Intervista a Mahi Binebine di Guido Caldiron
Come nasce un kamikaze? È questa la domanda cui ha cercato di rispondere Mahi Binebine all’indomani della strage di Casablanca che il 16 maggio del 2003 fece 41 vittime e una cinquantina di feriti, nel più grave attentato della storia del Marocco moderno. Quella sera, intorno alle 22, una decina di terroristi si fece saltare in aria nei luoghi più frequentati dagli stranieri, turisti o militari, soprattutto statunitensi, o che testimoniavano delle radici cosmopolite e multiculturali della città: l’Hôtel Faran, il Circolo dell’Alleanza israelita, la Casa de España, il ristorante Positano, il cimitero ebraico. I responsabili, si era all’epoca nel pieno del clima post-11 settembre, non venivano però dall’estero, non si trattava di combattenti rodati della causa della jihad globale, bensì, come riveleranno fin da subito le indagini, erano dei giovanissimi, spesso poco più che adolescenti, nati e cresciuti nella locale bidonville di Sidi Mounem, a pochi chilometri di distanza da quel centro cittadino in cui avevano scelto di morire e di dare la morte.
Sconvolto da quella vicenda, Mahi Binebine, scrittore e artista nato a Marrakech nel 1959 e che dopo aver vissuto e lavorato a Parigi, dove insegnava matematica, e New York ha scelto di tornare a vivere nella sua città natale nel 2002, ha sentito fin da subito di dover indagare su quanto era avvenuto e, in particolare, su cosa potesse aver trasformato quei ragazzi in fanatici e aspiranti suicidi. Il risultato di quella ricerca è diventato un romanzo corale, tenero e drammatico allo stesso tempo che dopo una lunga gestazione è uscito, in Francia nel 2010 con il titolo di Les étoiles de Sidi Moumen – da cui è stato tratto il film I Cavalli di Dio diretto da Nabil Ayouch, selezionato per gli Academy Award nel 2014 – e nel nostro paese da qualche settimana per Rizzoli come Il grande salto (pp. 159, euro 14,00). Binebine lo ha presentato recentemente al Salone di Torino e in un breve tour italiano che si è concluso al Cowall di Roma con un incontro dal titolo: «Dietro le quinte del fondamentalismo islamista».
Il suo romanzo nasce dal tentativo di capire cosa avesse generato la tragedia di Casablanca: cosa ha scoperto?
"Che la povertà, l’assenza di educazione e di cura, e soprattutto la violenza non possono che generare altra violenza. Quattordici ragazzi, tra i quindici e i ventitré anni, apparentemente senza storia, cresciuti in una enorme bidonville che si fanno saltare in aria: sentivo che dovevo comprendere come era stato possibile. Così mi sono recato in quella zona che avevo costeggiato tante volte perché si trova accanto alla superstrada Marrakech-Casablanca, ma che è resa invisibile all’esterno da un muro altissimo e dove vivono circa trecentomila persone. Ci sono moltissimi ragazzi che crescono per strada, giocando a pallone in mezzo all’immondizia, senza andare a scuola né lavorare. Sono sottoposti alla violenza degli adulti come alla loro stessa violenza, vittime di stupri e stupratori a loro volta. Un vero inferno."
È questo il clima in cui si è radicato il fondamentalismo?
"Una volta che ho cominciato a conoscere i ragazzi di Sidi Moumen, che ho fatto breccia nella loro naturale ritrosia a parlare con gli estranei, ho cominciato a capire cosa era successo. Qui lo Stato non esiste: niente scuole né corsi professionali, neppure l’ombra di educatori o assistenti sociali. E neanche la polizia si fa mai vedere. In questo deserto sono arrivati gli islamisti, quella che io chiamo la mafia religiosa, forti del denaro che ricevono da paesi come l’Arabia Saudita e hanno cominciato la loro «predicazione» nel segno dell’odio. Il metodo seguito è simile a quello adottato altrove in simili situazioni. Per prima cosa si occupano di questi ragazzi, gli offrono un lavoro, una qualche tipo di formazione, perfino dei vestiti, una dignità che prima nemmeno pensavano di possedere. Li fanno uscire dalla bidonville che è tutto il loro mondo, li portano in luoghi di preghiera in centro, in locali dove vengono indottrinati. Poi l’addestramento si fa più pressante. all’epoca con la proiezione di video di kamikaze ceceni o palestinesi e, infine, compaiono armi e esplosivi. In meno di due anni così costruivano una bomba umana."
Tornato da Sidi Mounem ha però deciso di tenere il suo romanzo nel cassetto per lungo tempo, perché?
