stando “den­tro le mura”, so che vengo e sto “fuori le mura”: sento una estra­neità, per­sino una strana indif­fe­renza in certi momenti. Mi chiedo: che ho a che spartire?
Tu dici: coscienza del limite della poli­tica. Sì. E anche coscienza della astrazione-mutilazione che reca in sé la norma. Ci met­tono le bra­che dal momento che nasciamo. È curioso che io mi sia inte­res­sato tanto di isti­tu­zioni e di Stato (cioè di “norme”, regole), e abbia lavo­rato tanto (per mia scelta) den­tro le isti­tu­zioni, con la cre­scente, fredda coscienza che la norma è ridu­zione, quan­ti­fi­ca­zione di fronte all’immisurabile, allo “smi­su­rato” della vita. Così suc­cede: sto den­tro la misura, e la rifiuto. Quante ne fac­ciamo per cam­pare. Amando così la vita, accet­tiamo di essere “misu­rati” con­ti­nua­mente: come fos­simo sem­pre alla visita di leva. Per for­tuna, nei rari momenti di forza e di libertà, io mi dico: ma io non sono di que­sta città. (Com­prendi da ciò la cau­tela grande, e sospet­tosa, con cui cerco di ado­pe­rare la parola “morale” e la parola “diritti”: che cosa sono le leggi? Chi le fa? A chi?). Il “con­vento”. Il con­vento è que­sta distanza; e la sen­sa­zione che que­sta con­di­zione che chia­miamo vivere sia certo il pane da man­giare (il “pro­durre”), ma anche la pas­sione (l’irriducibile alla “ragione”, a una qual­che “ragione”) e il silen­zio (come interrogarsi).
La poli­tica e il fare, lo Stato e il pro­durre pos­sono con­sen­tire (per non dire: invo­care) il silen­zio dell’interrogarsi e del con­tem­plare? Non sem­bra. L’inutile e il gra­tuito sono disprez­zati in que­sto attuale modo di vivere: il cui motto è l’efficienza nel pro­durre e per il pro­durre. Certo in un quarto (o in un quinto) del mondo non si muore più di fame e di pel­la­gra. E anche a me e a te piace molto man­giar bene, e una vita lunga. E paghiamo debi­ta­mente il prezzo richie­sto. Vedi come sono “scisso”. Invoco il silen­zio, e già sono al comi­zio. Mi dichiaro “stra­niero” e voglio fare le leggi. Mi capita. Più di quanto tu puoi immaginare.
Que­sta let­tera, lo so, è segnata di nar­ci­si­smo. E, alla mia età, ciò è scan­da­loso. Mi ci ha un po’ tra­sci­nato il tuo scritto, l’“amor sui”, e quel desi­de­rio di tro­vare la parola, che è rima­sto così inap­pa­gato in que­sti lun­ghi anni di vita. Tu sai che il solo, vero con­si­glio che ho cer­cato di darti è stato: sfor­zati di essere libero. tuo Ingrao.
P.S. Non rico­pio e rivedo, per­ché que­sta let­tera (per­so­nale) ti arri­ve­rebbe tardi. Non ho avuto ancora la copia del Paese.

Fonte: il manifesto 

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