di Andrea Colombo
La campagna elettorale è finita. Quasi nessuno si era accorto che fosse cominciata. La visibilità della prova di domani è inversamente proporzionale alla sua importanza. In un Paese abituato a considerare test rilevante anche il voto dei comuni più sperduti, le elezioni nelle città più importanti e popolose sono state derubricate a fatterello. Il presidente del Consiglio, che a tempo perso è anche segretario del primo partito italiano (contando i voti all’estero), si è impegnato a fondo. Per spiegare che questa bazzecola non lo riguarda. Lo ha ripetuto anche ieri: «Si vota per i sindaci. La partita per il governo la giocheremo a ottobre». Non mi mettete in mezzo che non c’entro.
Non è stato il solo a mettere la sordina. Berlusconi, per esempio, mica si è fatto vedere a Milano, dove il suo candidato Stefano Parisi ha buone possibilità di rovesciare un risultato che pareva certo sconfiggendo il favoritissimo Beppe Sala. Gli ingenui se lo immaginerebbero lì a tirare la volata. Macché. Ha preferito correre a Ostia con Pupo, per sostenere Alfio Marchini a Roma. Dove è sicuro di perdere anche perché la sconfitta se la è preparata da solo a tavolino.
Beppe Grillo ha scelto di superare i rivali in discrezione. I pronostici lo vedono in procinto di conquistare la Capitale, risultato che suonerebbe inevitabilmente come possibile anticamera di una vittoria su scala nazionale. Non per questo si è scomodato per spuntare sul palco di piazza del Popolo, a Roma.
Gli stessi candidati, che a differenza di Renzi non possono fingersi disinteressati, hanno puntato quasi tutti su una discrezione al limite dell’invisibilità. A leggere le agende di fine campagne è un proliferare di salette, lounge bar e localini. Roba per pochi intimi. Giachetti, almeno, ha conquistato la palma dell’originalità con una corsa in moto lungo le desolate vie dell’immensa periferia capitolina. Vento in faccia ma qualche fermata per scambiare due chiacchiere qua e là con i potenziali elettori. Poi una festa notturna con i fedeli.
Le decisioni convergenti dei leader sono dettate in realtà da motivazioni diverse, anche se, messe insieme, segnalano una preoccupazione generale per l’esito del voto. Paura di perdere, e a volte di vincere. Per Renzi si tratta semplicemente di nascondere per quanto possibile un risultato che prevede sconfortante. Se scoprirà di aver avuto torto, metterà da parte la discrezione. Berlusconi voleva evitare un palco che lo condannava a figurare come capo del secondo partito. Non è mica l’unico che preferisce essere il primo a Ostia invece che il secondo a Milano. Persino Cesare, che era Cesare… Grillo temeva che la Raggi apparisse una pupazza nelle mani sue e dei “direttori”, rischio che in effetti la ragazza corre. Quanto ai i candidati, bisogna capirli: dovendo scontare una campagna tanto sotto tono, preferivano evitare il rischio di ritrovarsi di fronte a piazze semivuote. Le eccezioni sono per lo più incarnate da quelli che le piazze contavano di riempirle, come Raggi, Meloni che ha chiuso con un giorno di anticipo a Tor Bella Monaca o De Magistris sul lungomare napoletano. Ma a Napoli, in realtà, hanno sfidato la piazza tutti i candidati principali, e torna a loro onore.
Lo ha fatto anche Stefano Fassina, a Roma, con una manifestazione a Centocelle. L’escluso e poi riammesso, pur con scarne speranze di arrivare al ballottaggio, gioca una partita importante. Un buon risultato, del tutto possibile, dimostrerebbe che in Italia e non solo a Roma c’è spazio politico per una forza di sinistra. E’ anche vero che per quella forza in via di costituzione lo scoglio potrebbe arrivare quando si tratterà di sostenere uno degli sfidanti al ballottaggio. Se a contendere il Campidoglio alla Raggi sarà Giachetti le pressioni saranno inaudite. Anzi lo sono già. Ieri il presidente del Pd Orfini se ne è uscito spiegando che Fassina, a forza di andare a sinistra, finirà a destra, sostenendo la Raggi. Ecco, in questa campagna elettorale da dimenticare, ci mancavano giusto gli opposti estremismi…
Fonte: il manifesto
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