La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 25 maggio 2016

L’Europa è una fortezza?

di Francesco Ferri
L’idea che l’Europa sia una fortezza tende a consolidarsi, in concomitanza con l’avanzamento di alcuni processi di fortificazione dei suoi confini interni ed esterni. L’immagine della fortezza accompagna buona parte delle narrazioni della cosiddetta crisi dei migranti, con particolare riferimento a quelle che nascono in ambienti critici e di movimento. E’ innegabile che l’immaginario evocato dalla costruzione di molteplici muri e recinzioni intorno e dentro lo spazio europeo sia potente e inquietante. Allo stesso tempo, l’appiattimento dell’ordine del discorso intorno all’immagine della fortezza rischia, per lo meno, di rappresentare in maniera semplificata e parziale la realtà. Non si tratta di evocare la complessità come esercizio di stile. Si tratta, al contrario, di indagare la materialità delle trasformazione in corso per sottoporre a vaglio critico l’immagine della fortezza, indagandone l’aderenza alla realtà e l’utilità politica.
In questo senso, può essere utile analizzare ciò che succede attorno e dentro alcuni punti focali della crisi dei migranti, centrali nella narrazione contemporanea dell’Europa come fortezza: Idomeni, il Brennero, gli hotspot.
Idomeni, Europa, marzo 2016.
Il filo spinato si interpone, brutalmente, tra le migliaia di donne, uomini e bambini intrappolati a Idomeni e il loro desiderio di transito verso l’Europa centrale. Con i piedi e lo sguardo piantati nel fango di questo ultimo frammento di Grecia, o negli altri campi, formali ed informali, sparsi per il territorio greco, è davvero difficile resistere alla tentazione di pensare che l’Europa sia, in definitiva, un’inaccessibile, tetra fortezza, circondata da gendarmi e fossati. È difficile ma necessario. La chiusura delle frontiere lungo la cosiddetta rotta balcanica ha il segno della dichiarazione politica generale e inequivocabile. Allo stesso tempo, anche nella più significativa crisi del diritto d’asilo, dal dopo guerra ad oggi, sono riscontrabili una serie di elementi, procedure e retoriche, niente affatto marginali, che danno il senso di come, anche all’interno di una crisi così generalizzata, persista la necessità politica, materiale ed economica di pensare e praticare la differenziazione (e gerarchizzazione) delle donne e degli uomini in migrazione, e non la loro esclusione indifferenziata.
La Grecia, evidentemente, è un laboratorio (con rilevanza europea) a cielo aperto. In questa fase laboratoriale la governance delle migrazioni sembra innanzi tutto interessata a presentare un programma politico generale, riassumibile in una contrazione diffusa del diritto di accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. È un messaggio molto netto che, evidentemente, non impedirà i viaggi, via terra e via mare, ma costringerà i migranti a muoversi lungo altre rotte, almeno parzialmente più accessibili. Allo stesso tempo, ciò che succede in Grecia ha il sapore del monito: chiunque è in transito, o in attesa di partire, con le immagini di Idomeni in testa, ha il sentore di ciò che lo attende in Europa: difficoltà di accesso alla procedura di asilo (e quindi all’accoglienza), condizioni di transito (e di vita) gravemente deteriorate. Siamo di fronte alla costruzione di un diffuso clima di ostilità, capace di produrre effetti materiali e diretti nei confronti chi arriverà nelle prossime settimane, di chi è attualmente bloccato a ridosso dei confini, ma anche di chi è già entrato nei territori europei ed è costretto a vivere in condizioni giuridiche precarie senza soluzione di continuità.
Da questo punto di vista, l’immagine della fortezza incontra un primo limite. La retorica della fortezza Europa da l’idea di una separazione netta tra dentro e fuori, con l’interno della fortezza pensabile, in qualche misura, come uno spazio di accoglienza e di salvezza. Non è evidentemente così: le scelte politiche di ordine generale – si pensi, ad esempio, al carico ideologico che accompagna lo scellerato accordo Ue-Turchia – hanno il potere di operare ben al di là dello specifico contesto territoriale e ambito di competenza. Il rinnovo dei permessi, gli esiti dei colloqui in commissione, la contrattazione delle condizioni di lavoro e di vita, e così via, risentono immediatamente del clima politico europeo. I messaggi di ostilità, rilanciati dal management europeo delle migrazioni attraverso il laboratorio greco, hanno effetti materiali e diretti su tutte le donne e gli uomini in migrazione, anche con riferimento a chi già si trova all’interno dello spazio europeo. Il superamento di un confine – anche quand’esso coincide con un muro e col filo spinato – va desacralizzato: assistiamo alla proliferazione dei confini all’interno di tutto il percorso sociale, lavorativo, giuridico delle e dei migranti. Le etichette, le scelte politiche generali e il clima sociale producono un effetto diretto sulla materialità della vita di chi migra. L’Europa non è la terra promessa circondata da muri e polizia: è, senza soluzione di continuità, uno spazio di contraddizioni, conflitti e resistenze.
