La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 30 settembre 2015

La sconfitta non fu mai una resa

di Nichi Vendola
Forse delle tante ere­sie di cui si com­pone una bio­gra­fia così com­bat­tuta, così densa di spiaz­za­menti e di ripar­tenze, quella che alla fine della sua vita viene tra­man­data a noi come la più fer­tile ha a che fare con la bel­lezza. E’ della bel­lezza che ha biso­gno, sem­pre, la poli­tica, la sua cul­tura cri­tica, se vuole giun­gere là dove solo può avere un senso, andare verso quel “fondo delle cose” entro cui si costrui­sce il suo rap­porto con l’umano. E di certo, di tutte le ere­sie che lo hanno attra­ver­sato, que­sta appare a prima vista la più dif­fi­cile da spie­gare, oggi.
Oggi che la poli­tica vive e muore nell’eterno pre­sente e nel cini­smo del potere, dove si incon­tra più quella ten­sione poli­tica verso l’umano che è stata il tratto costante, la coe­renza coc­ciuta e asso­luta, di un uomo come Pie­tro Ingrao? Eppure il nodo è qui. Lo ere­di­tiamo da lui, intriso di quell’interrogazione per­ma­nente che ha per­corso il lungo secolo dei suoi giorni intenti a spin­gere ogni volta “lo sguardo più lontano”.
Com’è noto, quell’esigenza radi­cale dell’umano sorge e si con­densa, si apre e si chiude nell’esperienza di Ingrao, a par­tire dall’arte. E’ da lì, dalla crea­zione arti­stica, che sca­tu­ri­sce quella spinta verso la libertà, verso la bel­lezza della vita, delle mol­te­plici vite umane, che inter­roga l’essere nel suo darsi un senso nel mondo. Ma è nella poli­tica, come ricerca e come pra­tica, che più di tutto si com­pie. Sarà, come sap­piamo, la guerra di Spa­gna a deci­dere del suo destino, inscri­vendo pro­prio l’intreccio tra pace e guerra come que­stione fon­dante nell’orizzonte del suo pen­siero ininterrotto.
E così quando si trat­terà di fil­trare dal tumul­tuoso avvi­cen­darsi delle epo­che vis­sute e degli avve­ni­menti attra­ver­sati una goc­cia di pura verità della pro­pria espe­rienza poli­tica, resterà quel verso netto, incon­tro­ver­ti­bile, così poco erme­tico di chi voleva la luna e dice a se stesso come a noi “pen­sammo una torre / sca­vammo nella polvere”.
E’ l’ammissione di una scon­fitta, non l’abbandono ad una resa. Fa parte della sua peda­go­gia di uomo pub­blico con­si­de­rare ogni volta l’importanza che hanno i vinti den­tro il farsi della sto­ria: que­sto è di per sé un con­te­nuto poli­tico e rivo­lu­zio­na­rio da cui ripar­tire. Per­ché l’idea di poli­tica che ha col­ti­vato, e pra­ti­cato, Pie­tro Ingrao è quella di un’incessante lotta che ha nella demo­cra­zia il suo ultimo com­pi­mento. E la qua­lità della demo­cra­zia si svela nella con­di­zione mate­riale del lavoro, nel voca­bo­la­rio “costi­tuente” del fem­mi­ni­smo, nella con­ver­sione eco­lo­gica di uno svi­luppo capace di misu­rarsi col futuro, nella neces­si­tata radi­ca­lità di un moderno paci­fi­smo. Guar­diamo all’idea di Stato, così ine­dita, così arti­co­lata, così inno­va­tiva che ci viene dall’originalità del suo pen­siero e ren­dia­moci conto che, almeno noi, almeno la sini­stra, non può per­met­tersi la sem­pli­fi­ca­zione di rubri­carla come un’esperienza nove­cen­te­sca chiusa in sé.
Non si pone forse oggi come cru­ciale per la demo­cra­zia il nodo del rap­porto tra il potere e le classi, i movi­menti, i sin­goli indi­vi­dui con­creti? E cosa potrà mai essere la demo­cra­zia mede­sima senza una socia­liz­za­zione della poli­tica, senza un incon­tro fer­tile di quel che si muove nella società con le isti­tu­zioni, senza il pro­iet­tarsi del fer­mento sociale nello Stato per tra­sfor­marlo? Appare come un’illuminazione, oggi, l’idea di “riforma dello Stato” col­ti­vata da Ingrao come “la prin­ci­pale riforma eco­no­mica da rea­liz­zare”. Così come lumi­nosa appare, nel buio odierno, quella sua visione del par­tito poli­tico come “farsi del mol­te­plice del mondo”, come plu­ra­lità, come pro­ble­ma­ti­cità della con­di­zione umana degli indi­vi­dui, come sog­get­ti­vità col­let­tiva che mai si con­fonde con lo Stato ed ha in sé la forza tra­sfor­ma­trice di un pro­getto da pra­ti­care.
Il dub­bio allora non è un tarlo che porta verso lo scet­ti­ci­smo, è un metodo che si fa strada verso la cono­scenza dell’inedito. E lo stare nel “gorgo” non è il ripie­ga­mento dopo una scon­fitta, ma un andare incon­tro a quel che fer­menta nel sociale e nella vita, guar­dan­dolo dal limite, dalla fron­tiera che ger­mina un tempo futuro. Su que­ste ere­sie dob­biamo lavorare.

Fonte: il manifesto 

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