di Sangeeta Kamat
Stato di Maharashtra, India, marzo 1992. Sunita, un’attivista di una Community-Based NGO (tipo di organizzazione che opera a livello locale all’interno di una definita comunità in un’area geografica ristretta, in seguito CBO, ndt), si trova presso l’ufficio adibito al coordinamento delle amministrazioni locali. Le viene proposta un’offerta molto generosa: gestire, attraverso la sua organizzazione, tutti i primary health care centre (strutture sanitarie rurali di proprietà statale, in seguito PHC, ndt) del distretto. E avere quindi la possibilità di sradicare la corruzione dei medici e lavorare affinché i poveri possano realmente trarre beneficio da questi centri. Il governo, le viene detto, non potrebbe svolgere l’incarico meglio di quanto potrebbe farlo la sua organizzazione. Tutt’altro che lusingata, Sunita reagisce con rabbia: “Perché non ci affidate anche la gestione delle foreste, degli impianti idrici e della polizia? Allora saremo lieti di accettare la vostra offerta di gestione dei PHC”.
Un episodio marginale ma ben rappresentativo della situazione. Due decenni fa sarebbe stata cosa insolita ricevere l’invito da parte del governo di gestire la sanità o l’istruzione di base di un intero distretto. E nel 2002 sarebbe stato ancora più insolito che una Ong rifiutasse tale invito. Come sono riuscite le Ong, in dieci anni, ad ottenere una tale considerazione dalle agenzie di sviluppo istituzionali (coacervi di esperti e tecnocrati)? Quali sono le implicazioni di questa nuova stagione che accomuna le Ong alla democrazia? Cosa c’è stato alla base del rifiuto di Sunita? Il nuovo ruolo che le Ong stanno ricoprendo in India e in altri paesi del Terzo Mondo è generalmente visto come un trend positivo. Ed è considerato una dimostrazione del fatto che la democrazia si sia finalmente radicata nel tessuto culturale di queste società, non limitandosi ad essere mantenuta a livello formale dalle leggi e dalle istituzioni governative. La narrativa del rapporto tra stato e Ong può variare in base al contesto regionale, ma l’ascesa delle Ong rappresenta un fenomeno che dobbiamo comprendere in termini globali. Ne consegue che, sebbene il presente articolo si riferisca principalmente all’India, l’analisi qui esposta è attinente anche ad altri paesi che in Africa, nei Caraibi e nell’America Latina hanno vissuto analoghe transizioni politiche. Va fatta una precisazione sul termine Ong. Questo acronimo è diventato rappresentativo di una vasta gamma di organizzazioni della società civile che operano a livello locale, regionale, nazionale e/o internazionale. Ne consegue che la natura e le attività di queste organizzazioni varia a tal punto che qualsiasi generalizzazione sulle Ong potrebbe confondere, piuttosto che mostrare gli effetti del fenomeno. In questo breve articolo mi concentro sulle CBO, conosciute anche come organizzazioni di base, e sul modo in cui sono sia conseguenza che fattore attivo della politica economica globale.
Un episodio marginale ma ben rappresentativo della situazione. Due decenni fa sarebbe stata cosa insolita ricevere l’invito da parte del governo di gestire la sanità o l’istruzione di base di un intero distretto. E nel 2002 sarebbe stato ancora più insolito che una Ong rifiutasse tale invito. Come sono riuscite le Ong, in dieci anni, ad ottenere una tale considerazione dalle agenzie di sviluppo istituzionali (coacervi di esperti e tecnocrati)? Quali sono le implicazioni di questa nuova stagione che accomuna le Ong alla democrazia? Cosa c’è stato alla base del rifiuto di Sunita? Il nuovo ruolo che le Ong stanno ricoprendo in India e in altri paesi del Terzo Mondo è generalmente visto come un trend positivo. Ed è considerato una dimostrazione del fatto che la democrazia si sia finalmente radicata nel tessuto culturale di queste società, non limitandosi ad essere mantenuta a livello formale dalle leggi e dalle istituzioni governative. La narrativa del rapporto tra stato e Ong può variare in base al contesto regionale, ma l’ascesa delle Ong rappresenta un fenomeno che dobbiamo comprendere in termini globali. Ne consegue che, sebbene il presente articolo si riferisca principalmente all’India, l’analisi qui esposta è attinente anche ad altri paesi che in Africa, nei Caraibi e nell’America Latina hanno vissuto analoghe transizioni politiche. Va fatta una precisazione sul termine Ong. Questo acronimo è diventato rappresentativo di una vasta gamma di organizzazioni della società civile che operano a livello locale, regionale, nazionale e/o internazionale. Ne consegue che la natura e le attività di queste organizzazioni varia a tal punto che qualsiasi generalizzazione sulle Ong potrebbe confondere, piuttosto che mostrare gli effetti del fenomeno. In questo breve articolo mi concentro sulle CBO, conosciute anche come organizzazioni di base, e sul modo in cui sono sia conseguenza che fattore attivo della politica economica globale.
