di Roberto Ciccarelli
Il lavoro? Non esiste. Oggi la moneta di scambio è il pagherò. Il presente è il debito, il futuro è il profitto di chi mette la tua vita nella sua vetrina con un «Mi piace». Questa situazione non induce a ribellarsi, ma a una disperata chiusura in se stessi. Ci si avvolge nella coperta dell’Io e si continua a scavare nella volontà personale, l’unico bene rimasto che ha ancora qualche mercato. Sono disponibile a lavorare e vendo la mia disponibilità a farlo. A tutti costi, anche gratis. Questo è il tempo del cinismo in cui il capitale non è solo il mezzo che estorce il lavoro, ma è il lavoro che gli ha consegnato tutto il suo valore. Perché non c’è alternativa, viene propagandanto a reti unificata. Non c’è il salario d’un tempo, l’unico guadagno è avere una certa immagine di se stessi. Si è falliti e ci si crede imprenditori di se stessi.
Con questa verità, inconcepibile per la sinistra, i sindacati e i discorsi per i buoni democratici, si confronta il filosofo fiorentino Ubaldo Fadini. Il suo ultimo libro è un quaderno di appunti sulla trasformazione in atto,Divenire corpo (ombre corte, pp.141, euro 13). Fadini è un teorico raffinato, la sua scrittura è magmatica, un flusso di coscienza che oscilla tra letture francesi (Deleuze e Guattari), postoperaismo italiano (Christian Marazzi o Andrea Fumagalli), antropologia politica tedesca (Arnold Gehlen), filosofia della tecnica (Simondon) e l’ecosofia di André Gorz. La sua riflessione si confronta con il problema più interessante del nostro tempo: la trasformazione della soggettività in imprenditrice di se stessa a cui, ad esempio, la rivista Aut Aut ha dedicato di recente un numero.
Fadini riformula il problema con il linguaggio marxiano: visto che tutto è capitalismo, cosa succede al «capitale variabile» (il lavoro vivo, la soggettività che «fermenta») quando diventa espressione del «capitale fisso», anzi è la protesi organica delle macchine, dei social media, della finanza? Dov’è la sua libertà, cosa può fare insieme agli altri se non riprodurre la comune miseria assoluta, quella dell’Io degli «uomini vuoti»?
La situazione è disperante. Fadini prova a fare uno scarto, partendo dal ricco materiale prodotto dalla riflessione critica dall’AntiEdipo di Deleuze e Guattari (libro del 1972) a oggi. La sua è un’immersione nella vita al tempo del neoliberismo. Parte dalla tristemente celebre categoria di «capitale umano» e la ribalta in una «cartografia socio-esistenziale al servizio di pratiche concrete di sperimentazione».
Il «capitale fisso umano» non è come quello ordinario del capitale, il «lavoro morto oggettivato» messo all’opera dal «lavoro vivo». Esso è il risultato del lavoro vivo e dell’attività dell’«individuo sociale». Per svilupparlo, i tristi imprenditori di se stessi hanno avuto bisogno di trasformarsi in un’impresa capitalistica per mettere in opera la finzione di un «capitale» che viene e va, come le stagioni.
In linea di principio potrebbero emanciparsi, anche perché questo capitale è un investimento su loro stessi, senza il quale il lavoro morto che incarnano non sarebbe mai all’opera. Fadini esclude che si possa uscire da questa situazione dirottando il desiderio dall’Io al «soggetto antagonista», sul significante vuoto di una «sinistra» a tavolino, sull’idea diffusa per cui il neoliberismo funziona male e che se fosse gestito meglio dallo Stato keynesiano ci sarebbe la crescita e tutti starebbero meglio. Quello Stato sottintende il ricorso a un’autorità originaria alla quale gli individui si affidano (Deleuze-Guattari lo definivano Urstaat). Tale possibilità può essere sperimentata sul terreno etico: ciò che Deleuze chiamava «potenza» e Marx «lavoro vivo».
Tutto dipende da cosa possono fare insieme questi individui oggi atomizzati in sette, infelici, indebitati. Questa possibilità oggi è rimossa e irrisa, persino dagli diretti interessati. L’alternativa è affidata ai concetti maiuscoli di cui si nutre il pensiero individualistico contemporaneo: il soggetto, il movimento, il leader.
Divenire corpo di Fadini consiglia amichevolmente di lasciar perdere e ricominciare la sperimentazione, trovare una fraternità in questa impresa, una sorella nel divenire, una musica nella lingua, accordi sconosciuti nell’uso della vita a disposizione, non nella cura del lutto per un lavoro che non c’è.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.