Sempre con riferimento alla situazione greca, il messaggio politico complessivo lanciato dagli attori del management si accompagna, in ogni caso, ad una serie di disposizioni, prassi e narrazioni che riaffermano, anche in una crisi tanto generalizzata e diffusa, la necessità di dividere, gerarchizzare, selezionare le e i migranti. Singole prassi, procedure e obiettivi riaffermano la necessità di pensare e produrre la differenza: si pensi al tema della relocation, teoricamente possibile per alcune nazionalità (si pensi ai siriani), assolutamente preclusa per chiunque venga etichettato come migrante economico.
Con riferimento a questa ultima ipotesi, anche all’interno di una crisi così evidente, i dispositivi narrativi, giuridici e amministrativi attraverso i quali viene prodotta la differenza tra potenziali richiedenti asilo e migranti economici non cessano di operare. Quest’ultimo elemento è tutt’altro che irrilevante: da il segno complessivo di come, accanto alle prassi (e alla propaganda politica) che annuncia (ed opera) chiusura ed esclusione, l’ossessione per la produzione di differenze e gerarchie tra migranti – funzionale alla valorizzazione economica e sociale dei flussi migratori – continui a governare le scelte politiche e le condizioni materiali di vita, dentro e fuori la cosiddetta fortezza.
Brennero, Europa, aprile 2016
È un confine simbolicamente importante, e centrale dal punto di vista della circolazione dei flussi economici, quello che separa (e unisce) Austria e Italia. La potenza simbolica (e materiale) della partita che si gioca intorno al confine del Brennero è resa ben visibile dalle mobilitazioni degli attivisti, che più volte, a partire dal 3 aprile, hanno attraversato la frontiera contrastando il progetto del governo austriaco di costruire barriere antimigranti. La recente evoluzione del contenzioso tra il governo austriaco e italiano intorno alla paventata chiusura del confine, letta con le lenti della narrazione secondo la quale dove c’è muro, c’è confine, potrebbe far pensare ad un inaspettato lieto fine. La stretta di mano tra Angelino Alfano e il suo collega austriaco Wolfgang Sobotka sancisce, per ora, la sospensione degli annunciati lavori di costruzione della fatidica barriera di 370 metri. La decisione potrebbe presto essere messa in discussione ma, allo stato attuale, quali sono le ragioni di questa improvvisa svolta “europeista” da parte dell’Austria?
Il governo austriaco ha raggiunto una serie di evidenti effetti materiali attraverso un prolungato effetto annuncio e una minaccia che continua a produrre effetti. Evocare la costruzione di un muro fa si che gli apparati amministrativi e di polizia si comportino (con ancora più intensità) effettivamente come un muro (che filtra e seleziona, divide e unisce, resta attraversabile in maniera flessibile) al di là dell’effettiva costruzione di nuove recinzioni.
Alla luce degli esiti attuali della vicenda , è chiaro che la rappresentazione mediatica e politica del confine è, mai come in questa fase, diversa rispetto alla sua articolazione reale. Un doppio obiettivo sembra, allo stato attuale, raggiunto: il flusso di persone (selettivo e differenziato) e di merci attraverso il valico è preservato, la minaccia del muro, e la realtà dei controlli, contribuiscono a consolidare quel clima di ostilità diffusa, funzionale alla messa in discussione dei diritti di chi migra.
A ristabilire una rappresentazione piuttosto attinente alla realtà dei fatti (e della natura del confine) ci pensano, non a caso, Thesese Niss, presidente della Jungle Industrie austriaca e Marco Gay, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria:
“I nostri sistemi economici e industriali – riferiscono– sono integrati in una più ampia macroregione alpina, l’Eusalp, di cui fanno parte sette diversi stati europei. Questa cooperazione ci ha permesso di continuare a produrre beni e servizi di qualità in modo sostenibile per il mercato europeo ed internazionale. Per questo, supportiamo la posizione della Commissione Europea, che la scorsa settimana ha dichiarato illegale ogni tentativo di costruire recinzioni lungo i confini interni”. La realtà dei fatti, messa in luce dei rappresentati dei giovani imprenditori, appare decisamente più chiara. Necessità economiche e propaganda politica viaggiano sui binari diversi, solo a tratti sovrapponibili. È giusto, necessario e possibile mobilitarsi per contrastare i progetti di fortificazione dei confini esterni ed interni dello spazio europeo. Allo stesso tempo, è fondamentale provare a tracciare collettivamente sguardi ampi sulla natura dei confini, sulla loro composizione flessibile, evitando i rischi di un appiattimento della narrazione di movimento intorno all’immagine del muro. La proposta politica di abbattere le frontiere ha sicuramente un forte fascino estetico, ma rischia di rappresentare in maniera parziale la realtà dei confini, che restano dei dispositivi complessi, diffusi e articolati, che operano incessantemente lungo e dentro tutta la vita delle e dei migranti, non soltanto dove sono resi visibili per necessità di propaganda politica.