Il governo ha i suoi buoni motivi per chiedere il sostegno di organizzazioni come quella di Sunita. Il lavoro coordinato di attivisti come aiuta a costruire una base di appartenenza all’interno delle comunità rurali, che partecipano attivamente in vari progetti sociali ed economici gestiti dalle CBO. La natura di questo tipo di lavoro richiede l’interazione quotidiana tra organizzazione e comunità, in modo da costruire rapporti di cooperazione e fiducia reciproca, comprendere i bisogni della comunità e pianificare attività che possano soddisfare tali esigenze. Ne consegue che le CBO tendono ad essere in stretta relazione professionale con uomini e donne della comunità e con i suoi responsabili, alcuni dei quali sono stipendiati dalle CBO stesse. Il lavoro congiunto di attivisti e organizzazioni definibili “formazioni apartitiche e apolitiche” (Kothari, 1984) è stato spesso censurato come illegittimo e dichiarata attività anti-nazionale da parte dello stato, nonché ignorata dalle agenzie internazionali di donatori. Ma nei primi anni ’80 – con l’imposizione di aggiustamenti strutturali e di politiche economiche di stampo neo-liberale in Africa, America Latina e sud dell’Asia – le CBO sono diventate utili e addirittura necessarie allo stato neo-liberale e agli istituti internazionali della donazione.
Storia delle CBO
Queste organizzazioni si sono iniziate a sviluppare tra gli anni ’50 e gli anni ’80, in risposta al fallimento degli stati post-coloniali di assicurare i bisogni essenziali dei poveri. I responsabili erano principalmente cittadini socialmente consapevoli e provenienti dalla classe media, spesso attivisti/e di movimenti femministi e/o di estrema sinistra nel periodo post-indipendenza. Queste Ong ricercavano uno “sviluppo nel rispetto della giustizia sociale” attraverso campagne di sensibilizzazione sui diritti politici e progetti di assistenza socio-sanitaria. Ngo donatrici dalle solidi radici liberali, quali ad esempio la Oxfam in Inghilterra, erano ansiose di finanziare in modo diretto queste CBO a causa dell’impegno e dell’efficacia mostrati nel raggiungere i poveri. Ben più di quanto non riuscissero a fare i governi. Da allora le agenzie internazionali di cooperazione e sviluppo hanno iniziato a fare affidamento su queste organizzazioni perché considerate interlocutori affidabili per la realizzazione di programmi socio-economici su sanità e maternità, alfabetizzazione e progetti che potessero generare reddito su scala ristretta (Clark, 1997). Nonostante alcune critiche contro le Ngo, le CBO godono del supporto e del sostegno delle organizzazioni internazionali per lo svilupo, che le considerano catalizzatrici di sviluppo dal basso (Bebbington e Farrington, 1992; Banca Mondiale, 1998). Può essere affermato che questa prima fase delle CBO abbia portato allo sviluppo di culture pluraliste e democratiche in molti paesi post-coloniali, ma oggi sono considerate accomodanti verso l’odierno clima di riforme del libero mercato e di smantellamento dello stato sociale e della democrazia. L’imposizione di politiche di aggiustamento strutturale nel Sud e le conseguenti riduzioni della spesa pubblica hanno portato ad un aumento esponenziale di questo tipo di Ong, portando alcuni critici a sostenere che si stia assistendo a un fenomeno simile al “franchising dello stato” (Wood, 1997).
