La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 28 settembre 2015

Volkswagen, lo scandalo è nella normalità

di Tonino Bucci
Per giorni e giorni non s’è parlato d’altro. Titoli a caratteri cubitali, cronache, commenti, corsivi, talk show televisivi. Politici, manager, ingegneri, giornalisti, comici – tutti mobilitati per un dibattito mediatico che a tratti è sembrato uno psicodramma collettivo. Per la Germania lo scandalo Volkswagen delle emissioni diesel truccate è un duro colpo. Tra il danno di immagine e le ripercussioni economiche sono in tanti a temere per il futuro di un marchio che nel mondo è considerato il simbolo per eccellenza dell’auto tedesca.
È stato colpito al cuore il mito dell’efficienza, dell’affidabilità teutonica, della perfezione tecnica dei dettagli. La Gründlichkeit, la rinomata accuratezza dei tedeschi, il vanto di saper risolvere i problemi fin nel minimo dettaglio e senza sorprese, non poteva ricevere peggiore smentita. Qui, del resto, non si tratta di un errore tecnico. Il software installato nei motori diesel, in fondo, ha assolto perfettamente al compito di ridurre, solo al momento opportuno, i gas di scarico ai livelli previsti dalla legge. L’onta della Germania è l’aver sconfessato l’integrità morale e professionale di un’azienda tedesca che porta sulle spalle anche l’immagine del proprio paese. La Volkswagen non ha soltanto perpetrato un danno nei confronti dell’ambiente e dell’aria che respiriamo. Ha ingannato i consumatori – oltre ad averli truffati per avergli venduto automobili ad un certo prezzo inclusivo di requisiti tecnici che si sono rivelati assenti.
Ma è soprattutto una batosta incalcolabile per l’intera economia tedesca. Quanto costerà economicamente lo scandalo? Tanto, tantissimo. Soprattutto se si tiene conto che il marchio VW ha scalato in questi anni posizioni su posizioni per fatturati e ricavi.
Volkswagen – se non fosse chiaro – è la prima delle dieci aziende con più alto fatturato in Germania. Lo scorso anno il marchio di Wolfsburg ha incassato 203 miliardi di euro, seguito a grande distanza dalla Daimler con “soli” 130 miliardi e, giù a seguire, da altre grande aziende: E.ON, BMW, Schwarz (proprietaria di Lidl), BASF, Siemens, Metro, Deutsche Telekom e Deutsche Post. Un colosso, quindi, dalle cui sorti dipendono anche quelle della nazione. Per non parlare del mercato mondiale. Nel 2014 VW è arrivato a contendere il primo posto alla giapponese Toyota. Nel Nord America la casa tedesca ha venduto 843 mila automobili – 367mila veicoli diesel negli ultimi quattro anni.
Un primato che difficilmente potrà essere replicato in futuro. Volkswagen dovrà pagare una multa salatissima per aver infranto le norme ambientali che negli USA disciplinano le emissioni dei motori diesel. A queste potrebbero aggiungersi le azioni dei consumatori statunitensi per ottenere un risarcimento per la truffa subita. Anche in Germania le cose potrebbero mettersi male. La VW ha ammesso la manipolazione dei test anche per i modelli venduti sul mercato nazionale. Già si paventa un’azione della magistratura tedesca.
Eppure, nonostante il grande spazio concesso dai media all’argomento, niente sembra scuotere il privilegio di cui l’industria dell’auto gode nell’assetto delle lobby di potere. Non un ripensamento del modello di mobilità – per quanto la Germania abbia fatto molto per ripianificare le sue città a misura delle bicicletta. Soprattutto, nessuna disamina a fondo delle molte connessioni che legano gli interessi delle case automobilistiche agli atteggiamenti del governo e delle istituzioni pubbliche. Qualche accenno qui e lì, per esempio la rivelazione del quotidiano Die Welt, che in fondo non ha sorpreso nessuno: Berlino era già a conoscenza delle tecnologie impiegate per aggirare le norme sulle emissioni. Il governo non ignorava la discrepanza tra i valori dei test eseguiti in laboratorio e i consumi effettivi su strada dei modelli diesel della Volkswagen. Così come Bruxelles sa che anche altre case automobilistiche ricorrono a strategie simili per eludere le norme dell’UE.
Per il resto, nulla. Lo scandalo è esploso in contemporanea con la fiera dell’auto di Francoforte, una kermesse importante a livello internazionale. Nessun segnale, nessuna reazione. Allo stand della VW, come se niente fosse, sono stati presentati, tra riflettori e scenografie futuristiche, i modelli in uscita sul mercato il prossimo anno. Grande spazio per le novità, comprese le nuove versioni diesel Tiguan e Sharan. Sarebbe naif credere che lo scandalo dei motori diesel sia stata una svista dei vertici VW o l’iniziativa isolata di un reparto tecnico particolarmente intraprendente. Il marchio di Wolfsburg è un’azienda strutturata in maniera rigidamente gerarchica. Martin Winterkorn, il manager che alla fine si è dovuto dimettere, controllava tutto il gruppo, compreso il settore sviluppo. Subito dopo di lui, vengono Hans-Jakob Neusser e Ulrich Hackenberg, responsabili della progettazione e sviluppo dei motori utilizzati, rispettivamente, dalla VW e dall’Audi (che appartiene al marchio VW). Entrambi uomini di fiducia di Winterkorn.
Quel che è accaduto è stato il frutto di decisioni prese consapevolmente dall’alto. Non è realistico immaginare che i vertici VW avrebbero deciso di ricorrere ad un’espediente per sforare le norme sulle emissioni se non avessero avuto la ragionevole certezza di farla franca. Non avrebbero, altrimenti, rischiato di mandare in rovina un impero economico, sia pure per ragioni di competizione internazionale con gli altri marchi. Forse non lo avrebbero fatto se non fossero stati convinti che il sistema funziona per tutti così. Motivo per cui sotto sotto, nella stessa Germania, a dispetto delle reazioni nel mainstream dei media, nessuno è davvero convinto che lo scandalo VW sia un caso isolato.

Fonte: eunews.it 

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