di Tommaso Di Francesco
Converrà andare alle radici, converrà approfondire l’amore, certo controverso, che lega la nostra storia a quella di Pietro Ingrao. Ora che tutti salutano Pietro tentando di inscriverlo in una comoda dimensione pubblico-politica; ora che perfino Matteo Renzi dichiara che gli «mancherà la sua passione politica» — quando mai l’ha conosciuta dal torrino della Leopolda?
Su tre argomenti: l’origine, la guerra e la scrittura. In molti hanno ricordato — lo hanno fatto in primo luogo Luciana Castellina e Rossana Rossanda — che senza l’indecisione di Pietro probabilmente la nostra storia, come Manifesto — prima rivista, poi gruppo e subito giornale, poi partito, poi giornale — non sarebbe esistita, o meglio avrebbe avuto meno stagioni di crisi e quindi peso ben diverso, proprio nel momento in cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta ancora erano su piazza e dettavano i contenuti travolgenti della libertà, dell’eguaglianza, della rottura degli schemi di classe, della liberazione della donna, della separazione tra governanti e governati; mentre erano in corso i travolgimenti mondiali di quello che ancora si chiamava Terzo Mondo, le istanze degli ultimi della terra e qui, nel Vecchio continente, della classe operaia impegnata con lotte di nuovo tipo non solo nel riscatto ma sui contenuti di potere.
Preferì Pietro, al Comitato centrale del Pci che decise la «radiazione per frazionismo» difendere il partito di Berlinguer, considerandolo erede del partito di massa di Togliatti, di Longo e perfino di Antonio Gramsci. Non era così. E il manifesto venne messo fuori, con la presunzione di espellerlo dalla storia del comunismo.
E invece testardamente quel nome in ditta rimase (e resta tutt’ora).
Di quella scelta Pietro Ingrao si rammaricò duramente. Tutto sarebbe stato diverso, forse meno doloroso, se Pietro avesse aperto ai nostri contenuti che pure originavano in parte da quello che chiamavamo «ingraismo» e dal dibattito interno al Pci.
Ora, a distanza di tanti decenni la questione comunista, il suo «grumo», può apparire desueta ma, insieme alle macerie emerse dopo il disastro del socialismo reale, arrivano ormai anche la rovina e la deriva delle svolte democratiche dell’89. Anche questa «spinta propulsiva» è finita. Hanno infatti prodotto a est società neo-autoritarie e fondate sul privilegio e a ovest la rivincita del capitalismo ancorché finanziario, la pauperizzazione della società, la divisione tra gli umani, inediti quanto violenti conflitti di classe, la rimessa in discussione dello stato sociale, mentre dilaga la puzza di nuove «nostre» guerre dalle quali fuggono in milioni di disperati.
Come possiamo allora dimenticarci del fatto che Pietro Ingrao è stato il difensore dell’articolo 11 della nostra Costituzione e che ha fatto del pacifismo un elemento costitutivo del suo pensiero e del suo fare politico. Un pacifismo-potenza mondiale storicamente sconfitto nel 2003 dalla scelta di Bush di avviare ad ogni costo una nuova, epocale quanto devastante guerra nel Golfo.
Questa è la scena che ci è dato vivere. E cambiare.
O vogliamo lasciare al nuovo papa le parole d’ordine della lotta alle diseguaglianze e al profitto, e quelle a favore degli ultimi, contro la guerra e per una vita e una società di servizio? Il suo è comunque un importante tentativo di esperimento sacro, che rimanda alla «rifondazione» della Chiesa e alla trascendenza; a noi spetta ancora l’esperimento profano di costruire sulla terra una nuova società di liberi ed uguali.
Pietro non ha mai rinunciato a proporre e ad interrogarsi come solo sapeva fare lui, vale a dire ininterrottamente e costruendo un paradigma a prima vista paradossale: quello della certezza del dubbio.
«Acchiappanuvole», «a caccia della luna», così i giornalisti mainstreamhanno preferito affrontare in questi giorni l’argomento dell’eredità di Pietro Ingrao. Ma solo chi si espone al dubbio cammina sul terreno delle verità. Soprattutto se parte da sé. Nella tensione ai contenuti comunisti e alla democrazia, alla classe operaia «costituente», il dubbio di Pietro era la sua scrittura.
Sia che prendesse appunti per un comizio o scrivesse di cronaca, sia che limasse i suoi preziosi versi. Perché la politica non era acquisizione di status ma militanza. Mettendo in gioco la complessità dell’individuo.
Pietro Ingrao assumeva il discorso dell’individualità, parlava di sé quando «i politici» si nascondevano: dava un contenuto nudo. Sorprendente, perché, di chi ci si può fidare se non di chi racconta quello che è? Soprendente perché il rischio della presa di parola poetica ha questo di disperato: non realizza l’ascolto degli altri e viene male interpretata come debolezza, non come più profonda ragione.
Pietro non nascondeva questa debolezza, anzi la manifestava: «La tenerezza come indichiarata/ molle radice del tempo». Senza dunque alleggerire la portata dell’errore e delle sconfitte, ma chiamando in causa se stesso, nella misura dei vinti e dei deboli.
Ecco le parole costitutive del lessico ingraiano: «grumo oscuro». Dà il segno del groviglio nascosto e primigenio, che bisogna districare.
Così Pietro ha affrontato i contenuti della sconfitta storica rimasta nel «gorgo» con la «poetica del progetto provato». Ha in mente donne e uomini, un mondo intero e generazioni che hanno tentato di prendere in mano il proprio destino. Un lascito per non mandare dispersi quei contenuti, consapevole che quella scelta è rimasta sotto tiro, sotto accusa.
Scrive: «il valore indifeso della scelta di campo». Parla di sé testimone del secolo breve e parla di noi che restiamo.
Fonte: il manifesto
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