La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 29 settembre 2015

I discorsi d’odio e la complicità dei media, ora c’è una campagna

di Lorenzo Guadagnucci
In inglese lo chiamano “Hate speech”, ma poiché in Italia siamo diventati specialisti della materia, è decisamente da preferire la locuzione italiana, “discorso d’odio”.
Di che si tratta? Ad esempio di frasi, slogan, affermazioni, pronunciati da personaggi pubblici e/o con ruoli di potere, che criminalizzano e stimolano astio e risentimento verso intere comunità o addirittura popoli.
Le cronache sono piene di casi del genere. Qualche anno fa, per fare un esempio concreto, durante la campagna elettorale per il Comune di Milano, comparvero alcuni manifesti nei quali si parlava del rischio che la città, in caso di vittoria del candidato Pisapia, divenisse una “zingaropoli”. La “paura per il rom” e il disprezzo per un’intera popolazione era in quel momento uno dei temi chiave della campagna elettorale, come lo è oggi del discorso pubblico di più di un leader politico. Per non dire di certe affermazioni riguardanti i profughi o gli immigrati di fede musulmana eccetera.
Dunque il discorso d’odio è moneta corrente, con la decisiva complicità del sistema mediatico, che ci ha abituati a dare voce – senza filtri – a qualsiasi slogan o affermazione, anche la più razzista, purché siano rispettate due banali condizioni: 1) che il discorso d’’odio sia pronunciato da personaggi – politici e no – titolati ad avere parola sui media; 2) che l’oggetto del discorso sia un gruppo, una minoranza, una comunità sottoposta, per consuetudine, a forme di discriminazione e pubblico disprezzo.
E’ partita in queste settimana una campagna che chiede ai giornalisti di non essere mai gli amplificatori di simili discorsi, com’è diventata invece consuetudine. In genere i cronisti e i giornali si riparano dietro il diritto/dovere di cronaca: se un uomo politico fa una certa affermazione, anche sgradevole o sgradita, quella è una notizia e quindi va riportata.
Vero, ma ci sono dei limiti da rispettare. Se un politico afferma che un certo popolo, un certo gruppo umano, è da disprezzare, perché dedito al furto, all’usura, allo stupro, alla delinquenza e così via, è possibile limitarsi a riportare quelle parole?
No, non è professionalmente lecito. Se un leader politico dice — facciamo un esempio non a caso – che gli ebrei sono un pericolo per la nazione, le notizie sono due: la prima, è l’affermazione in sé, come tutte le affermazioni fatte da un leader politico; la seconda, è che tale leader ha pronunciato un discorso d’odio, che fomenta razzismo. Il giornalista – in termini di etica professionale – deve tenere conto di entrambe le notizie e non rendersi complice del discorso d’odio.
Può sembrare un discorso ovvio e una regola di semplice, ma non è così: basta pensare a quel che si è letto e sentito in questi mesi e anni. Per troppo tempo i media si sono adagiati in un ruolo passivo rispetto alla retorica politica in materia di migranti e minoranze, una retorica spesso violenta e discriminatoria che ha finito per diventare senso comune, degradando la qualità del discorso pubblico e anche della nostra convivenza civile.
La campagna #nohatespeech è coordinata dall’Associazione Carta di Roma, che cura l’applicazione del codice deontologico su migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Se questa campagna ha un limite, è il ritardo con il quale arriva, ma non è certo colpa di chi l’ha promossa.

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