La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 5 aprile 2016

Brasile: la metamorfosi di Lula, l'inchiesta-partito, le sfide dei movimenti

Intervista a Bruno Cava di Antonio Manconi
Intervista a Bruno Cava (Universidade Nomade, Rio de Janeiro), per provare a capire cosa succede in Brasile. Il paese è attraversato in questa fase da una profonda divisione. Da una parte un enorme movimento di piazza anti-corruzione, che chiede le dimissioni della presidente Dilma Roussef, dall'altra il PT, che insieme a una parte consistente della sinistra si è arroccato nella difesa del governo, agitando la minaccia di un golpe che sarebbe arrivo. Il punto di vista di Bruno Cava è quello di chi, dai movimenti, non accetta di fare sconti al governo di Dilma.
In Europa, nelle scorse settimane abbiamo visto le immagini del prelevamento coatto di Lula, degli scontri che ne sono seguiti tra la folla e i militanti del PT, dell'arresto del braccio destro dell'ex presidente, Paulo Okamoto. Poi le immagini dei cortei, quelli contro il governo e quelli, più ridotti, a favore. Quali sono, dal tuo punto di vista, le origini di questa crisi?
"Siamo in presenza di espressioni morbide della fine del ciclo progressista. A differenza dell'Argentina dove il «que se vayan todos» esplose nel 2001, prima del kirchnerismo, in Brasile la sollevazione della moltitudine è arrivata nel 2013, iscritta nel ciclo di proteste globali deflagrato con le rivoluzioni del 2010-12, in un momento nel quale il PT era al governo già da 10 anni (Lula, tra 2003 e 2010; Dilma, dal 2011). Quelle proteste si dimostrarono tanto potenti che spinsero (per un breve periodo) la presidenza a parlare della possibilità di una costituente, costrinsero alle dimissioni un governatore (nella Rio de Janeiro delle grandi opere), portarono il razzismo al centro della scena con la campagna «Dov'è Amarildo?». Inoltre i movimenti si resero protagonisti dell'archiviazione della omofobica “cura gay” e occuparono centinaia di case legislative nello spirito del movimento Occupy. Il governo del PT e i suoi alleati, intanto, promuovevano la repressione di quella mobilitazione, sia per mezzo della criminalizzazione indiretta, attraverso una nuova legge che punisce i “reati associativi”, e diretta contro movimenti e collettivi che si trovano fuori dal governismo, sia attraverso l'attacco alla soggettività alla base delle proteste, accusata di essere antipolitica o di destra.
Ironicamente, la soggettività alla base delle proteste, nella sua composizione sociale, corrispondeva alla nuova classe emersa con lo stesso lulismo, che io e Giuseppe Cocco abbiamo definito “lulismo selvaggio”. Il governo del PT, chiuso in una logica statalista-sviluppista, ha preferito distruggere le proteste del 2013, quando ancora non si gridava «Fora Dilma» o «Fora PT». Nel 2014, la repressione si intensificò nella realizzazione della Coppa del Mondo, con lo spionaggio generalizzato dell'attivismo e delle azioni di blocco delle proteste, come il kettling. Nell'elezione del 2014, il governo Dilma è alla fine riuscito a restaurare il consenso su ciò che sarebbe stato “il meno peggio”, attraverso una dialettica triviale fondata su una “utopia negativa” (katechòn), che ha funzionato specialmente con la sinistra brasiliana, ancora abbastanza vincolata ai valori fordisti-keynesiani e nazional-sviluppisti. Anche in maniera diversa da quello che è successo in Argentina, o sia, senza bisogno di un Macri, in Brasile la “svolta neoliberale” si è data all'interno dello stesso governo,( in contrasto con la “prova sviluppista” del primo mandato). La differenza è che Macri realizza e regola con l'ottimismo che viene dalla sua elezione tutto questo, mentre Dilma sconta una sfiducia generale, chiara in tutti i segmenti sociali e le regioni del paese, senza forza per governare queste riforme conservatrici.
Il risultato è stato che tutta la potenza sociale della sollevazione di giugno ha subito una trasformazione mistificante, convergendo, nel 2015, nell'operazione “Lava Jato”. Questa prefigura un'uscita poliziesca dalla crisi, come quella dell'operazione Mani Pulite. Con l'apertura della cassa nera del neo-sviluppismo dei governi Lula/Dilma - una delle tendenze del lulismo ormai dominante - questa operazione guidata dal giudice Sérgio Moro ha identificato una dinamica sistemica di corruzione permanente tra politici legati principalmente al governo e impresari di costruzioni. L'inchiesta ha raggiunto politici vicini a Lula, come l'ex-ministro José Dirceu o il tesoriere del PT, Vacarezza, e alla fine anche il presidente stesso. Secondo il giudice, all'interno di contratti miliardari alcuni fondi sono stati deviati per finanziare partiti e elezioni, mentre una parte è stata trasferita sui conti e i patrimoni privati delle due parti della negoziazione. In un'analisi materiale in termini di rapporti di forza, si può dire che l'operazione “Lava Jato” è l'esito giustizialista, legittimato socialmente, della fine del governo progressista, dopo che esso ha distrutto sistematicamente ogni alternativa, aperta dalle lotte o presentatasi in termini elettorali."
