di Nichi Vendola
Forse delle tante eresie di cui si compone una biografia così combattuta, così densa di spiazzamenti e di ripartenze, quella che alla fine della sua vita viene tramandata a noi come la più fertile ha a che fare con la bellezza. E’ della bellezza che ha bisogno, sempre, la politica, la sua cultura critica, se vuole giungere là dove solo può avere un senso, andare verso quel “fondo delle cose” entro cui si costruisce il suo rapporto con l’umano. E di certo, di tutte le eresie che lo hanno attraversato, questa appare a prima vista la più difficile da spiegare, oggi.
Oggi che la politica vive e muore nell’eterno presente e nel cinismo del potere, dove si incontra più quella tensione politica verso l’umano che è stata il tratto costante, la coerenza cocciuta e assoluta, di un uomo come Pietro Ingrao? Eppure il nodo è qui. Lo ereditiamo da lui, intriso di quell’interrogazione permanente che ha percorso il lungo secolo dei suoi giorni intenti a spingere ogni volta “lo sguardo più lontano”.
Com’è noto, quell’esigenza radicale dell’umano sorge e si condensa, si apre e si chiude nell’esperienza di Ingrao, a partire dall’arte. E’ da lì, dalla creazione artistica, che scaturisce quella spinta verso la libertà, verso la bellezza della vita, delle molteplici vite umane, che interroga l’essere nel suo darsi un senso nel mondo. Ma è nella politica, come ricerca e come pratica, che più di tutto si compie. Sarà, come sappiamo, la guerra di Spagna a decidere del suo destino, inscrivendo proprio l’intreccio tra pace e guerra come questione fondante nell’orizzonte del suo pensiero ininterrotto.
E così quando si tratterà di filtrare dal tumultuoso avvicendarsi delle epoche vissute e degli avvenimenti attraversati una goccia di pura verità della propria esperienza politica, resterà quel verso netto, incontrovertibile, così poco ermetico di chi voleva la luna e dice a se stesso come a noi “pensammo una torre / scavammo nella polvere”.
E’ l’ammissione di una sconfitta, non l’abbandono ad una resa. Fa parte della sua pedagogia di uomo pubblico considerare ogni volta l’importanza che hanno i vinti dentro il farsi della storia: questo è di per sé un contenuto politico e rivoluzionario da cui ripartire. Perché l’idea di politica che ha coltivato, e praticato, Pietro Ingrao è quella di un’incessante lotta che ha nella democrazia il suo ultimo compimento. E la qualità della democrazia si svela nella condizione materiale del lavoro, nel vocabolario “costituente” del femminismo, nella conversione ecologica di uno sviluppo capace di misurarsi col futuro, nella necessitata radicalità di un moderno pacifismo. Guardiamo all’idea di Stato, così inedita, così articolata, così innovativa che ci viene dall’originalità del suo pensiero e rendiamoci conto che, almeno noi, almeno la sinistra, non può permettersi la semplificazione di rubricarla come un’esperienza novecentesca chiusa in sé.
Non si pone forse oggi come cruciale per la democrazia il nodo del rapporto tra il potere e le classi, i movimenti, i singoli individui concreti? E cosa potrà mai essere la democrazia medesima senza una socializzazione della politica, senza un incontro fertile di quel che si muove nella società con le istituzioni, senza il proiettarsi del fermento sociale nello Stato per trasformarlo? Appare come un’illuminazione, oggi, l’idea di “riforma dello Stato” coltivata da Ingrao come “la principale riforma economica da realizzare”. Così come luminosa appare, nel buio odierno, quella sua visione del partito politico come “farsi del molteplice del mondo”, come pluralità, come problematicità della condizione umana degli individui, come soggettività collettiva che mai si confonde con lo Stato ed ha in sé la forza trasformatrice di un progetto da praticare.
Il dubbio allora non è un tarlo che porta verso lo scetticismo, è un metodo che si fa strada verso la conoscenza dell’inedito. E lo stare nel “gorgo” non è il ripiegamento dopo una sconfitta, ma un andare incontro a quel che fermenta nel sociale e nella vita, guardandolo dal limite, dalla frontiera che germina un tempo futuro. Su queste eresie dobbiamo lavorare.
Fonte: il manifesto
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