Taranto, Europa, maggio 2016
La necessità politica di mettere in scena la differenza, di costruire incessantemente gerarchie e selezionare le e i migranti – già nella fase di accesso alle procedure –diventa ancora più evidente se ci si sofferma ad analizzare il funzionamento del metodo hotspot. Gli hotspot sono centri specifici, localizzanti in alcuni porti siciliani e nel porto di Taranto. Allo stesso tempo rappresentano, allo stato attuale, una dichiarazione programmatica generale in tema di gestione dei flussi migratori, che tende ad estendersi lungo tutta la filiera dell’accoglienza (e dell’esclusione).
Gli hotspot sono costituiti da una combinazione di oggetti, materiali, agenzie, dispositivi e retoriche allo stesso tempo includenti ed escludenti. La produzione della differenza è il tema generale che governa il funzionamento delle strutture (e del metodo). L’hotspot è attraversato da flussi di transito differenziali – dal punto di vista della velocità e della direzione – a seconda della nazionalità di provenienza delle e dei migranti. Gli hotspot fabbricano contemporaneamente e selettivamente, sotto la supervisione di Frontex, richiedenti asilo, destinatari (ipotetici) della procedure di relocation; donne e uomini illegalizzati (spesso tramite la somministrazione di grotteschi questionari); rimpatri.
È dunque messo in scena un ordine gerarchico fin dai momenti immediatamente successivi agli sbarchi. L’impianto ideologico che sorregge l’operazione è chiaro ed inquietante: richiedenti asilo e migranti economici possono essere prodotti e differenziati anche soltanto tramite la somministrazione del cosiddetto foglio notizie.
La distanza siderale tra questa differenziazione e la composizione attuale delle migrazioni contemporanee non rileva. Le etichette produco effetti indipendentemente dall’adesione al vero. Il risultato di questo meccanismo di produzione è evidente: gli hotspot producono forza lavoro tendenzialmente flessibile, economica, disciplinata. I rimpatri operano (anche) come un minaccia nei confronti di chi è accolto, e ancor di più nei confronti di chi è respinto e abbandonato sul territorio senza essere rimpatriato: una minaccia senza soluzione di continuità.
Le parole sono importanti, diceva qualcuno. Non appare un’operazione efficace, dal punto di vista dell’utilità politica, né tanto meno in grado di afferrare la realtà, la descrizione degli hotspot in termini di lager. Evidentemente, l’articolazione del confine all’interno del metodo hotspot non è leggibile con le sole lenti dell’esclusione indifferenziata. Al contrario, l’hotspot è un dispositivo di produzione di forza lavoro tutto situato all’interno della cosiddetta fortezza. Forza lavoro marginalizzata, prodotta per essere inclusa nei processi di valorizzazione economica in quanto portatrice di presunte differenze giuridiche, culturali, linguistiche: è questo il risultato conseguito attraverso il metodo hotspot, molto lontano dall’immaginario totalizzante dellager.
La crisi greca, le vicende del Brennero, e il consolidarsi del metodo hotspot, se analizzati con schemi interpretativi che superano l’immagine omologante della fortezza, possono aprire una serie di possibilità politiche. La posta in gioco non è la costruzione di uno spazio europeo ermeticamente isolato dal resto del mondo, reso impenetrabile e inaccessibile, che funzioni come una fortezza autonoma e autosufficiente. La posta in gioco è la produzione e la successiva valorizzazione economica delle vite di scarto.
Da questa prospettiva, è doppiamente necessario fare movimento over the fortress: contro i processi di fortificazione dei confini, oltre la narrazione dell’Europa come fortezza, dentro e contro tutte le contraddizioni, i conflitti e le resistenze che, senza soluzione di continuità, attraversano lo spazio europeo. È necessario riposizionare l’immagine del muro, evitando di isolarla dall’insieme dei dispositivi – politici, sociali, ideologici, giuridici, discorsivi, ecc – con i quali opera, problematizzando una certa predilezione militante nei confronti di tutto ciò che è recinzione e filo spinato.
Lo spettro della solidarietà politicizzata ha scosso l’agenda politica europea. È necessario e possibile dare forma, sostanza ed organizzazione a questa presenza spettrale, posizionando l’attivismo, i suoi sguardi – e i suoi corpi – all’interno di ogni conflitto che attraversa la società e le vite migranti, contro le fabbriche della differenza, per la libertà, i diritti e la dignità di tutte e tutti.

Fonte: Euronomade

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