di Roberto Romano
Il rapporto 2015 della Commissione «Riforme fiscali negli Stati membri dell’Unione europea» veicola un messaggio ambiguo: occorre tagliare le tasse sul lavoro, e spostare il fisco su consumi, proprietà e ambiente per favorire la crescita. Dall’elenco dei Paesi che dovrebbero ridurre le imposte sul lavoro non manca praticamente nessuno: Italia, Belgio, Germania, Francia, Olanda, Portogallo, Austria, Finlandia, Svezia, ecc.
Sostenere che gli imprenditori non assumono perché il cuneo fiscale è pari al 48 per cento, contro la media europea del 43, fa sorridere: il costo del lavoro dell’Italia è agli ultimi posti tra i paesi di area Ocse. Ma il punto non è questo, piuttosto cosa dobbiamo aspettarci dal fisco e quali sono gli obbiettivi che deve perseguire. Per alcuni le imposte e le tasse sono un «corrispettivo» dei servizi pubblici; altri sottolineano il ruolo delle tasse per finanziarie servizi che diversamente i cittadini dovrebbero comprare sul mercato a prezzi di mercato, appunto; recentemente alle tasse è assegnato un ruolo spiccatamente re-distributivo.
In realtà, il sistema fiscale non è estraneo alla struttura del sistema economico e ai principi maturati nel corso dell’ultimo secolo. I tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dal sistema economico, come all’evoluzione del diritto. Inoltre, le spese pubbliche e l’erogazione di beni di merito permettono, più di altre misure, la crescita reale del reddito dei cittadini. In qualche modo i servizi per tutti senza nessuna «corresponsione» individuale, hanno permesso lo sviluppo dell’attuale organizzazione economica. Diversamente dai luoghi comuni — minori tasse uguale maggiore sviluppo — un basso livello di tassazione non significa maggior benessere. Tanto più la società è complessa, tanto più è necessario adeguare non solo il livello del prelievo fiscale in generale, ma anche i presupposti di imposta. Il livello e la qualità (alta) della vita dei cittadini è legata al livello e al target della tassazione e, più in generale, al peso delle entrate fiscali sul Pil; si tratta dei diritti presi sul serio (Einaudi).
Sicuramente c’è il problema di tassare in modo uguale persone uguali, principio difficilissimo da realizzare, ma analizzando il peso delle entrate fiscali in Europa, non è difficile accorgersi della relazione diretta tra diritti e prelievo fiscale. Dove esiste un’adeguata pressione fiscale si osserva un adeguato stato sociale e tassi di crescita mediamente più alti. Quindi il «dovere» di pagare le tasse ha le sue ragioni nella realizzazione di una società più giusta: «Se non si fosse strutturato il diritto positivo, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se attraverso l’intervento regolatore non fosse promossa l’equità di quello che alcuni economisti chiamano lo scambio fiscale, e se non si fossero garantiti, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti ’presi sul serio’, cioè i diritti di libertà dal bisogno?» (Franco Gallo).
Le tasse esistono non solo per risolvere un problema particolare, piuttosto sono un particolare esercizio di sovranità dei cittadini per soddisfare, attraverso la spesa pubblica, i diritti collettivi positivi. Quando si sostiene la necessità di ridurre le tasse per alcune categorie di contribuenti occorre prestare molta attenzione. Nel pensiero liberista i tributi sono visti come uno strumento di finanziamento della spesa per la sicurezza e la protezione dei diritti proprietari che si rifanno, in genere, alle cosiddette libertà negative, ma trascurando, a differenza del pensiero liberale, le libertà positive civili e sociali, cioè le libertà fruibili da ciascun individuo nell’uguaglianza, che trovano il loro limite nella libertà degli altri e, soprattutto, non riducono l’autorità dello stato legandola «all’autorità» dei cittadini. Per questa ragione i tributi e le tasse devono essere considerati parte del moderno sistema dei diritti positivi, senza limitazioni di nessuna natura nella pressione fiscale (art.53 della Costituzione), cioè il legislatore è legittimato ad allargare l’area della contribuzione alle spese pubbliche e sociali, consentendogli di selezionare i presupposti di imposta in ragione della maggiore articolazione della realtà economica.
Questa sembra essere la policy più adeguata per rinnovare l’azione pubblica e probabilmente, in prospettiva, per aumentare il salario reale dei lavoratori. Peccato che il fisco sia diventato un esercizio per bulloni di quartiere.
Fonte: il manifesto
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