La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 2 giugno 2016

Uscire dall'Europa: soluzione o miraggio?

di Anselm Jappe 
Apparentemente, le cose sono semplici. La crisi finanziaria esplosa nel 2008, e che è ben lungi dall'essere terminata, ha rivelato il vero volto del capitalismo contemporaneo: l'economia, e in fin dei conti la società tutta intera, sono dominate dall'alta finanza. Le banche, le assicurazioni e i fondi di investimento non investono nella produzione reale, ma utilizzano quasi tutto il denaro disponibile gettandolo nella speculazione, che arricchisce soltanto gli speculatori, mentre distrugge posti di lavoro e crea miseria. Il capitale finanziario detta le sue leggi ai governi, ivi compresi quelli dei paesi più potenti, quando non preferisce corromperli. Inoltre, si compra anche i media. In questo modo, la democrazia viene ad essere svuotata di qualsiasi sostanza. Infatti, gli Stati, che lesinano perfino sulle spese più importanti per il bene pubblico, non hanno avuto problemi a trovare somme astronomiche per salvare le banche ed i profitti degli azionisti di tali banche. 
A fronte di una simile scandalosa situazione, ci si dovrebbe impegnare affinché una vera politica riaffermi i suoi diritti ed un governo di sinistra ponga limiti severi alla finanza, difenda il lavoro salariato e faccia tornare la piena occupazione?
Siamo poi così sicuri che tutta questa potenza della finanza, e le politiche neoliberiste che la sostengono, costituiscano la causa principale delle attuali turbolenze?
E se, invece, non fossero altro che il sintomo di una crisi assai più profonda, una crisi di tutta la società capitalista?
Quel che conferisce valore alle merci, è il lavoro che le crea. Meno tempo occorre per produrre una merce, meno valore ha, e meno costa. Ma dà anche meno profitto. L'aumento della produttività, elemento chiave dello sviluppo capitalista, ha come effetto paradossale quello di diminuire valore e plusvalore di ciascuna singola merce. Nel momento in cui i meccanismi di compensazione - in particolare l'aumento della produzione - non sono più sufficienti a compensare la caduta della redditività, il capitale comincia a indirizzarsi - soprattutto a partire dagli anni 1970 - verso il "capitale fittizio", dove il credito genera altro credito. Questo ha procurato ad alcuni notevoli profitti, ed ha causato danni sociali enormi. Tuttavia, questa non è stata niente di più che una fuga in avanti del sistema capitalista, e non una sua espansione. Non è possibile eliminare quella che è la causa profonda della crisi permanente della valorizzazione del capitale: la sostituzione della forza lavoro con le tecnologie, che in quanto tali non creano valore. La speculazione, lungi dall'essere il fattore perturbante in un'economia altrimenti sana, ha permesso negli ultimi decenni di continuare la fiction della prosperità capitalista.
Senza le stampelle fornite dalla finanziarizzazione, la società di mercato sarebbe già crollata, insieme ai suoi posti di lavoro e anche alla sua democrazia. Quel che si va delineando dietro le crisi finanziarie, è l'esaurimento delle categorie di base del capitalismo: merce e denaro, lavoro e valore. Il capitalismo non è solamente il dominio di alcuni ricchi malvagi sui lavoratori, ma consiste essenzialmente nel dominio impersonale esercitato dalla merce e dal denaro, dal lavoro e dal valore su tutta quanta la società. Queste categorie sono state create dall'umanità stessa - che però le considera come se fossero degli dei che la governano. È quello che Marx ha chiamato il "feticismo della merce".
Al giorno d'oggi, tutti ne partecipano, anche se ovviamente non tutti nello stesso ruolo e neppure con gli stessi benefici.
Richiedere che il capitalismo si "riorganizzi" per poter meglio ripartire e diventare più giusto, è illusorio: gli attuali cataclismi non sono dovuti affatto ad una congiura della frazione più rapace della classe dominante, ma costituiscono l'inevitabile conseguenza di problemi che fanno parte da sempre della natura stessa del capitalismo. 
Avere coscienza di tutto questo evita di cadere nella trappola del populismo che vuole liberare i "lavoratori e i risparmiatori onesti" - considerati come semplici vittime del sistema - dal potere di un male personalizzato nella figura dello speculatore. Salvare il capitalismo attribuendo tutti i suoi difetti alle manovre di una minoranza internazionale di "parassiti", è una cosa che abbiamo già visto. L'unica alternativa è una vera e propria critica della società capitalista in tutti i suoi aspetti (e non unicamente in quello del neoliberismo).
Il capitalismo non coincide con il solo mercato: lo Stato ne costituisce l'altra sua faccia, pur essendo strutturalmente sottomesso al capitale, che gli deve fornire gli indispensabili mezzi economici di intervento. Lo Stato non può mai essere uno spazio pubblico di decisione sovrana. Anche in quanto binomio Stato-Mercato, il capitalismo non è - o non è più - un semplice obbligo che viene imposto dall'esterno a dei soggetti sempre refrattari.
Il modo di vita che ha creato è diventato, da tempo e quasi ovunque, altamente desiderabile, e la sua possibile fine viene considerata una catastrofe.

Testo estratto dalla conferenza-dibattito di Anselm Jappe del 19 marzo 2016, ad Asquins 

Fonte: blackblog fancosenia

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