Gli istituti finanziari che da un lato invocano la rinuncia da parte dello stato di sostenere gli interventi sociali, dall’altro lato stanziano fondi per far svolgere alle CBO quei medesimi interventi sociali. Segno che l’espansione di questo tipo di organizzazioni è spesso indotto da decisioni di politica estera (Robinson, 1997; Wood, 1997). La politica dualistica degli istituti internazionali svende la storia iniziale delle CBO, quella in cui erano simbolo di una vibrante cultura politica, indipendente e slegata da patrocini statali o degli istituti internazionali stessi (per leggere di più sulla storia delle CBO cliccare QUI).
Un matrimonio di convenienza
Molti autori hanno sottolineato il “matrimonio di convenienza” tra molte Ong e gli interessi del capitale internazionale. Il direttore di un grande network di organizzazioni indiane, che subappalta il lavoro a piccole CBO, ha proposto che le organizzazioni di volontariato adottino ragionino ed operino come imprese private, imparando a guardare i propri membri con la lente del profitto. Quest’uomo ha ammesso che le politiche di assistenza e i servizi sociali siano ancora necessari, ma che quando si tratta di “economia” non si può ammettere l’esistenza di “scrocconi”. Sostanzialmente, il suo punto è che l’impostazione precedente permetteva ai poveri di accedere a prestiti e fonti, una situazione che a detta sua non può continuare per sempre. Questo nuovo orientamento richiede cambiamenti sia sul piano organizzativo che su quello ideologico. Sul piano organizzativo, l’esplicita proposta è quella di assumere persone con capacità imprenditoriale, offrire loro stipendi di mercato, selezionare ulteriormente i beneficiari di sussidi e fondi e favorire le iniziative commerciali che siano redditizie (supportando ad esempio perfino l’allevamento di gamberi, una pratica che è notoriamente distruttiva per l’ambiente). Sul piano ideologico, è stato dichiarato che le Ong debbano finirla di vedere il sistema economico come ingiusto e ineguale nei confronti del povero e che debbano concentrarsi sulle opportunità che il sistema stesso nasconde (per chi siano queste opportunità, è convenientemente taciuto) (Mahajan, 1994). Non soltanto questa nuova visione del mondo porta le Ong ad operare ignorando le questioni di classe, casta, genere e ambiente, ma addirittura – cosa ancora più pericolosa – tenderanno ad emarginare e delegittimare i movimenti che portano avanti battaglie su questi temi. La nozione neo-liberale di responsabilizzazione porta a concentrarsi sulle capacità individuali e sui bisogni dei poveri, tralasciando di conseguenza qualsiasi riflessione sulle cause sociali e politiche della povertà stessa. L’individuo è inteso sia come problema che come soluzione alla povertà, piuttosto che come l’obiettivo delle politiche di redistribuzione dello stato o di politiche commerciali globali. La popolarità dei programmi di microcredito tra le agenzie internazionali può essere compresa esclusivamente in questo contesto in cui lo stato non è più responsabile della creazione di posti di lavoro e in cui ci si aspetta che le popolazioni povere raggiungano autonomamente la capacità di sostenersi. Quella dei mezzi di sussistenza diventa una questione di utilizzo ottimale delle abilità e delle risorse che una persona ha. In assenza di un’educazione critica e di sensibilizzazione, le alternative al regime economico dominante hanno sempre meno probabilità di emergere, così come lo sono le nuove posizioni sul bene collettivo. La Banca Mondiale si è così espressa sulle implicazioni dell’approccio neo-liberale alla responsabilizzazione:
Quando vengono rafforzate le capacità dei poveri e le loro voci iniziano ad essere ascoltate, diventano “clienti” in grado di chiedere e pagare beni e servizi, sia dal governo che da agenzie private… Il cerchio si chiude quando questi clienti diventano poi i proprietari e i gestori dei loro patrimoni e delle loro attività. (Banca Mondiale, 1995: 7)
La nozione neo-liberale di responsabilizzazione porta inconfondibilmente alla mercatizzazione delle identità e delle relazioni sociali. L’idea di bene collettivo e di servizio pubblico è totalmente inesistente in questa forma di partecipazione. Individuare il processo di responsabilizzazione in cui ognuno mira a costruire le proprie capacità per accedere al mercato riduce il concetto di assistenza ai meri interessi privati. In questo senso, il benessere pubblico viene ridotto a un aggregato di guadagni individuali, e la nozione socialdemocratica di bene collettivo – in cui quest’ultimo deve prevalere sugli interessi privati – cessa di esistere. Operando nel contesto neo-liberale di sviluppo, la democrazia viene resa un progetto irrealizzabile e impossibile. È questo ciò che avviene quando la domanda di mercato determina la distribuzione delle risorse, cioè quando le CBO incontrano la domanda delle agenzie di aiuto internazionale, stravolgendo completamente la struttura e il campo di azione dell’attivismo.
