di Giuseppe Buondonno
È sicuramente prematuro anche solo un primo bilancio del Pontificato di Bergoglio; se non altro perché ogni giorno egli apre un nuovo fronte. Ma non è, forse, troppo presto per individuarne una linea decisa e coerente.
Se mettiamo in fila alcuni (solo alcuni) dei passaggi salienti di questo breve periodo, il corpo sostanzioso di questa svolta emerge con chiarezza. Dal discorso al Parlamento europeo, incentrato sulla subalternità della politica alla finanza, agli scossoni alla gerarchia ecclesiastica su questioni sensibili sul piano dottrinario, economico e del potere; dal nesso tra questione ecologica ed ingiustizia sociale, nella Laudato Sii, alla condanna, nel viaggio a Cuba, della società del descarte, alla forza politica e morale, nelle diverse corde toccate, al Congresso americano e alle Nazioni Unite. Fino alla sfida chiara — per quanto sottile — a chi lo accusa di essere troppo di sinistra; negandolo, come è giusto che sia, ma non rinnegando la sostanza etica, dunque anche storica, delle sue posizioni. Il profilo, sempre più chiaro, è quello di una critica del capitalismo liberista e dei processi di mercificazione della natura, delle società e delle relazioni umane.
Mai, non un teologo della liberazione o un prete progressista, ma un Papa, si era spinto su un territorio così esplicitamente analitico delle radici materiali dell’ingiustizia e delle prospettive di distruzione del pianeta; e delle relazioni tra esse; individuate non più solo in una generica crisi di valori, ma nell’affermazione del principale valore capitalistico, la centralità della merce e del denaro, rispetto alla dignità degli esseri umani.
Il fatto è che questo Papa (e la sua stessa elezione, frutto probabilmente, di un conflitto esplicito), con la forza di chi può — ma anche sa — parlare al mondo contemporaneo, esprime la consapevolezza intellettuale del disastro sociale e biologico, presente e futuro; e dice, urbi et orbi, che non ci sarà spazio per nessuna etica universalistica nel mondo che si prepara.
Sembra esprimere la consapevolezza piena della torsione radicale che il conflitto globale ha assunto e che il capitalismo neoliberista interpreta coerentemente, in assenza, su quella scala ed a quei livelli, di una alternativa umanamente accettabile. Sembra dirci (anzi, a Strasburgo e all’Onu ci ha detto esplicitamente) che con la democrazia, questo modello di sviluppo spazzerà via ogni altra prospettiva di umanizzazione; e quando, nelle precedenti tappe in America Latina, ha fatto riferimento alle lotte degli indios e dei popoli, per la loro identità e per la terra, ha espresso con chiarezza un messaggio di legittima contrapposizione alle logiche del mercato; ma ha anche lanciato un grido di allarme, uno stimolo a chi deve opporsi. E, credo, occorra fare uno sforzo in più per cercare i terreni etici e concreti di uno sguardo diverso ma comune al conflitto in atto; senza cortocircuiti, ma anche senza troppe timidezze.
Ho scritto, mesi fa, che non è né giusto né sensato, “tirare la giacca” ad un Papa; ma l’impressione che traggo ora, da questi suoi atti, è che sia lui a tirarla a noi. Non ci insegnerà lui la critica del capitalismo, potrebbe dire qualcuno, e con qualche ragione (ma anche con un po’ di presunzione). Quello, però, che possiamo fare è ricordare, o meglio, imparare di nuovo nel mondo globale, come si fa a parlare, influenzare, mobilitare grandi masse di uomini e donne. Perché, se a livello di massa, la critica del capitalismo, delle sue strutture sociali e della vita quotidiana che determina, è prerogativa di un Papa, la sinistra, ad ogni latitudine, una scossa deve cominciare a darsela.
Fonte: il manifesto
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