"In effetti, ho abbandonato il progetto per cinque anni. Temevo che parlare delle responsabilità dello Stato potesse suonare come una sorta di alibi per il terrorismo. Non volevo che nessuno potesse dubitare di questo: i fondamentalisti sono il nemico. Poi, pian piano, mi sono reso conto che se mi fossi concentrato di più sulle vite di quei ragazzi, sui loro sogni, il romanzo parla delle «étoiles» di Sidi Mounem, perché da noi ogni squadra di calcio di quartiere è sempre soprannominata le «stelle», avrei potuto arrivare al punto che mi interessava di più. Quei kamikaze che la stampa aveva presentato come mostri erano in realtà anch’essi delle vittime, proprio come coloro che avevano ucciso. La condanna non bastava, bisognava fare in modo che non accadesse più."
E in effetti, il suo romanzo che racconta di ragazzini come Yachine – che sognano di diventare calciatori ma che finiscono per farsi saltare in aria – è diventato il primo tassello di un progetto ben più ambizioso. Di cosa si tratta?
"Proprio nelle settimane trascorse a parlare con i ragazzi di Sidi Mounem è nata l’idea di coinvolgerli in qualcosa di più ambizioso. Dopo che il libro, e soprattutto il film che ne ho tratto insieme al mio amico regista Nabil Ayouch, sono andati davvero molto bene, ho deciso di finanziare la nascita di un centro culturale nel cuore della bidonville. Uno spazio di più di duemila metri quadrati, con una sala cinema, una mediateca e sale per la danza e la musica che è frequentato ogni giorno da circa un migliaio di ragazzi. Qui i ragazzi sono protagonisti, si impegnano, cercano di emulare i loro idoli musiciali, come i rapper. Certo, è solo un primo passo, ma altri centri analoghi stanno per nascere nei quartieri difficili di Fès, Essaouira e Marrakech. Si tratta di offrire una chance a questi giovani che altrimenti finiscono per ritrovarsi nei garage trasformati in moschee ad ascoltare i sermoni di qualche predicatore dell’odio. Non sarà molto, ma perlomeno dimostra che la letteratura può ancora servire a qualcosa."
Dopo gli attentati di Casablanca anche la monarchia sembra aver compreso che la sfida fondamentalista è anche di natura sociale.
"Sì, lo Stato e lo stesso re Mohammed VI hanno capito che non fosse altro che per la sopravvivenza del sistema dovevano cominciare ad occuparsi di più dei giovani e delle bidonville. Hanno dato il via ad un programma di riabilitazione dei quartieri e varato alcune timide riforme sociali. Soprattutto, hanno cercato di togliere argomenti agli integralisti intervenendo sulla riforma del codice di famiglia e favorendo un’educazione religiosa sempre meno dogmatica. Inoltre, una parte degli islamisti sono stati coinvolti nell’amminsitrazione della cosa pubblica, favorendo così la loro presa di distanza dalla violenza. Il pericolo resta, ma la situazione è decisamente migliorata."
SCHEDA
MOSTRE. Alla Whitechapel di Londra, «Imperfect Chronology». L’arte che racconta i paesi arabi
Alla Whitechapel Gallery di Londra, è in corso la mostra presentata dalla Barjeel Art Foundation (che custodisce la più grande collezione di arte contemporanea araba) dal titolo Imperfect Chronology. La rassegna indaga emergenze e conseguenze dello sviluppo nei paesi arabi, a partire dal 1967, un anno cruciale in quei territori. Nella terza tappa di questo progetto espositivo (visitabile fino al 14 agosto), il percorso abbraccia fotografia e video realizzati durante il decennio dei Novanta. Fra gli ospiti, c’è l’artista marocchina Yto Barrada con Rue la Liberté (2000) dove due uomini si abbracciano dando le spalle alla telecamera. L’immagine fa parte di una più ampia serie di Barrada, The Strait Project (1998-2004), che documenta l’attesa e i gesti delle persone pronte alla fuga verso l’Europa attraverso lo stretto di Gibilterra. In mostra, anche le fotografie della serie Faces (2009) del duo libanese Joana Hadjithomas e Khalil Joreige. Ritraggono uomini che sono morti durante la guerra civile, per cause politiche e religiose. Tappezzano i muri delle città e subiscono le alterazioni del tempo, deformandosi e sbiadendo fino a diventare irriconoscibili. Dal 23 agosto, la quarta e ultima tappa di Imperfect Chronology esplorerà l’impegno degli artisti nel raccontare il luogo in cui vivono o lavorano. Come fa Iman Issa col suo Proposal for a Crystal Building: uno scintillante e fragile monumento di vetro, «inventato» per piazza Tahrir, al Cairo.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.