Una politica fondata sulla lotta
Questa ristrutturazione ha alterato le fondamenta delle politiche sociali in India, indebolendo la sopravvivenza di movimenti popolari come la Narmada Bachao Andolan e il Forum dei pescatori del Kerala, così come numerose altre organizzazioni meno conosciute. La domanda di Ong operative è giustificata in quanto ritenuta essere un modo più efficace per l’erogazione di servizi sociali. Il governo e il capitale internazionale percepiscono dunque come inefficace il duro lavoro di coordinamento locale dei gruppi più marginali, realizzato per poter comprendere meglio le loro esigenze. Forse perché troppo spesso le loro stesse esigenze sono radicalmente opposte agli interessi delle elite neo-liberali e del capitale? Le reti di associazioni che stabiliscono rapporti strumentali nelle proprie circoscrizioni, permettono agli esperti dello sviluppo di procedere come se le richieste del popolo fosse un qualcosa di intrinsecamente conosciuto e predefinito: strade, elettricità, istruzione, cibo, controllo delle nascite per le donne, micro-credito, allevamenti di pollo e altre attività simili. In questo contesto, il connubio tra Ong e agenzie internazionali simula la realizzazione di responsabilizzazione e partecipazione, nonostante questi termini siano poi svuotati del loro significato. Il flusso di denaro internazionale riversato nelle tasche di quest Ong, accompagnato dal cinismo verso le le politiche radicali, legittima le organizzazioni impegnate in progetti di sviluppo erodendo lo spazio vitale delle organizzazioni che lottano per dei diritti. Per quanto possa suonare astratto, il concetto di “politica fondata sulla lotta” si riferisce a quei gruppi che si organizzano per sfidare le verità imposte dei moderni stati-nazione: tecnologia, liberalismo, capitalismo e un’identità nazionale unificata che possa essere vista come salvatrice di tutto ciò. La replica sarcastica di Sunita è, in molti modi, un mettere in dubbio questi ideali. Lei ha messo in discussione il superficiale progetto governativo di una democratica gestione dei PHC da parte della comunità. Lo stato è interessato a garantire un’efficace erogazione dei servizi, ma a determinate condizioni e in determinati contesti. In questo senso le Ong avrebbero un ruolo funzionale ed operativo e non raggiungerebbero il loro obiettivo: educare la comunità locale sulle cause della malasanità e delle malattie (la povertà è ad esempio una delle cause principali). Le Ong inoltre smetterebbero di chiedere allo stato di realizzare programmi sanitari alternativi (come la ricerca sulla medicina preventiva), di perseguire politiche a tutela dell’ambiente, di preservare gli aspetti positivi della medicina indigena e così via. Sunita ha anche mostrato che il governo non si sognerebbe mai di dare in gestione quei settori che determinano – in modo più determinante e intrinseco – la buona o cattiva salute dei poveri: politiche forestali, idriche e di sicurezza. Se intendiamo in questo modo la politica fondata sulla lotta, capiamo che permettere alle Ong di imprenditori e professionisti di sostituirla può avere gravi conseguenze sull’esistenza stessa dell’attivismo politico.
Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista.
Fonte: Frontiere News
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