Nella sinistra europea c'è stata finora una forte sottovalutazione di quanto avveniva in Brasile e, in alcuni casi, una difesa aprioristica del governo, accompagnata dall'idea che in fondo gli scandali legati alla corruzione siano orchestrati “dall'alto”, dall'opposizione di destra e magari da interessi americani. Lo scenario brasiliano veniva dunque accostato a quello venezuelano, etc. Cosa ne è oggi di questa immagine?
"Se l'inchiesta avesse base in Brasilia, sarebbe impossibile portare avanti l'operazione “Lava Jato”. L'interpenetrazione di interessi e famiglie renderebbe quest'idea qualcosa di impensabile e di suicida. La “Lava Jato” ha guadagnato la dimensione che ha oggi solo perché è ricaduta sui giudici e procuratori di Curitiba, nello stato del sud del Paranà. Si tratta di un'operazione davvero sopra i partiti, che, nonostante sia concentrata su quelli legati al governo (PT, PMDB che ha lasciato il governo da pochi giorni e PP), riguarda anche i politici dell'opposizione, come lo stesso Aécio Neves, principale leader del PSDB. O meglio, quest'operazione è essa stessa un partito, un partito giustizialista con la forza conferita dal sentimento di disincanto e dal desiderio di rinnovamento. Il leader del governo al senato, il senatore Delcìdio do Amaral (PT), ha fatto una dettagliata delazione in cui, oltre ai vincoli di corruzione tra imprese e politici, rivela il tentativo di Dilma di sabotare le indagini, mediante manovre politiche e indicazioni chirurgiche ai tribunali superiori. Molti altri imprenditori legati al progetto politico del governo avevano fatto delazioni simili a proposito dei legami politici. Dunque, in campo c'è un'operazione abbastanza consistente, un ingranaggio che non arriva dal giorno alla notte, messo in moto da una generazione nuova e giustizialista, che ha raccolto la legittimità della tendenza antipolitica – un meccanismo globale e crescente. Evidentemente, il governismo PTista non esita a usare la carta del golpismo, portando alla memoria il golpe militare del 1964, sotto il segno dell'imperialismo nord-americano e della CIA. Nel frattempo, in uno scenario che non è polarizzato come il Venezuela o l'Argentina, questa carta semplicemente non ha nessun valore per la maggioranza della popolazione, come mostrano i sondaggi.
D'altra parte, in Venezuela, il militarismo ancora funziona all'interno stesso della matrice populista, come appoggio flessibile e diffuso (nella tradizione sud-americana dei militari dall'estrema sinistra alla destra, ma sempre nazionalisti), rappresentando una delle componenti del processo chavista; questo in Brasile non accade, e dunque è improbabile che arrivi una qualunque soluzione per questa via, sia un “golpe di sinistra”, sia un golpe in stile 1964.
Ma se il PT e Dilma sono già in calo in termini di popolarità, non si può negare che Lula, che ha lasciato la presidenza nel 2010 con un tasso di popolarità dell'87%, ha ancora un certo supporto popolare e forse una capacità di mobilitazione. L'importante rovescio della medaglia è che il Lula del 2016 è molto distante dal riconoscimento mondiale, quasi unanime, del 2010 – fuori dal Brasile le sinistre hanno una difficoltà enorme a liberarsi dei grandi simboli, quanto quella di rinnovarsi organizzativamente. Lo scenario, se è sicuro che passerà per l'agonia del Pt e del governo, non lo è altrettanto rispetto al senso che la crisi prenderà nei prossimi mesi, dipendendo più dalla mobilitazione sociale che dagli accordi di ricomposizione del sistema, o dal vettore esogeno perturbatore di “Lava Jato”.
Il governo sta ancora respirando, e punta tutto sul ritorno di Lula come superministro. Adesso, per tentare di sopravvivere all'impeachment, Lula e il PT trattano con tutte le parti, chiudono affari sia con la peggiore destra (il PP, il partito erede della dittatura), sia con i movimenti sociali e la sinistra organizzata. Ma l'impeachment non cambia nulla, perché è sopratutto un inside job del PMDB, il principale alleato del governo da 10 anni, che adesso, uscendo dal governo, tenta di rispondere all'indignazione nelle strade con una manovra lampedusana: cambiare tutto per non cambiare niente. La soluzione non la troveremo all'interno di questo sistema politico-economico esaurito, ma nella capacità creativa di agire comune al di là dell'impasse della polarizzazione. Questa è la via del Giugno di 2013, la via degli antagonismi reali. Ci sono linee di fuga in questa direzione in cui possiamo conricercare insieme all'interno della ingovernabilità imminente."

Fonte: dinamopress.it 

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